Mistero all'abbazia - Dal diario di una conversa del XIII Secolo

di

Rosa Maria Corti


Rosa Maria Corti - Mistero all'abbazia - Dal diario di una conversa del XIII Secolo
Collana "Le Schegge d'Oro" - I libri dei Premi - Narrativa
14x20,5 - pp. 130 - Euro 13,20
ISBN 88-6037-223-2

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Prefazione

Rosa Maria Corti Terragni, attraverso le parole della conversa Gertrude Vols che diventa alter ego narrante, recupera le immagini, le diatribe politico religiose e le atmosfere del XIII secolo che hanno interessato il nord Italia nella zona del Lago di Como.
Il diario di Gertrude “scioglie il ghiaccio del ricordo” come se ci si trovasse seduti su una di quelle antiche panche, appena sbozzate da alberi centenari, poste in riva ad un lago, sulla soglia d’un giardino “senza tempo” tra la quiete degli ulivi alla ricerca degli spiragli di luce che possano illuminare lo sguardo che sempre cerca di oltrepassare “il profilo delle Prealpi”.
Nelle mani di Rosa Maria Corti Terragni nasce e si alimenta un racconto canonico ma che non obbedisce a regole prefissate sempre pervaso com‘è di quel sentore mistico di “anime” alla ricerca della verità, pur coscienti che il tempo scivola via, mai disposte a consumarsi in una sterile attesa.
Ecco allora prendere vita il racconto di Gertrude che in un freddo mattino del 1262, nel monastero benedettino femminile di S. Faustino e Giovita, sulla riviera del lago di Como, come fedele e premurosa conversa al seguito della nobile Ildegarda, si incammina con lei verso una mèta che possa mettere al sicuro dai tragici eventi che si stavano prospettando.
Quando Ildegarda aveva preso i voti a Gertrude era sembrato giusto continuare a starle vicino, dopo essere stata al suo servizio nel castello dove aveva vissuto con lei, e seguirla anche come conversa nell’abbazia benedettina. Ildegarda era rispettata anche perchè sorella del potente Ulrico, tradito e poi accusato di eresia, e inoltre il fratello Corrado era morto in circostanze misteriose. Ecco perchè la sorte avversa che si stava scatenando sulla sua famiglia faceva temere anche per la vita della stessa Ildegarda e per questo motivo s’era trovata nella condizione di dover mettersi in salvo in un posto sicuro.
Ciò non aveva distolto Ildegarda dalla sua missione “curare gli ammalati e badare all’anima”, accogliere tutti e offrire quel poco che poteva aiutare al sostentamento ma Ildegarda si trovava lontana dalla sua terra, in un mondo che era ostile e non conosceva, dopo aver abbandonato tutto e ancora cercava disperatamente di aiutare il fratello Ulrico accusato di eresia a causa di complotti e lotte interne che vedevano l’avidità come unico obbiettivo da perseguire.
Eppure Ildegarda continuava a copiare antichi testi perchè un “monastero senza libri è come un prato senza fiori, una mensa senza cibo, un orto senza verdure” e per lei “il mondo della natura era l’esemplificazione dell’opera meravigliosa di Dio”. Come poteva Gertrude, dopo la misteriosa partenza di Ildegarda per la sua missione, dimenticarsi dei consigli spirituali di quella monaca tutta dedita all’opera di apostolato e di assistenza ai malati, dopo che era sparita nel nulla?

Il cammino è lungo, e come in un disegno divino, attraverso un apostolato itinerante in un periodo storico che vive un clima di sospetti, tradimenti, diffidenze, lotte per il potere e grande confusione, emerge prepotente la volontà di portare a termine il cammino spirituale, accettare la volontà di Dio come “creature libere” perchè “sta all’uomo redimersi o perdersi”.
Gertrude, si ritrova così senza la sua guida spirituale, sposata con un pescatore e poi vedova, con problemi di denaro, difficoltà d’ogni sorta: una donna debole alla ricerca di un’identità, incerta sulla missione da svolgere, ma sempre alla ricerca di Ildegarda, continuando imperterrita nel suo viaggio spirituale.

