Opere di

Sara Gambazza


Con l’opera «Ludovico Leonardo Leontelli, otto anni, eroe» è risultata 3ˆ classificata nella XVII Edizione del Premio Letterario Città di Melegnano 2012 – Sezione narrativa – Clicca qui per leggere il racconto premiato


Questa la motivazione della Giuria:

«Un bellissimo racconto, vivace, commovente, scritto con il linguaggio solare e felice di un bambino ottimista e concreto, che vive la sua diversità come un fattore insolito, e non solo sfortunato della vita: l’autrice così narra l’atto di eroismo di un piccolo disabile di otto anni, privo delle gambe per una malattia infantile, che tuttavia riesce proprio grazie a questo handicap a salvare tutta la sua classe da un incendio in palestra.
La quotidianità di Ludovico è descritta con disinvolta semplicità e con l’incanto infantile della purezza e dell’accettazione della sorte, qualunque essa sia, privando la storia di quell’algofilia così scontata e accattivante che spesso scorgiamo nella filmografia o nella letteratura di effetto.
La scrittrice pone in risalto la straordinaria possibilità di talento che si sviluppa proprio grazie alla carenza, e in questo caso è la forza muscolare che Ludovico ha nelle braccia, che lo sorreggono quando non è munito di protesi, ma anche la sua capacità di pensiero logico e scarno, data proprio dal suo dover affrontare giorno per giorno la sua menomazione con un atto volutamente razionale. Ludovico è un eroe a ogni alba della sua vita, nel vestirsi, nel rapportarsi agli altri, all’interno della sua famiglia, nel far sentire a tutti che le sue protesi sono soltanto un fattore di diversa casualità, stimolo per essere migliore.
È proprio la diversità a creare il genio, l’inventiva, la salvezza.
Questo è il messaggio più sublime e moderno per l’umanità: l’imperfezione è ciò che trascende la media normalità e la scuote dai suoi pregiudizi e dalle sue teorie confutabili dalla vita stessa.
Ludovico Leonardo Leontelli è un vero eroe dei nostri tempi».

Alessandra Crabbia


Ludovico Leonardo Leontelli, otto anni, eroe

Mi chiamo Ludovico Leonardo Leontelli, ho otto anni e sono un eroe.
Mi piacciono moltissimo i fumetti (anche più della cioccolata e delle notti nel lettone con la mamma quando papà non c’è) e nei fumetti, prima di arrivare all’avventura vera, ti fanno vedere bene il protagonista, così tu poi lo riconosci e puoi seguire la storia tifando per lui. Io non so disegnare, quindi bisogna che vi racconti come sono fatto.
Sono un bambino e,visto che vi ho detto che ho otto anni, questo l’avevate capito. Ho i capelli castani come la mamma e gli occhi azzurri come il papà. Ho le lentiggini sulle guance, il naso un po’ schiacciato e la bocca grande più o meno come uno spicchio di mandarino. Che noia, vorrei saper disegnare…
Sono magro; non ossuto, diciamo snello.
Sono alto centoventi centimetri con le gambe e ottanta senza gambe. E qui bisogna spiegare.

Mi sono ammalato quando ero così piccolo che non me lo ricordo nemmeno. La mamma mi ha spiegato che le persone sono fatte di cellule, delle palline microscopiche che insieme formano la testa, le braccia, le gambe, insomma tutto quello che si vede, ma anche quello che non si vede, tipo il cuore, il cervello e tutto il resto.
Le cellule sono come i mattoncini Lego, solo molto più piccole.
Ogni cellula ha un compito, sa quello che deve fare e lo fa. Per dire: c’è la cellula pelle che, insieme a tutte le cellule pelle, ti copre il corpo, le cellule capello formano i capelli (mia sorella, che ce li ha lunghi due metri, ne ha tantissime), eccetera. Più o meno è così.
A volte le cellule impazziscono e nessuno sa perché; è come quando uno diventa matto d’un botto e fa delle cose bruttissime e al telegiornale tutti dicono che quella lì era una persona normale.
Quando le cellule impazziscono non fanno più quello che devono fare; piano piano cambiano e diventano una cosa diversa.
Come un mattoncino Lego che diventa plastilina e fa crollare tutta la torre; la cellula pazza è così. Ed è anche contagiosa, peggio di un raffreddore di quelli tosti, perciò in poco tempo tutte le cellule vicine diventano pazze come lei e, nel corpo, si forma una grossa cosa che non c’entra niente con tutto il resto.
Io questo un po’ lo trovo figo; lo so che è una malattia e che fa star male le persone, ma quando ci penso mi vengono in mente gli alieni e secondo me a volte sono gli alieni che entrano nelle cellule e diventano sempre più grandi per rubare il corpo degli umani. Lo trovo figo perché mi piacciono un sacco i film di fantascienza!
Magari se i dottori non curassero questa malattia, le cellule pazze diventerebbero sempre di più e sempre più grandi e la persona ammalata si sveglierebbe una mattina col corpo di un alieno, tutto liscio, con la testa ovale, senza bocca e con gli occhi giganti.
Io sono stato curato, perciò non mi sono trasformato.
Quando ero molto piccolo, sono impazzite le cellule delle mie ossa, le ossa delle gambe: prima da una parte, poi dall’altra.
Una sfortuna vera… Sono stato tanto tempo in ospedale e mi hanno tagliato le gambe fino al ginocchio. Poi sono guarito e ho cominciato ad usare le gambe finte.

