La solitudine del gufo

di

Filippo Inferrera


Filippo Inferrera - La solitudine del gufo
Collana "Le Schegge d'Oro" - I libri dei Premi - Poesia
14x20,5 - pp. 82 - Euro 9,00
ISBN 978-88-6587-5650

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In copertina: “Ritratto di gufo notturno” di Raffaele Magnani


Pubblicazione realizzata con il contributo de “Il Club degli autori” in seguito al conseguimento del 2° posto nel concorso letterario «Città di Monza» 2013


Prefazione

Filippo Inferrera esalta il valore universale della poesia perché, nella sua visione, alimenta la sostanza stessa del lirismo che è insito in ogni emozione, immagine e suggestione offerte dal mondo circostante e, ancor più, riesce a penetrare le regioni più profonde dell’animo umano proprio grazie alla sua alta concezione del predetto valore universale al quale assurge la Poesia.
La sua Parola, costantemente ricercata e raffinatamente offerta, capace di regalare linfa vitale ai versi dei componimenti della silloge “La solitudine del gufo”, possiede la forza primordiale del sentire lirico strettamente collegato alla poetica della memoria: i ricordi riemergono prepotenti; nel suo animo rivive il faticoso e duro “cammino percorso”; nel suo cuore esplodono i colori ed i profumi dell’amata terra di Sicilia ed, infine, i “pensieri scorrono come acqua” nel breve fiume esistenziale quasi a seguire il desiderio di andare oltre la “misura del tempo della vita”.
Siamo davanti al fascino di poesia d’anima, anzi, direi poesia che “sprofonda nell’anima”, come il poeta stesso sottolinea più volte: ecco allora che si possono comprendere, fino in fondo, i continui moti dell’anima, lo struggimento memoriale sempre consapevole e mai fine a se stesso e, in ultimo, la forza immensa dei sentimenti che si intersecano con la visione lirica capace di espandere la sua energia in ogni direzione.
La forza dirompente e vulcanica della sua poesia conduce ad una dimensione più alta (“la poesia avrà ali per volare”) nella quale dominano la concezione-percezione della vita come “una storia di spazi e rivoluzioni cosmiche” che, inevitabilmente, “lasciano impronte nell’anima” e si avverte la consapevolezza che le parole, pur scavate nel profondo del proprio essere, non “restituiscono orizzonti di voci amiche” ed il poeta, ammantato, “imbacuccato” della sua solitudine si trova a fare i conti con la stagione della vecchiaia, sentita come un “complicato pensiero”, vissuta come il tempo delle “appassionate parole in libertà”, sempre accompagnato dall’immancabile “sua antica solitudine”, fino al “dolce naufragio”, fino all’agognato “approdo sereno” come a fondersi con quel fatidico silenzio che “parla al passato per metafore”: nel cuore è conservato tutto ciò che ha contrassegnato il suo passato e che regala ancora un “senso” al tempo da vivere assegnato dal destino ed il poeta custodisce questo tesoro con amore in attesa dell’“ultima stella”.
L’alfabeto lirico di Filippo Inferrera ingloba in sé il silenzio, sfida l’abbandono alla consolazione ed i segnali dell’inquietudine, diventa “voce della memoria” di un protagonista che vuole vivere la memoria dentro ogni istante sempre in cerca dello stupore che riserverà il futuro.
La voce lirica di Filippo Inferrera è profonda testimonianza d’un poeta che, con orgoglio e coraggio, tende alla purificazione della poesia quasi a lasciarsi “trascinare” verso il sogno, il fascino di questa esistenza, tra tumulti ed ubriacature di desideri, sempre fedele al senso autentico delle parole e alle verità dei sentimenti, custodendo il suo canto magicamente invaso di “malinconia da guerriero” e riuscendo a ricucire gli “strappi della memoria” grazie ad una poesia che è custode delle deflagrazioni dell’animo.
Le sue parole sono “gocce di luce” che illuminano il cammino nei “giardini della memoria” quando la mente “indugia” e ritrova tracce memoriali tra “asfodeli e torrenti di sorgenti”, marine e scogliere della sua terra, tramonti infuocati del sud ed “aranceti bruciati dal sole”: il mare magnum di queste inebrianti suggestioni e tumulti dell’animo, s’incarna in un “puro donarsi” a coloro che leggeranno le sue poesie, tessere di un mosaico, vertigine di parole, nutrimentum spiritus di un poeta umanamente dolente e profondamente vibrante capace di catapultare in un firmamento lirico che diventa respiro vitale d’un uomo che palpita, dimenticando il peso degli anni, capace di alleviare le ansie e le paure ed alimentare la sua visione con “umili versi”, senza menzogne né rimpianti.
La chiusa finale a queste mie osservazioni vuole rendere omaggio al poeta Filippo Inferrera, come simbolico personale apprezzamento alla sua poesia, citando alcuni versi che reputo fondamentali ed espressione fedele del suo profondo sentire lirico: “Io resto qui… a lottare e rincorrere sogni,/ nella mia solitudine da gufo, per resistere, per mantenere/ l’incantesimo di una vita strepitosa del tempo nel tempo,/ che non sarà mai più notte senza rami o rotta senza nocchiero”. Non credo vi sia sigillo più autentico.

