Racconto premiato di Rosa Maria Corti


Rosa Maria Corti con questa opera è 1^ classificata alla VII Edizione Premio Letterario Internazionale La Montagna Valle Spluga 2006


QUELL’ AMORE DI MONTAGNA

Il vecchio mastro di posta, inconfondibile per il paio d’enormi favoriti, aveva terminato la vendita dei biglietti ed i bagagli erano già stati tutti sistemati sul tetto della diligenza. Il cocchiere allora salì in serpa e, dopo uno squillo di tromba, fra un tintinnare di sonagliere, schioccar di frusta e gioco di briglie, il “Corriere di Lindò”, uno splendido cocchio a quattro, partì alla volta del Passo dello Spluga.
Un passeggero però rimase a terra, stette per un po’ ad osservare la carrozza postale che si allontanava con il suo carico di passeggeri, lettere, giornali, denaro e merci, poi, lentamente, passando sotto uno dei tanti portoni dove venivano riscossi dazi e pedaggi, si avviò lungo la via principale diretto al centro di Chiavenna.
Si sforzava di osservare le antiche facciate dove erano splendidi affreschi che la dicevano lunga sull’eccellenza degli abitanti del luogo, sui loro timori, sulle loro occupazioni, dipinti che, in altra occasione, lo avrebbero interessato ed ispirato, ma in quel momento la sua mente era come vuota, nemmeno s’accorgeva della gente che accanto a lui camminava leggera, con il volto pieno d’ottimismo.
L’inverno era nell’aria ed il bosco, ora incendiato dalla ruggine autunnale, presto sarebbe stato coperto da neve e cristalli di ghiaccio. Lo sconosciuto sapeva che avrebbe fatto meglio a salire su quella carrozza, poiché se il viaggio di andata all’inizio dell’estate era avvenuto sotto un temporale incessante e, in una sorta di incubo apocalittico aveva valicato il passo giungendo da Splugen a Chiavenna, quello di ritorno con la neve sarebbe stato ancora più difficile e tormentoso.
Eppure qualcosa lo aveva trattenuto. Appena si era incamminato aveva avuto la sensazione di sottrarsi alle sue responsabilità ma più forte del senso di colpa era stato quello dell’ineluttabilità, come se il destino avesse deciso per lui sollevandolo da ogni dubbio e perplessità.
Ricordava quando un mese prima aveva deciso di andare fino a Como per visitare le splendide basiliche romaniche, opera di quelle abili maestranze, i Magistri Comacini, che si erano spinte in tutta Europa, finanche nella sua terra. Partito da Chiavenna, diretto verso Colico, dopo un miglio il cavallo era come impazzito e lui era dovuto tornare indietro a piedi in quel paese che sembrava trattenerlo con fili invisibili eppure tanto tenaci.
Andava dunque per le vie del borgo, fra case imponenti, piazze dalla caratteristica pavimentazione acciottolata, bei portali e fontane di pietra. Sentiva che camminare gli faceva bene e aspirava avidamente i profumi della frutta matura e del buon cibo che si diffondevano tutt’intorno mescolandosi con quello della legna bruciata. Gli piaceva apprezzare il mondo che lo circondava attraverso sapori ed odori; tutti i suoi sensi, quando viaggiava, erano all’erta: vista, udito, ma soprattutto gusto ed olfatto agivano nel profondo dell’animo suo, provocando potenti emozioni e muovendo esaltanti sensazioni.
I profumi risvegliavano in lui sopiti ricordi di luoghi ed occasioni. Del suo ultimo viaggio in Italia, compiuto nel 1852, ricordava lo spettacolo delle file dei cocchi e dei cavalli in mezzo alla folla elegante che formicolava nei viali al centro di Milano, quello raccolto ed insieme festoso del Lago di Como, il profumo dell’uva matura che si arrampicava in turgidi grappoli sul muro di una vecchia locanda, nei pressi della confluenza del Mera col Lago di Novate. L’ostessa aveva portato un “bianco” trasparente ed un piatto di pesce odoroso di burro e di salvia. Dopo pranzo si era incamminato lungo la riva del lago verso un tempietto, indubbiamente molto antico, che si stagliava su uno sfondo di canneti.
Gallinelle d’acqua si tuffavano a pescare e riemergevano con l’alborella d’argento dentro il becco. Accanto a loro pochi cigni alteri si lisciavano le candidissime penne incuranti di un piccolo e brutto anatroccolo che sbatteva le ali sforzandosi, con tanta fatica, di prendere il volo. C’era odore di muschio, d’alga decomposta, di lago ed il piccolo si era voltato verso di lui per un istante, come per chiedere aiuto. Ricordava quello sguardo dolcissimo, quasi umano, come fosse stato ieri…eppure da quel giorno erano passati quasi cinque anni.