Di gambe finte ne ho già avute parecchie, perché quando cresco bisogna cambiarle e metterle più lunghe.
La cosa buffa è che mia sorella, che ha due anni più di me e si chiama Virginia Maria Leontelli, si misura sempre perché vuole diventare alta e cresce di una tacca alla volta; io invece mi misuro apposta quando cambio le gambe e cresco di cinque tacche tutte insieme e lei urla e dice che non è valido!
Però cambiare le gambe non è molto bello, perché per un po’ di giorni mi fanno male e mi vengono le vesciche alle ginocchia.
La mamma dice che è normale e che anche a lei vengono le vesciche ai piedi con le scarpe nuove.
La mamma ha dei piedi bellissimi, io glieli guardo sempre: si dipinge le unghie di tutti colori e mette le scarpe coi tacchi alti.
Chissà com’erano i miei piedi; a volte ci penso.
Magari avevano le dita corte come la mamma, o forse erano tutti nodosi e un po’ pelosi come quelli di papà.
Mi piacerebbe vederli, ma vederli come sarebbero adesso, non come nelle foto da piccolissimo, perché lì sono buffi e un po’ rotondi, come quelli di tutti i bambini neonati.
Va beh, lo so che è una cosa impossibile.
Perché in effetti ci sono delle cose impossibili anche se papà dice di no. Ma lui intende un’altra cosa.
Lui dice sempre che non c’è niente di impossibile perché vuole che faccia tutte le cose come se avessi le gambe.
E io le faccio.
Faccio le corse, vado in bicicletta (anche se è stato proprio difficile imparare e dopo ero molto fiero!), faccio ginnastica a scuola e in Settembre andrò a nuoto e nuoterò senza protesi (che sono le gambe finte); non vedo l’ora!
E quindi, a parte il fatto che non potrò mai vedere i miei piedi, è vero che non c’è niente di impossibile.
Stavo dicendo però che non mi piace cambiare le gambe e non mi piace anche per un altro motivo: con le gambe nuove cammino male, malissimo, sembro Gambadilegno, che è come mi chiama mia sorella quando vuol farmi i dispetti.
E a me non piace camminare male, perché mi guardano tutti e mi vergogno.
La mamma dice che non mi devo vergognare e che le persone sono curiose quando vedono una cosa diversa dal solito, ma poi si abituano e non ci fanno più caso.
Io so che ha ragione, perché quando ho visto il mio vicino Giacomo per la prima volta, che ha una malattia che si chiama Sindrome di Down che gli fa la faccia un po’ schiacciata, l’ho fissato molto, me lo ricordo. Adesso non lo fisso più, anche perché è diventato mio amico ed è un tipo forte!
Però quando la cosa diversa dal solito sono io, non mi piace neanche un po’ e vorrei che tutti, per strada e a scuola, girassero le loro testacce e guardassero dall’altra parte.
Per la verità non tutti a scuola mi guardano strano, i miei amici per esempio non lo fanno.
I miei migliori amici sono Marco e Gianluca. A Marco e Gianluca gliele ho fatte vedere le protesi e gli ho fatto vedere anche come me le tolgo e me le metto. Loro volevano sapere un sacco di cose, ma quella che volevano sapere più di tutte è se la forma dei piedi è come quelli veri. Per quello glieli ho fatti vedere.
E loro li toccavano e mi chiedevano se potevo mettermi tutte le scarpe che volevo e se li dovevo lavare tutte le sere e, in quel giorno preciso, mi sono sentito felice di avere delle gambe speciali!