Massimo Barile


La solitudine del gufo


La solitudine del gufo

Rami secchi di questo inizio inverno
si agghindano di nebbie opalescenti
nidi di rondini in partenza si svuotano
rilasciando libertà di voli e sogni
dentro limpidi cieli di smeraldo.
La solitudine del gufo quando ti prende
avvita l’anima e la deterge dall’impuro
in acqua di fonte benedetta che ricuce
dolorosi strappi di memorie.
La solitudine del gufo non è inquieta
né disperata ma nasce dal silenzio
e nel silenzio beve il nettare migliore
gioca a rimpiattino con le ombre
e l’introverso mallo del tempo maturo
Tempo di limoni di aranceti bruciati
dal sole tempo della mia terra proibita
del melo giovane delle Processioni
dei Santi delle Novene in Chiesa
Tempo di ciò che mi resta tra le dita
un folto bosco d’immagini dipinte
alianti sopra una collina grida infantili
mia madre che pregava attorno ad un braciere.
Notti lunari vegliate ad occhi chiusi
con i sensi domati da pescatore di sirene
anni di vita ormai adulta ormai catalogati
in polverosi fascicoli d’ufficio sena luci
vivo imbacuccato in questa solitudine animale.


Alba di mare

Io vedo dove la mia bellezza non si fermerà mai,
dove la carne sarà miele di un amore infantile
e il tuo ventre diventerà la veste del mio pensiero.
Dentro, mi porto la macchia della notte, il suo irreale,
e il tuo sangue, caldo e fluente, come un torrente
che riconosce le sue sponde, come un amante puro
che mai abusa delle sue carezze e su di te vigila.
Perchè sei donna e la mia infanzia, terra di colori,
io non sarei uomo se non potessi sognare, ricrearti,
perché sei frutto di fiori, vivente verde, turbolenza,
io non sarei quel diamante che sono, per assurdo,
perché hai fuso il primo e ultimo amore in un dono.
Io vedo dove la mia solitudine non sarà solo ombra,
dove la mia poesia mi porterà a svernare con l’airone
nel profumo dei ciclamini, dentro il tuo fantasticare,
nel mio passato dove la morte non sarà più leggenda,
dove la neve tarderà a sciogliersi dentro vuoti di vita.
Anche la nostra terra sarà sepolta dalla cenere del tempo
e quella pena dei vivi, che mordono coltri pesanti di noia,
e quell’assenza di fuoco paterno, quegli attimi di bene,
quelle orme, ricchezza d’erba, di un’età della vita vissuta,
a piedi nudi e saldi dentro lo specchio di un’alba di mare.