Nella sequenza dei ricordi che si sommano e si plasmano, che ridanno nuova vita alle riflessioni e alle vicissitudini d’una vita intensa, emerge l’intenzione di far rivivere un simbolico viaggio nel segreto del tempo, per non dimenticare, per togliere dall’oblìo le memorie di avvenimenti che hanno fatto parte della nostra storia: monasteri, schiere di pellegrini, epoca di mercanti e commerci, viaggi costellati da mille pericoli, la paura del futuro e l’incertezza dell’avvenire, la sorte con i suoi inspiegabili intrecci, la scomparsa della giovane Margherita che coincide con la partenza d’un misterioso pellegrino dagli occhi magnetici, l’Ordine dei Cavalieri del Tempio del Signore, Templari custodi dei luoghi santi di Gerusalemme, i privilegi e le ricchezze dell’Ordine, e poi la Chiesa con i suoi rappresentanti che “vivevano nell’abbondanza mentre il popolo soffriva la fame”, il rogo per coloro che erano condannati di eresia, mentre Gertrude cercava di servire Dio in libertà, senza mai appartenere ad alcun ordinamento riconosciuto dalla Chiesa, girando di villaggio in villaggio a curare gli ammalati, a chiedere l’elemosina, trovando conforto nella preghiera e nella fede, “pace carità generosità” come lei e Ildegarda “avevano sempre pregato”.
“Il nostro destino non è che un filo sull’ordito e la trama della tela…” e, a volte, tutto pare essere già scritto: i viaggi, i pericoli, gli ostacoli sul nostro cammino non sono forse il “disegno divino” al quale tutti andiamo incontro? Vacilla la mente, un senso di smarrimento e impotenza ci sorprende, ma il cammino, lungo e faticoso, deve continuare e pare quasi di lasciarsi andare al fluire degli eventi tra misteriosi documenti ricevuti da Ildegarda dalle mani del cavaliere di Moustiers prima di morire, la fitta rete delle protezioni e delle strade templari in territorio francese e in quello italiano, la ricerca della fede da parte di Gertrude e quel desiderio di pacificazione, di unione spirituale dopo tanti affanni.

La volontà di Rosa Maria Terragni è sicuramente quella di attraversare le pagine della storia grazie al diario di Gertrude e ricercare la scintilla che possa offrire agli occhi una nuova visione d’un periodo storico assai nebuloso e pervaso da tenebrose atmosfere, tra mistero e fede, e sempre il suo intento è andare oltre le pietre della memoria, le ombre degli intrighi e delle lotte sanguinarie, le voci di uomini di chiesa, le azioni e le regole dei Templari, i pellegrini e gli eretici, le verità dissolte nel tempo, i sogni inceneriti nei roghi, la speranza di uomini e donne che si sono affidati al precetto “pace fede carità” che diventa un soffio d’amore nel disegno imperscutabile riservato all’essere umano.
Fino all’approdo nel luogo riconosciuto e amato, salvando ciò che meritava di essere preservato dalla polvere del tempo, dove poter ancora raccontare e scrivere della verità “che mai si estingue”.

Massimo Barile


Mistero all'abbazia - Dal diario di una conversa del XIII Secolo


Ai miei cari
A chi ricerca la verità


Veritatem laborare nimis saepe aiunt,
estingui numquam

Liv.22,39,19


Dicono che la verità troppo spesso è
disconosciuta, ma mai si estingue.