Come al solito ho raccontato troppe cose; la mamma me lo dice sempre che non smetto mai di parlare e me lo dice anche la maestra a scuola.
Beh, facciamo che tutte queste cose che ho detto sono come un disegno grande una pagina del libro a fumetti.

La mattina in cui sono diventato un eroe, mi sono svegliato alle sette come al solito, ho fatto colazione come al solito e mi sono incantato davanti alla televisione come al solito.
La mamma si è arrabbiata… come al solito.
«Ludovico sei ancora lì?» mi ha detto «Non hai ancora messo le gambe? Muoviti e vestiti prima che io abbia tempo di dire A!».
Quando la mamma perde la pazienza mi chiama Ludovico, mentre quando è tranquilla mi chiama Ludo.
Lo fa per far capire che dice proprio a me, Ludovico Leonardo Leontelli, e non al bambino che le da sempre i baci e che porta a casa da scuola i fiori del giardino per metterli nei vasetti; e questo mi fa venire i nervi perché Ludovico Leonardo Leontelli e quel bambino lì sono la stessa persona e lei fa finta di non ricordarselo.
Comunque, per non vederla diventare tutta rossa e spettinata, visto che era già bella e pronta per l’ufficio, mi sono mosso.
Ho messo le gambe (le metto sempre dopo colazione perché prima mi pesano come i sassi. Tanto in casa mi muovo bene anche senza; dondolo sulle braccia. Faccio come il gorilla, capito no? Ho le braccia molto forti, il pediatra mi dice sempre che sembro Maciste, che non so neanche chi è, ma sarà uno forzuto di sicuro!)… dicevo: ho messo le gambe, mi sono vestito, non proprio nel tempo che ci vuole a dire A ma non tanto di più, ho tirato i capelli a mia sorella che continuava a spingermi e sono uscito con lei e con la mamma per andare a scuola.
Era Venerdì, avevamo due ore di ginnastica dopo l’intervallo ed ero contento.
Le prime due ore sono passate lentissime: la maestra ha spiegato prima gli aggettivi qualificativi, poi ha cominciato con matematica e ci ha fatto fare le moltiplicazioni. Gli aggettivi mi sono piaciuti, ma le moltiplicazioni per niente.
Abbiamo fatto l’intervallo in fretta perché fuori pioveva e bisogna fare un pezzettino di strada per arrivare in palestra; quando abbiamo tutti l’ombrello siamo lenti da matti e bisogna partire prima.
Siamo usciti in fila indiana e abbiamo riso come i matti perché la pioggia era fortissima e, anche se eravamo sotto gli ombrelli, ci siamo bagnati dalla testa ai piedi! Un po’ lo facevamo apposta a spruzzarci e spruzzavamo soprattutto le femmine; poi però finisce sempre che lo dicono alla maestra e il gioco finisce.
Federico saltava dentro le pozzanghere grosse e lo faceva per farsi vedere dall’Elena, che è la sua innamorata, ma lei aveva freddo e stava tutta rannicchiata sotto l’ombrello, non lo guardava neanche.
Siamo arrivati in palestra e siamo andati negli spogliatoi a cambiarci. Io mi sono messo nel solito posto con Marco e Gianluca e, intanto che ci cambiavamo, ci siamo scambiati le figurine.
Fuori venivano dei tuoni tanto forti da far tremare i vetri; giuro, mai sentiti dei tuoni così.
La maestra ci ha chiamati perché ci mettevamo troppo e siamo andati tutti da lei; ci ha fatti mettere in cerchio e ha cominciato a spiegare gli esercizi.
È successo quasi subito.
C’è stato un lampo e dopo un tuono peggio di un missile che supera la barriera del suono; ci siamo spaventati, anche perché è andata via la luce un secondo, poi è tornata.
Ma nessuno si è accorto di una cosa grave: si era formata una scintilla nella presa della luce, vicino alla porta.
I vigili del fuoco dopo, quando sono andati a controllare,hanno detto che è stato un cortocircuito.
La presa era proprio dietro ai materassini di gommapiuma e i materassini hanno preso fuoco.
Noi non l’abbiamo visto, perché eravamo dall’altra parte e all’inizio il fuoco era piccolo.
Ma poi i materassini, che erano vicino alle sedie di plastica, hanno dato fuoco anche a quelle e le sedie al materasso grande per il salto in alto e in un attimo, ma un attimo per davvero, tutta quella parte di palestra bruciava ed era una cosa da far paura anche a Capitan America!
Ce ne siamo accorti all’improvviso: abbiamo sentito una puzza di gomma bruciata, di gas e di fumo, ci siamo girati e abbiamo visto le fiamme altissime.
Molti si sono messi a urlare e la maestra più di tutti. Io no, perché prima dovevo capire bene.
Una cosa l’ho capita: la maestra era troppo spaventata per fare qualcosa di buono. E infatti… ha cercato di prendere l’estintore attaccato al muro; ha fatto una gran fatica a staccarlo e, quando l’ha staccato, non sapeva più cosa fare. Lo tirava di qua e di là, lo agitava, ma non usciva niente. Dopo un po’, ha appoggiato l’estintore in terra e si è messa a piangere.
E guardate che la capisco, perché il fuoco diventava sempre più grande e faceva veramente paura.
La porta principale era tutta di fuoco e la porta d’emergenza era chiusa da fuori col lucchetto.
Adesso direte che è una cosa pazzesca, e infatti è così, ma, quando si fanno le cose stupide,ci si pensa sempre dopo che sono stupide, all’inizio non ti sembrano delle brutte idee.
Il fatto è che, nella palestra della scuola, ci entravano i ladri e si portavano via qualsiasi cosa, una volta addirittura i rubinetti dei lavandini. Entravano di notte dalla porta d’emergenza e, quando il preside si è stancato, ha deciso di mettere una catena sulla porta, dalla parte di fuori dove tutti la potevano vedere; ha chiuso la catena col lucchetto e ha dato le chiavi alle maestre.
Ma quel giorno, il lucchetto era fuori e noi, la maestra e le chiavi eravamo dentro.
Il telefono in palestra non prende; quando andiamo a vedere gli spettacoli di danza di mia sorella, se papà deve fare una telefonata (perché lui lavora sempre) va fuori dalla porta.
Insomma, eravamo proprio intrappolati.