All’amico ridestato

Amico mio carissimo
quanta acqua è passata sulle macerie del tempo
quante mani esangui hanno piagato
rosari di filo spinato
ora da giorni incolumi e disperati
come la memoria gemmano fiori d’acqua immacolati
che strappano certezze al cuore generoso
forse non sai che oltre quelle scogliere
di cui fummo compagni e sovrani
il pianto caldo delle donne di lampàra
non desta più sensazioni marine
e la morte è già una parvenza più dolce
un valore che svetta sopra la ragione del vivere
e questo vivere sai è un ruggente cavallo
che galoppa strozzandosi in discesa
rabbia di generazioni sordomute
silenzi intercettati sangue-vessillo
per velare di eroico e di mistico la viltà
ignoranza diffusa nelle case nelle piazze
nei bar gente che beve che gioca che farnetica
di politica mio grande amico già lontana è l’età
degli eroi solitari dei forti pensatori
della legge per gli uomini di legge
le feritoie del mestiere sono tante
e tanto cammino è ancora da percorrere
per essere credibili e difendersi dal male presente
che imbottisce di proiettili di sangue le dita
del cecchino che dà nuova vita ai predatori
dell’aria cristallina del mare verde di cefali
camminano su strade parallele e inverosimilmente
convergenti l’amore e il disprezzo della vita
e noi fusi in essi protagonisti nolenti
ma in fondo cellule del sistema che si snoda
tragico attraverso strettoie cavillose
sigle di copertura e bandiere sottovento
ripetiamo ancora al centro del cortile
il poroso gioco da ragazzi tra ragnatele
di finestre e vetro nello squarcio vorace
del crepuscolo che va inesorabilmente
insabbiato nella sua natura di Giano bifronte.


Anima migrante

Forse, mi scruterai dal profondo buco delle nuvole,
forse, sentirai la mia voce lungo il sentiero dei ruscelli
e mi parlerai con voce piena, illuminata dai pensieri.
Io credo senza tentennamenti alla transumanza dell’anima,
quando il giorno si scioglierà verso una notte di stelle.
Forse, mi seguirai premuroso lungo l’incerto cammino,
forse, mi farai compagnia nel sonno sotto forma di aquila.
Io t’imploro, padre di tutte le stagioni, re delle mie terre,
io non potrò più pregare sulla tua tomba senza lapide.
Forse, un religioso rosario potrò accendere tra le dita ferite
in mille rivoli di preghiere e bisbigli privi di lacrime,
forse, solfeggerò le limpide note della nostra canzone
e coglierò l’umido fischio di una locomotiva senza futuro
in quel lungo viaggio estremo abbarbicato alla luce.
Io t’imploro, amico di tutte le passioni, re di emozioni,
forse, la mia poesia avrà tante ali per volare sui cieli
e tante braccia per non perderci più su questa strada
lastricata di pietre e di spine, o madre non più terrena,
forse, un’altra età si chiude nel segreto di uno scrigno
quando tu eri la fiamma ardente della fede, un geranio,
e tu, mamma dei miei figli, in un mattino di primavera,
già sfiorita come un accadimento necessario di stagione,
resterai nella memoria come un piccolo girasole in un oceano,
dove l’anima migrante è un’elica di nave che sogna il suo sogno.


Ancora una parola

Ancora una parola potrei donarti pulita dentro,
perché non sia più povera la nostra transumanza,
perché non ci siano più segreti né dannosi silenzi.
Le distanze tra noi sono il tempo fuggiasco e ignoto,
che sbriciola pozze d’acqua, che toglie il respiro
al mare, che scrive istanti di secoli con il compasso.
Ma nessun pensiero ci apparterrà, se saremo ciechi,
se non eviteremo le nostre ombre, se non combatteremo,
anche nell’oscurità della luce, anche nelle lunghe pause
della memoria, vittime e carnefici di una bella verità.
Una parola, questa mattina, porto nel mio tascapane,
come una reliquia, che ha tanti suoni delicati e una voce,
quanti anni ha? È il verso di una breve poesia oppure
l’inconfondibile diario della nostra mai sopita gioventù?
Non temere, figlio, di attraversare il fiume e i suoi sapori,
la vegetazione è alta, ma trasparente, a volte s’illumina,
dentro una forte musica di liuti raccogliti come un bimbo
che non ha paura di morire, accendi questa solitudine del gufo,
che si acchiocciola, innamorato, nella sua eterna primavera.