La monaca del Monte San Zeno

Febbraio 1262. Era un mattino freddo ma limpido e da diverso tempo ormai avevamo lasciato il monastero benedettino femminile di S. Faustino e Giovita, sulla riviera occidentale del Lago di Como, dove avevamo trascorso la notte. Le buone monache avevano provveduto a rifocillarci, a rimpinguare le nostre provviste e la badessa Liberata era stata prodiga di spiegazioni circa il percorso che ci avrebbe condotte alla nostra meta. Mi sembrava ancora di udire la sua voce mentre si rivolgeva alla mia signora.
“Ricordate sorella, dopo aver superato il borgo di Arcenniu1, quando inizierete a risalire la valle, il vostro punto di riferimento, la vostra stella, dovrà essere quel monte snello, elegante, dalla forma di cono, il Monte San Zeno. Lo dovrete avere sempre sulla vostra sinistra, soltanto quando avrete oltrepassato il villaggio di Casasco ed il monte sembrerà giacere ai vostri piedi, avrete raggiunto la meta”.
E così era stato, la mia signora aveva proseguito sempre senza incertezze, sorridendo quando io dubbiosa mi fermavo a chiedere ragguagli ai contadini del luogo. Superato però l’ultimo villaggio e le ultime baite, da quando c’eravamo inerpicate per un ripido sentiero con i nostri muletti, non avevamo più incontrato anima viva.
Davanti a noi il terreno ancora coperto di neve non recava tracce fresche, soltanto qualche ciuffo di erba secca, ingobbita e giallastra, spuntava qua e là, mentre nei luoghi più riparati facevano capolino mazzolini di primule gialle.
Non avvezza a cavalcare e a calzature pesanti, mi sentivo dolere ogni giuntura e avrei voluto fermarmi a riposare un poco. Fu proprio allora che la mia signora, come se mi avesse letto nel pensiero, si arrestò, scese dalla cavalcatura e m’incitò a fare altrettanto.
“Mia buona Gertrude”, disse, “coraggio, proseguiamo a piedi, in modo che questi poveri animali possano riposarsi un poco”.
Avrei voluto replicare che anch’io ero stanca ma non ne ebbi l’ardire poiché l’energia di Ildegarda pareva inesauribile. Cercai di richiamare almeno la sua attenzione sul paesaggio che si apriva al nostro sguardo, una splendida valle a V, in fondo alla quale incastonato quale pietra preziosa, scintillava il lago. Grande era stata la mia meraviglia quando, il giorno innanzi, l’avevo scorto per la prima volta sotto la pioggia, ampio e maestoso, ma ancora più grande era stata la gioia nell’osservarlo dal convento allo spuntare del sole, uno spettacolo che avrei portato sempre nel cuore e, anche ora, non mi saziavo di osservare quella superficie azzurra dalla quale sembravano balzare fuori monti con le cime coperte di neve e di ghiaccio.
Mentre l’anima mia, rapita da quel concerto di bellezze terrene, attraverso il quale si manifestava la grandezza di Dio, stava per esplodere in un cantico di gioia, la mia signora aveva già ripreso il cammino e così dovetti fare anch’io.
Procedemmo per mezz’ora in silenzio, non si udiva altro rumore all’infuori dello scricchiolio della neve sotto gli zoccoli dei nostri quadrupedi, poi all’improvviso i belati di un gregge e l’abbaiare di un cane e, dopo una svolta, a circa mille metri di altitudine, ci apparve la nostra meta: un lungo edificio in pietra a vista, una sorta di complessa cascina con una bella struttura ad arcate.
Rallentammo mentre ci veniva incontro, allertata dall’abbaiare del cane, una giovane con i capelli biondi raccolti in una crocchia, il fisico minuto ma irradiante energia, lo sguardo sincero e un poco ingenuo. Ella ci aiutò prontamente e, prese le briglie delle nostre cavalcature, si avviò spiegandoci che gli zii, che l’avevano cresciuta, erano scesi al villaggio e sarebbero ritornati solo l’indomani. Intanto, mentre mi guardavo intorno, mi sentivo stringere il cuore dalla delusione.
Come erano lontani la nostra bella abbazia, il giardino botanico, la chiesa, il chiostro con il pozzo, la grande biblioteca, i lunghi filari delle viti…
Ancora una volta, come se mi avesse letto nel pensiero, Ildegarda mi guardò e sussurrò impercettibilmente: “Qui saremo al sicuro”, poi entrò nel sottoportico lastricato di pietre dove un nugolo di galline stava becchettando furiosamente.
Il porticato si apriva su celle e locali; decidemmo di adibire a refettorio quello che dava direttamente sulla piccola cucina dove consumammo il primo pasto nella nostra nuova dimora: latte ancora tiepido, formaggio, pane nero.
Margherita, questo era il nome della giovane che ci aveva accolte e ci aveva lasciate sole mentre mangiavamo, tornò più tardi per ripulire le celle dove avremmo trascorso quella notte e quelle a venire.
Per la verità nonostante la stanchezza non riuscii a addormentarmi, mi tornava alla mente una delle frasi preferite di Ildegarda quando maternamente la rimproveravo perché si affaticava per troppe ore, a mio avviso, leggendo, miniando o copiando antichi testi.
“Monasterius sine libris est sicut pratum sine floribus, mensa sine cibis, hortus sine erbis”.
Un monastero senza libri è davvero come un prato senza fiori, una mensa senza cibo, un orto senza verdure e qui, purtroppo, non vi erano né libri, né biblioteca, né scriptorium, solo disordine e sporcizia. Povera Ildegarda, a quale prezzo avrebbe dovuto pagare la sua sicurezza!
Pregai per lei a lungo, poi, visto che il sonno ancora tardava a venire, cominciai mentalmente a ripercorrere a ritroso tutte le tappe del nostro viaggio, fino a risalire alle cause prime di quest’ultimo.

