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Prefazione
Non v‘è mai una sola volta che mi avvicino ad un libro, sia esso poesia o narrativa o quant’altro, senza la volontà di capire ciò che l’autrice o l’autore vogliono esprimere, e sempre tento di scavare a fondo, di carpire l’essenza, attuare una sorta di fusione tra scrittore e lettore per interpretare, secondo una mia personalissima visione, ciò che reputo importante e degno di essere sottolineato con parole che possono, miracolosamente, cogliere nel segno oppure constatare il fallimento del mio intento.
In definitiva, ci si rende conto di essere ricercatori d’emozioni, archeologi letterari che cercano di recuperare reperti sedimentati nel tempo, esploratori in avanscoperta di numerosi microcosmi ancora da svelare e, come scriveva Marcel Proust, “Il vero viaggio di scoperta non consiste nel cercare nuove terre, ma nell’avere nuovi occhi”: credo sia fondamentale.
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In questo momento, mentre leggo con profonda meraviglia le pagine della raccolta di racconti di Sara Bellingeri, non posso far altro che lasciarmi trasportare dal suo flusso narrativo e pensare alle improvvise accelerazioni della sua scrittura, alla sua capacità di esprimere l’infinità interiore e l’effervescenza che accompagna la complessità delle risorse letterarie che Lei trasfonde sia nella sua poesia che in opere di narrativa.
Sara Bellingeri ha uno stile che entra nel sangue, si insinua, come liquido vitale, nelle vene sino al cuore.
Ogni racconto è un lampo letterario. Luce calda dell’animo. Poco importa che le parole nascano dall’inquietudine, dalla sofferenza, dai sogni infranti, dalle illusioni svanite o dalle amare prese d’atto d’una condizione lacerante da parte dei protagonisti dei racconti: ciò che conta veramente è riportarle in superficie dopo la loro sedimentazione in luoghi oscuri e apparentemente inaccessibili.
Sara Bellingeri recupera ogni frammento di vita, vi soffia dentro essenza primigenia, rigenera e plasma la somma di occasioni perdute, la tristezza organica, la sensazione di contrazione del tempo, la stessa struttura interna dell’esistenza: nella drammaticità e nell’allucinazione metafisica, le sue parole sono coinvolgenti, inebrianti, maledettamente accecanti nel loro supplizio che conduce ad un crollo delle limitazioni interiori.
Sono pochi coloro che possono sopportare esperienze che consumano e tutti noi nascondiamo il nostro mondo salvo rare volte nelle quali afferriamo le occasioni e ci lasciamo trasportare in una regione spaventosamente complessa, in una vera interiorizzazione che conduce alla comprensione.
Ecco allora che nel racconto “Il vento” di Sara Bellingeri è come sentire il “profumo dei sogni”, quel profumo che rende meravigliosa la vita e poco importa che i sogni siano coronati o infranti. La visione onirica d’un uomo a colloquio con il vento e la constatazione che sono i sogni che riscaldano l’anima anche quando sembrano essere dimenticati: la vita stessa come un insieme di sogni “adagiati sui fondali dell’anima”. Le parole dei sognatori che amano veramente possono rincorrere fino all’ultimo respiro, “nell’oceano infinito dell’anima”. E Lei, cerca “le parole di uno scorcio di vita per poter vedere vibrare i suoi occhi, per farli danzare come pelle fluida del lago, per ricamare la pagina di un’emozione sui passi del crepuscolo…” come ad annusare, letterariamente parlando, un senso d’infinito, dopo una frattura tra realtà e sogno, con la consueta propensione ad una sospensione in un tempo indefinito. Le parole di Sara Bellingeri sono il nutrimento, strappate dalle zone più remote, graffiate dalla materialità della vita.
E poi in “Lebnem” è come se Sara Bellingeri prendesse per mano fino a condurre in un luogo etereo, un luogo dove “i muri conservano ancora il profumo dei segreti”, la musica diventa mistero in quelle “notti in cui si può chiedere qualsiasi cosa senza imbavagliare il cuore”: è in quella condizione che “trovare le parole significa riconoscere l’esistenza di qualcosa” e si può “scivolare dentro l’amore, dentro la musica, dentro la carne delle stelle”.
E Sara Bellingeri sa che, toccato il vertice dell’umana comprensione e scoperto lo stato emozionale, inevitabilmente e sfortunatamente, il dolore non scompare con “dieci gocce” d’un qualsiasi farmaco.