Approdo

Musica dei giorni è questa voce d’amore,
quando i ricordi riemergono dal mare
e restiamo in ascolto io, il cuore e la mente.
Sono tutti miei figli, che bussano alle porte,
questi ricordi, che stendono le ali, si vestono
di fiori, levano àncore di tempo e spazi d’erba.
Chino il capo e colgo quest’approdo sereno,
nel fascino di una vecchiaia senza traguardi,
che trascorre irreale e, a volte, brucia inquieta,
come una gioventù densa, recisa troppo in fretta.
Immagini, forme, emozioni di sensi, miei idoli,
persone care e tracce di passioni, condivisibili,
come la mensa, il fumo del camino, la preghiera,
il colore dell’uva, la pena rassegnata per i morti.
E il freddo e la guerra con le sue crudeltà e la paura,
che ci univa, gente muta e mutilata, l’uno all’altro,
in attesa di spegnere la luce per non pensare più.
I sassi della mia terra, le scogliere della mia terra,
il fragore dei gelsi, il sapore del giovane tiglio e, poi,
bello rivedervi tutti col cuore gonfio di vero orgoglio,
qui dove la luce ricama tinte nei tramonti del Sud,
qui dove le lune e le canzoni migrano col fringuello
e restano profili di sogni, appesi alla mia preistoria.


Arpeggi

Cerco la solitudine nell’anima delle piante,
quella solitudine un po’ tenera, un po’ perversa,
quel vuoto onesto che ci conquista nella notte,
quando i nostri morti bussano alle Chiese vuote.
E sono tanti, occhi che ci guardano, mani fredde,
dentro i loro mantelli a ruota, colore cenerino,
pizzicando tra le labbra l’anticato marranzano.
Questa sera imbrunisce troppo presto e senza stelle,
rigenerando in me tutte le poesie della memoria
e musica marina dei tramonti d’estate sugli scogli
e tanta voglia di vivere cento, mille, infinite vite.
Cerco la solitudine nella mia terra degli afrori,
delle cozze imbrigliate dentro i tentacoli del lago,
delle barche ondeggianti ai capricci di scirocco,
delle tonnare dove si consuma impietosa la mattanza.
Mi darai mai, vita, un’ultima occasione per risentire
lo zoccolo dei cavalli in amore, il canto della civetta,
il grido adulto dei pastori accampati sulle alture?
E mi darai mai quell’angolo di eternità intrigante,
quel bacio della buonanotte, quel risveglio ardente
e quel calore di figlio lungamente atteso e perduto?


Baccano

Non so perché racconto di queste pietre
e di questi fratelli violentati e uccisi
dietro muri di filo spinato, senza amore.
Non so perché mi ascolto e m’interrogo,
in questa abitudine di fare sondaggi,
di prevedere la misura del tempo della vita.
Come camminerò domani quando sarò cosmo,
quale volto vestirò lungo le strade di famiglia,
dove andrò viaggiando con il timone del vento
tra le mani? Mi difendo dalle vili menzogne,
voglio sapere se sono ancora un ramo fiorito,
o un passo dissepolto nei giorni della “merla”.
Dentro i grani di un rosario scorrono come acqua
i miei pensieri, sono nato sabbia e aria e fuoco,
dovrai tarpare le mie ali, quando sarò solo anima.
A te devo la tavola imbandita, il crepitio buono
del pane, il vino frizzante del nostro forte amore.
A te devo il baccano della mia immaginazione,
i viaggi, le notti, le solitudini, la menta e l’anice
e le pernici, la luce e le scarpe di un altro inverno.
Mi affretto a ripagare l’ultima stella del cielo,
mentre la luce ammucchia tutte le sue ombre
e il sobborgo è un fardello di vetri scricchiolanti
e la luna si alza sull’oceano con il suo sale errante.
Come impazienti cavalli, allineati al filo di partenza,
galoppiamo fermi alla marina, unici prodigi dell’aurora.