1. Arcenniu. Si tratta di Argegno. Borgo fortificato in epoca medioevale è oggi vivace località turistica che funge da “porta” della Valle Intelvi.


Le strade dei mercanti d’oriente

Ildegarda ed io venivamo dal Tirolo, terra di castelli, di piccoli borghi lindi ed ordinati, di masi isolati, di campanili aguzzi, di chiese che sembrano emergere come isole da un mare di vigne.
I vigneti, coltivati a volte fino ai mille metri di altitudine, sono lassù più giardini che campi, segnano i profili di un monte, contornano un’abbazia, un castello, come suggestivi ricami.
Anche il castello dove aveva sempre vissuto Ildegarda, prima di entrare in convento, era circondato da vigne e proprio i fertili terreni vitati, acquistati un tempo da suo padre, ora erano fonte di ricchezza e motivo di orgoglio per i suoi fratelli Ulrico e Corrado.
In un certo senso, a causa delle vigne, io avevo conosciuto Ildegarda. Mia madre, infatti, originaria di una vallata ridente molto più a nord e, precisamente, di quella località che prende il nome dalla stanga daziaria che il principe vescovo di Bressanone aveva posto per trarre profitto dall’intenso traffico che si svolgeva lungo la mulattiera del Passo Giovo, tra Valle Isarco e Val Passiria, aveva preso come marito il fattore del conte, un uomo gioviale, un po’ pingue, ma per nulla volgare, né di aspetto, né di modi e soprattutto esperto vinificatore e ottimo conoscitore di vini rossi che erano i preferiti del ricco feudatario.
Il nobile Manfredo, inesorabile con i nemici e gli incapaci, ma largo di favori con chi gli era devoto, lo aveva preso a benvolere e a volte gli affidava delicate ambascerie. Per questo motivo mi era stato possibile giocare e crescere accanto ad Ildegarda. Da lei, che aveva la vocazione all’insegnamento, avevo imparato molto e quando ella aveva preso i voti mi era sembrato naturale continuare a starle vicino entrando come conversa nell’abbazia benedettina che l’aveva vista prima novizia e poi monaca a tutti gli effetti.
In convento Ildegarda era amata e rispettata, forse anche temuta a causa del potere che suo fratello Ulrico, fedelissimo all’imperatore, andava conquistando, quel potere che lo aveva reso inviso a molti nobili da lui sottomessi e anche al vescovo.
Isolati nelle terre del conte vi erano, infatti, alcuni possedimenti, molto prossimi alla città, sui quali il prelato vantava antichi diritti di consuetudine, isole piccole come estensione, ma strategicamente importanti.
Quando Ulrico, che a sua volta ne rivendicava la proprietà, cercò di accaparrarseli, avvalendosi di un cavillo giuridico, con l’idea di fondare un quartiere mercantile, quanto mai necessario in una zona di confine, si arrivò al conflitto, preparato dal tradimento e dalle menzogne di alcuni nobili locali che si erano improvvisamente schierati con la nobiltà vassalla della Chiesa.