In un fumetto,a questo punto della storia, si vedrebbe un disegno col fuoco, le bocche spalancate dei bambini che gridano e gli occhi grandissimi del protagonista, che vogliono dire che il personaggio è spaventato. Ve lo immaginate?
Io non me lo devo immaginare, ero lì, ed era proprio così.

La maestra piangeva sempre di più e provava a chiamare i pompieri, ma non riusciva e diceva «Maledetto,maledetto!» al suo telefono. Poi ha detto a tutti di seguirla e siamo andati nello spogliatoio delle femmine; ci siamo messi a gridare «Aiuto! Aiuto!» e qualcuno gridava anche «Mamma!», ma fuori pioveva tantissimo e non passava nessuno.
A me veniva da tossire e anche a molti miei compagni, perché il fumo e l’odore di gomma erano fortissimi e si attaccavano alla gola come le medicine sciroppose.
I miei amici urlavano e piangevano e io vedevo le cose rallentate. Non so perché, ma mi sembrava che il tempo passasse lentissimo e vedevo tutto superbene, come se mi fossero spuntati altri due occhi. Vedevo la muffa nell’angolo, la cicca appiccicata sotto la panca, la macchia di fango sui pantaloni di Marcello, cose così; e pensavo che dovevano bruciare anche tutte quelle cose e che dopo non le avrebbe più viste nessuno. Sembra una cosa scema perché stavo per bruciare io tutto intero e pensavo alla cicca sotto la panca, ma quando sei in pericolo vero, non quando vai forte in bici e rischi di cadere, ma un pericolo gigantesco come quello che sto raccontando, la testa funziona in modo strano.
Comunque, guarda di qua e guarda di là, ad un certo punto ho guardato su e ho visto un finestrino piccolo, di quelli che si aprono con quelle aste lunghissime. Era molto in alto, tipo tre metri e stretto stretto, ma se si riusciva ad uscire di lì, poi si poteva andare a togliere il lucchetto alla porta d’emergenza.
L’ho detto alla maestra. Anzi, l’ho urlato perché c’era un gran fracasso tra tosse e grida e fuoco che frigolava.
Ma lei non mi ascoltava, piangeva e basta.
Ho iniziato a tirarle una manica, prima piano, poi forte, poi fortissimo e allora mi ha guardato e le ho spiegato cosa dovevamo fare, ma lei faceva segno di no con la testa: «È impossibile uscire» diceva «è troppo alto!».
Ma io potevo farlo. Ho le braccia forti, ve l’ho detto, forti come Maciste se sapete chi è, e, se lei mi aiutava a salire sugli armadietti, io poi al finestrino ci potevo arrivare.
La maestra continuava a fare no e no e no.
Allora mi sono messo a piangere anch’io, ma non per la paura, ma perché non mi stava a sentire. Ho cominciato ad urlare come un pazzo, come le cellule matte delle mie gambe, che non urlavano ma si trasformavano in alieno, e anch’io mi stavo trasformando, mi sentivo la faccia rossa e gonfia e poteva venirmi un colpo prima di morire bruciato.
La maestra se n’è accorta e finalmente ha detto: «Va bene, va bene, proviamo». Ha frugato nella sua borsa con le mani che tremavano tantissimo.
Io mi sono calmato, ho smesso di piangere e ho ricominciato a vedere tutto superbene.