Binomio

Io e te abbiamo lo stesso tempo
e lo stesso profumo di terra vangata.
Io e te abbiamo lo stesso Vangelo
e la stessa voglia di acqua e di falene.
Siamo il silenzio e la voce della memoria,
il gusto elementare di un borgo senza mura.
Navighiamo sulle prime onde del mattino,
alla prima luce delle lampàre, in mare aperto,
nell’ombra tiepida di un’aurora boreale.
Come fanciulli accarezzati dal garbino,
come gitani sognanti nell’incalzare di malinconie.
Chi di noi avrà ancora tanto sale di coraggio
per completare il duro cammino della vita,
per rivedere la palude brulicare di stelle?
Io e te abbiamo lo stesso tempo,
la stessa tenerezza ricercata nel buio,
lo stesso sapore acerbo della pioggia a primavera.
In fondo, la nostra vita è un intrigante binomio,
una storia di spazi e di rivoluzioni cosmiche,
che lasciano impronte nell’anima, armonie vere,
in questa infinitesima parte di tempo carnale,
che ci resta da riscrivere con lo smeraldo del mare.


Destinazione

Mi affido al vento, al suo profumo di girasoli
che penetra i castagni, ai fuochi in lontananza,
alle rapide di un fiume, alla maestà del monte.
Frugo tra nascondigli di ricordi, in questa vita
che pencola nell’aria come un aquilone sfilacciato,
dentro le tue mani calde, sempre più consolanti,
nei giochi da bambino, nel figlio che fatica duro.
Centellino il tempo che mi veste di spicchi di luna,
che mi dona la nuova avventura, dove la pietà è vera,
dove ti vedrò a perdita d’occhio sopra le foglie vive,
in un mare d’infanzie ripescate, bellezza senza età,
madre di luce e di dolore, quando l’ultimo grido sarà
veramente l’ultima corazza di un’inquietudine dissolta.
Sfioro il silenzio delle strade, tra le orme disperse,
nell’universo di verdi culle e davanzali, dove nacqui,
umano tepore di primavera, di te più innamorato,
crescendo tra pietre e stelle, in luoghi improvvisati,
che dicono “il mio passato”, ancora in corsa nel cuore.
Verrai veloce, quando pizzicherai le corde dell’anima,
quando finirai per consolarmi della perduta identità,
creatura del bene, stillando piogge di sere eterne,
ripetendo che la morte non sarà l’ultimo respiro?


Diritto di cittadinanza

Tutto ha senso in quel diritto di cittadinanza
che prende corpo dentro mani callose
e sguardi impauriti dal tremore delle onde.
Una vita sabotata fin dalla prima infanzia
e percossa di giorno e di notte, impietosamente
violentata sulle pietre dei lavatoi,
nei vicoli nelle capanne, dove si profana
la carne dei vinti.
Non so di scenari più crudeli ed immondi,
quando la follia fa capricci da coccodrillo,
quando miserabili attori mercenari infieriscono
sulla dignità di donne, bambini, adulti, vecchi,
e ogni cicatrice è beffeggiata, irrorata di sperma.
Ora, loro cercano il mare e il caldo viso della luna.
ora, cercano sorrisi, umanità e mani accoglienti,
che spalanchino cancelli e donino libere sepolture.
Piccoli topi avvolti nella stessa pelle, mucchi d’aria,
sconvolti, infreddoliti, privi di parole e di lacrime,
affamati, disidratati, lucciole senza luce e senza ali,
navigano nella notte, senza sapere dove né perché.
È scritto nel cielo con segni d’ acqua e di fuoco:
quando sbarcheranno sul primo molo della vita,
mano nella mano indicheremo loro la strada,
verso la piccola lanterna di una piccola terra serena,
dove mai scenderà il buio della sopravvivenza.


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