Racconto premiato di Rosa Maria Corti


Rosa Maria Corti con questa opera è 3ª classificata alla VI Edizione Premio Letterario Internazionale La Montagna Valle Spluga 2005


La montagna Valle Spluga e i “Salvadeghi”

In certe mattine autunnali, quando le cime emergono da un mare di nebbia che sale dal fondovalle dove scorre il Liro, è facile fantasticare e, camminando a ritroso fino nella preistoria, risalire a 7000-10000 anni fa, quando un gruppo di cacciatori raggiunse, nella bella stagione, il Piano dei Cavalli, forse anche loro affascinati da una delle più belle valli delle montagne Retiche, caratterizzata da cascate che scendono dai pizzi vicini, fitti boschi di conifere, radure dove fioriscono i rododendri e ampie praterie alpine. Quegli uomini, che avevano con sé coltelli, archi e faretre, avevano organizzato i loro ripari sottoroccia e, quando pioveva e si annoiavano, dipingevano e graffivano i loro dei e le figure degli animali che cacciavano. In quelle spelonche si sentivano al sicuro quando dense nubi salivano dal fondovalle ed il cielo si oscurava all’improvviso come sotto una gelida cappa di piombo.
Essi sapevano che tuoni e lampi avrebbero presto conquistato i picchi e gli strapiombi di quelle montagne e così se ne stavano accucciati intorno al fuoco mentre tonfi paurosi, borbottii, scoppiettii, insomma un concerto terrificante, faceva loro battere forte il cuore.
Con la stessa velocità dei fulmini passarono anche i millenni, i secoli, gli anni, ma quelle grotte continuarono ad essere abitate, quei sentieri che talvolta danno l’impressione di camminare sospesi nel vuoto, continuarono ad essere frequentati.
All’epoca di San Carlo Borromeo, quella delle streghe e dei malefici per intenderci, su quei pascoli dove un tempo le cacce erano state abbondanti, in quella valle meravigliosa, incominciarono ad accadere cose strane. Poteva succedere ad esempio che d’estate, quando era il momento di falciare il fieno, i contadini, sul far della sera, udissero strane voci che dicevano: “ Lasciateci la falce ed il falcetto e qualche cosa da mangiare”. Se ciò puntualmente avveniva, il mattino seguente i contadini trovavano i prati falciati. Anche i pastori, se lasciavano una ciotola piena di latte ed una pagnotta, si ritrovavano il giorno dopo con il burro ed il formaggio già preparati.
Quando scendeva la nebbia ombre furtive si azzardavano a scendere nei villaggi e qualche volta riuscivano ad intrufolarsi nelle case per rubare manciate di castagne ma soprattutto fette di torta e certi biscotti che sapevano di burro e di erbe profumate.
Il più delle volte si divertivano ad infastidire i viandanti sui sentieri della valle, urlando e buttandosi giù velocemente dai pendii, tanto velocemente che non si riusciva a distinguerne le forme.
Per ovviare a questi gravi inconvenienti, insomma per evitare di trovarsi a tu per tu con queste strane creature, gli abitanti dei villaggi incominciarono ad apporre inferriate in croce alle finestre oppure a costruire queste ultime molto piccole, quasi delle feritoie. Inoltre tutti evitavano di passare vicino a roccioni dove si affermava che i “Salvadeghi” avessero dimora, specialmente di notte e col brutto tempo, che erano i momenti in cui costoro si divertivano di più, probabilmente perché avevano la vista acuta come quella degli animali notturni. Chi era costretto a transitare vicino al loro rifugio, se riusciva a passare inosservato, caso raro per la verità, li sentiva ridere forte, gridare e fare rumoracci.
Dimenticavo di dire che “Salvadeghi” è il nome con cui ho deciso di chiamare questi esseri bizzarri, ma, in quei tempi lontani, capitava di sentirli nominare anche in altri modi e precisamente: “Pelùs”, “Salvàn”, “Omeon del bosc”, “Crescit”, “Brà_ola”, ecc.
Col tempo i “Salvadeghi” si fecero sempre più capricciosi e dispettosi: leccavano in un batter d’occhi la panna che affiorava dalle conche del latte, afferravano lesti le pagnotte appena sfornate, rubavano in una manciata di secondi tutti i panni stesi sui prati ad asciugare, facevano sparire, anche di giorno, qualche capra e qualche pecora; si diceva infine che, approfittando delle giornate di nebbia, rubassero persino i bambini.
A quel punto la popolazione cominciò a non poterne più. Giacché a nulla era valsa la proverbiale solidarietà della gente della valle, che sempre si era aiutata per fare strade, costruire case, spalare neve, si decise di chiedere aiuto alla Chiesa. Non essendoci però in Diocesi sacerdoti in grado di risolvere il problema, ci si rivolse nientemeno che a Carlo Borromeo.
Il sant’uomo aveva fatto il suo ingresso a Milano con la dignità di arcivescovo nel 1564, ma già alcuni anni prima si era distinto nella lotta contro l’eresia e la stregoneria, non solo nella sua diocesi ma in tutta l’Italia settentrionale. Fu così che nel mese di luglio il giovane cardinale giunse in visita in valle, dopo aver attraversato Chiavenna in una “notte oscurissima” con grandissima pioggia. Qui l’indomani mattina di buon ora pregò e, davanti all’attonita popolazione, predicò che il “falso inimico”, l’essere che tutto può con la complicità di streghe e stregoni, può far capolino ovunque, spesso come una bella signora nella quale solo i piedi non hanno forma umana, altre volte invece con le sembianze del porco, simbolo di lussuria e delle tentazioni, altre ancora con quelle di creature insolite e misteriose. Più tardi si risolse a risalire la vallata, da solo, rifiutando qualsiasi scorta e pur anche l’ausilio di una cavalcatura.
Giunto alla meta il prelato tolse da una sorta di zaino una bella tovaglia bianca e la stese nei pressi del più gran roccione, posto a precipizio sulla montagna, dopo avervi imbandito, lui che era avvezzo ad una tavola più che frugale, un’invitante colazione: torte, biscotti e altre leccornie di cui i “Salvadeghi “ erano tanto golosi. Essi, infatti, incuranti dell’uomo, uscirono dai loro nascondigli e si precipitarono verso il cibo urlando come erano soliti fare.
A quel punto San Carlo Borromeo levò alto il braccio e tracciò sui “Salvadeghi” un segno di croce. Si alzò un vento che sollevò la tovaglia e tutte le creature che l’affollavano precipitarono nel baratro sotto il roccione, in mezzo a sibili, schianti, boati, alle voci dei “confinati” dei “maget”, delle streghe e di tutti gli spiriti della valle.
Da quel giorno nessuno vide più quelle creature ma ancor oggi, quando le forze della natura si scatenano ed i bambini si nascondono fra le braccia dei genitori, c‘è qualcuno che sostiene di udirne le grida.


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