Mi sono chinato, ho tolto i pantaloni e mi sono sganciato le gambe; volevo essere leggero.
La maestra mi ha dato le chiavi e io le ho prese tra i denti.
Mi sono fatto sollevare e ho tirato con le braccia per salire sugli armadietti. Dagli armadietti il salto non è stato difficile; mi sono buttato senza pensarci tanto, mi sono aggrappato alla finestra che era un po’ aperta e mi sono infilato nella fessura.
Dopo ho avuto paura, devo ammetterlo, perché ero molto in alto.
Ho chiuso gli occhi e mi sono lasciato cadere giù, nel prato.
Mi sono fatto male, mi si è incrinato un osso del braccio, ma non me ne sono accorto subito.
Ho aperto gli occhi, ho raccolto la chiave che mi era caduta e sono andato più veloce che potevo alla porta d’emergenza; mi sono graffiato dappertutto e mi sono anche tagliato una mano perché non avevo le gambe; fare il gorilla in casa è una cosa, ma fuori è tutto diverso.
Ho aperto il lucchetto, ho spalancato la porta e ho gridato fortissimo per chiamare i miei amici.
Dopo non mi ricordo più niente.
Cioè, non proprio niente; mi ricordo un po’ i miei compagni che uscivano e la maestra che mi abbracciava… mi ricordo il male al braccio, la polizia, i pompieri, i dottori e poi il papà, la mamma e perfino mia sorella, che mi davano tantissimi baci.

Sono stato all’ospedale due giorni, ma non stavo male; mi hanno fasciato il braccio e mi hanno fatto respirare molto ossigeno.
Erano tutti gentili, mi piaceva stare lì.
Mi sono venute a trovare un sacco di persone, e anche… la televisione!
C’era un signore con una telecamera sulla spalla, un altro con un microfono peloso e una signora ricciola, con un profumo che assomiglia alla pasticca blu per le zanzare, che mi faceva le domande. Mi ha chiesto se ho avuto paura, cosa ho pensato quando ho fatto uscire tutti e se ho capito che ho salvato i miei compagni.
E certo che l’ho capito, sono un bambino, mica uno scemo!
Quando l’ho raccontato a Marco e a Gianluca, sono rimasti a bocca aperta; mi sono sentito figo da morire!

Quando sono uscito dall’ospedale, il preside, davanti a tutta la scuola, mi ha dato una targa di merito e il sindaco, davanti a tutta la città (e dico la città intera!), mi ha dato una medaglia: come ai numeri uno, come ai campioni dei campioni!
Quando l’ho ritirata avevo le gambe nuove, perché quelle vecchie erano bruciate nella palestra.
Camminavo un po’ male, ma non me ne importava niente perché la gente, quel giorno, non guardava le mie gambe; tutti guardavano la medaglia e scommetto che volevano essere proprio come me!

Nel fumetto, a questo punto, c’è il disegno finale.
Adesso che sapete la mia storia, ve lo potete immaginare: c’è un mucchio di gente in una sala grandissima, tutti sorridenti. In mezzo alla sala c’è il sindaco; ha una medaglia nella mano destra e la mano sinistra sulla spalla di un bambino. Ormai lo riconoscete, è proprio lui, il protagonista:
Ludovico Leonardo Leontelli, otto anni. Ed è un eroe.



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