L’intento di Ulrico era di far costruire su quei terreni case, magazzini e botteghe, per i mercanti che commerciavano vino, grani, sale, squisito olio del Lago di Garda e della Tremezzina1, pesanti stoffe, delicati cristalli, pregiate armi milanesi, legnami, ferro, rame, argento proveniente dalla valle di mia madre e un poco d’oro.
Naturalmente il conte sarebbe rimasto proprietario dei terreni e degli immobili di cui i mercanti avrebbero potuto disporre soltanto pagando una sorta di affitto e pedaggio, diritto che il principe vescovo già pretendeva da qualche tempo da tutti coloro che inevitabilmente passavano di lì, sulle strade che risalivano fino all’estremo nord dell’Europa e discendevano attraverso Venezia fino ai favolosi mercati dell’oriente.
L’avidità, la sete di ricchezze terrene, l’invidia, spinsero dunque i nemici di Ulrico al tradimento.
Accusato di aver dato asilo ad un gruppo di eretici che avevano aizzato la turba dei rustici, dei diseredati, degli emarginati del luogo ad incendiare le case dei nobili e del vescovo, fu fatto ricercare e catturare da quest’ultimo con l’accusa di eresia e consegnato all’inquisitore perché procedesse contro di lui.
Il ritrovamento del di lui fratello Corrado, morto in circostanze misteriose, forse avvelenato, aveva fatto temere anche per la sorte di Ildegarda.
Per questo motivo erano stati presi in tutta fretta contatti fra il vecchio Manfredo e la badessa Guglielma affinché quest’ultima, forte del suo potere e delle sue conoscenze, si adoperasse per mettere in salvo la giovane monaca.
Mio padre era stato incaricato di trovare alcuni uomini fidati che ci avevano scortate fino al confine; di lì avevamo proseguito verso sud-ovest trascorrendo le notti negli ospizi dislocati sul nostro cammino.
Dopo aver corso pericolo di vita mentre valicavamo un alto passo a causa del terreno accidentato ricoperto di neve e ghiaccio, finalmente eravamo entrate in una valle che ricordava la nostra terra per la ricchezza di vigneti e il passaggio di un ampio fiume il cui nome apprendemmo essere Adda.
Da ultimo l’arrivo sul lago, il Lario, in una giornata di pioggia e la sosta ristoratrice della quale ho già detto in un monastero benedettino femminile, di fronte a ciò che aveva rappresentato l’ultimo caposaldo bizantino nel nord Italia, una piccola isola chiamata Comacina, o più familiarmente “Il Castello”, a ricordo della turrita dimora di un nobile longobardo.
Questa dunque la storia da me rivissuta nella veglia di quella prima notte trascorsa sulla montagna, quelli dunque i motivi che ci avevano portate così lontano e che io stessa avevo appreso durante il viaggio dalla viva voce di Ildegarda, anche se ora mi sfuggivano i particolari perché talvolta le spiegazioni complicate, il paesaggio insolito e la stanchezza erano stati per me motivo di distrazione.

1. Tremezzina. È la zona situata nella parte centro-occidentale del Lago di Como. Essa, che prende il nome dal Comune di Tremezzo, è ricca di ville signorili e di alberghi di fama internazionale.


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