Il vociare della folla riscosse il viaggiatore dai suoi pensieri. Nel luogo dove nel frattempo era giunto, una bella piazza al cui centro sorgeva una fontana ottagonale in pietra ed ai cui lati spiccavano alcuni portali nello stesso materiale, stava un uomo dall’aspetto fuligginoso intento a riparare una pignatta. Lo straniero appoggiò il suo scarno bagaglio per terra e stette ad osservare l’artigiano. Pareva un chirurgo intento a praticare una sutura, con un impasto simile ad una pappa e quand’ebbe terminato, dall’espressione soddisfatta della donna che si riprese l’oggetto, una pentola in quella “pietra ollare” di cui parlava già Plinio, si capiva che il lavoro era stato eseguito a regola d’arte. Lo sconosciuto viaggiatore riconobbe in lei la bionda e robusta ostessa di Campodolcino, dove era stato una decina di giorni prima, che gli aveva servito, nella piccola e bassa “stüa”, un piatto generoso di “bresàvola” seguito da carni profumate cotte in un caldo grembo di pietra e accompagnate da una bottiglia di vino robusto che gli aveva messo in corpo una grand’energia e risvegliato la vena letteraria. Dopo pranzo se n’era andato pigramente a zonzo lungo il torrente Liro. Qui, tra precipiti massi, cullato dal ronzio della corrente, s’era addormentato e fra scaglie di luce, come in un miraggio, la pietra aveva preso la forma di un’incantevole sirenetta. Il suo canto ammaliante era risuonato a lungo come spampanato dal vento e la sua nudità era stata coperta dai flutti del torrente in amore. Al risveglio, tremavano ancora le isobare dei sensi e germinavano a grappoli i suoi pensieri, un fremito di meraviglia, di stupore gli era salito dai precordi. In quella contrada rurale, in quel luogo selvaggio, aveva avuto la sensazione d’assistere allo sgretolamento della natura e alla sua rinnovata creazione. Anche l’apparizione di quella mitica creatura non poteva essere stata casuale ed egli vi volle scorgere un segno a lui indirizzato, un messaggio speciale. La sua anima si era nutrita di quelle immagini per lui inusuali e spaventosamente belle; il suo sguardo, dalle rocce levigate del fiume, era risalito, in un paesaggio di pascoli e baite dorate dalla smagliante luce settembrina, fino ai duri crinali, alle rocciose cime innevate che sembrano vigilare amorosamente sul vasto lago di Montespluga. Aveva immaginato le lunghe carovane di muli cariche di merci dirette anche verso la sua terra, la lontana Danimarca, dove avrebbe portato e custodito per sempre la visione dei grandi passi alpini, delle abetaie, dei boschi, dei fondovalle, dove l’uomo stappava alla montagna la terra e costruiva faticosamente muretti e terrazze per coltivare la vite.
Ancora una volta lo straniero tornò alla realtà e riprese il suo andare giungendo, in breve tempo, nel centro del borgo, caratterizzato da un imponente palazzo affrescato con imponenti stemmi ed una bella fontana in pietra. Rientrò nella locanda che aveva lasciato da poco più di un’ora e, dopo aver firmato il registro degli ospiti, salì in camera, la stessa grande stanza a due letti che aveva occupato la notte precedente, dove subito spalancò le finestre dalle quali poteva vedere la chiesa con il suo turrito campanile.
Il proprietario dell’albergo, al piano terreno, si chiese cosa mai avesse indotto a tornare sui suoi passi quel forestiero, peraltro gentile e riservato, che appena arrivato gli aveva chiesto, di venerdì, giorno di magro, una tazza di latte, ma che per il resto non dava alcun fastidio, se ne stava, infatti, tutto solo a disegnare e scrivere su un suo libricino. Merito forse di una donna, della sua cucina, o di quell’amore di montagna?... La curiosità di sapere quali commerci, quali bisogni, quali segreti il misterioso viaggiatore portasse con sé, spinse il vecchio Corradi a dare un’occhiata al registro dove spiccavano, appena vergati, i caratteri ancora freschi d’inchiostro, ma il nome che lesse, H. C. Andersen, (1) non gli disse nulla.
“Chiavenna sarà la chiave delle Alpi ma è come porto di mare”, borbottò fra sé l’oste sorridendo della sua battuta. “Del resto, se i clienti pagano, io bado solo a far bene il mestier mio” e corse via per servire alcuni avventori che lo reclamavano a gran voce.

Nota
(1) Hans Christian Andersen (Odense 1805 – Copenaghen 1875).
Scriveva lo scrittore: ‘Le fiabe mi stavano in mente come un seme, ci voleva soltanto un soffio di vento, un raggio di sole, una goccia d’erba amara…’
A me è piaciuto immaginare che l’ispirazione sia venuta ad Andersen proprio quando transitò dalla incantevole Valle Spluga, durante un suo viaggio in Lombardia.


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