Così nel racconto “Voci” ritroviamo un uomo che soffre di depressione ed è fatalmente abbandonato dalla moglie che non può sopportare la sua fragilità, il suo silenzio e quindi ricerca appunto le “voci”, i rumori, i fragori che occultino ogni contraddizione, incertezza e debolezza, per “non pensare”, per non avere più una coscienza.
E quest’uomo “talmente abituato a scrivere che quasi non si ricorda più come si fa a parlare” diventa la figura simbolica d’un essere umano che, agli occhi d’una donna, é ormai “assente”, anzi un “folle”, forse solo perchè si trova a “disegnare i sogni” e le “oscillazioni silenti” dell’esistenza: a lui non rimane che “sciogliere i suoi giorni nella più viscerale ineluttabilità”.
Anche negli altri racconti la parola di Sara Bellingeri diventa lo strumento elettivo attraverso cui sondare ed esplorare le zone d’ombra, ciò che è celato oltre l’apparenza, ciò che sfugge ad una completa definizione, ad una rappresentazione banale di stati emozionali.
Tutto pare assorbito dalla funzione sciamanica della scrittura, in una comunione tra mistero rivelabile e catarsi, afferrando l’esperienza della sofferenza e catapultandosi, come in preda ad una vertigine, nelle metafore narrative dell’esistenza umana.
Sempre consapevole di quanto si può perdere e mai certa di ciò che si può conquistare.
E l’uomo dell’“ultimo viaggio” di Sara Bellingeri si congeda così: “Sentiva le voci di quella giornata, vedeva gli occhi di tutti i personaggi in cui si era imbattuto e si strinse a sé, in quella parte che sembra non debba svanire mai, dove i profumi più forti e cari della vita hanno la protezione dell’eternità. Partì per il suo viaggio, sotto i baci della neve”.
Tutti i destini vissuti sono ora “silenzi” nell’eternità di cieli immensi.
Forse il fascino della vita è che bisogna goderla e patirla come se si fosse immortali.
Massimo Barile
RINGRAZIAMENTI
Ogni libro è un’avventura, una storia che si aggiunge a quella che già stiamo vivendo e che si nutre di fiducia se abbiamo accanto persone interessate ad ascoltarla, anche solo standole vicino. Per questo desidero innanzitutto ringraziare di cuore Alessandro, mio compagno di vita, per la dolcezza e il sostegno dimostrati nei confronti del mio progetto. Grazie, inoltre, ai ragazzi, nonché scrittori e poeti, della “Confraternita dell’Uva” per il concreto supporto nella fase di pubblicazione e ai cari colleghi del settimanale “La Cronaca di Mantova” per la vicinanza dimostratami. Grazie, infine, a tutti i personaggi del libro che tanto generosamente mi sono nevicati nella testa e a quei frammenti di mondo che mi hanno permesso di rispondere alla vita tramite la scrittura.
Le nicchie blu
ad Alessandro, mia luce
LEBNEM
Capitai in quella via per caso. Solitamente se facevo un giro serale andavo da tutt’altra parte della città, nel cuore più antico e silenzioso, dove i muri conservano ancora il profumo dei segreti. Lì, invece, ci sarò passato qualche volta e mai così tardi, quando la sera si colora di notte. Ma avevo bisogno di uscire, di stancare il corpo in lunghe passeggiate, di andare il più lontano possibile, magari perdendomi. Dovevo fare così altrimenti andava a finire che mi stendevo sul letto ad aspettare il sonno e intanto litigavo con il cuscino sempre troppo caldo e con le ore interminabili su cui i pensieri s’infrangevano incalzanti. E da schiuma nasceva altra schiuma, ricordi mischiati a preoccupazioni e a litigate mentali che avevano il suono di un urlo imploso. Litigate che piano piano mi ammalavano infiltrandosi nel cuore e nello stomaco come un siero velenoso d’umidità.
Di notte mi scontravo spesso con figure del passato e del presente con cui avevo in sospeso una reticenza. Si trattava di persone che attendevano una mia risposta o alle quali non ero ancora riuscito a formulare quella domanda che avrebbe strattonato il nostro rapporto. Ma soprattutto litigavo con me stesso e allora il corpo veniva attraversato da un’autentica onda di agitazione portando il sonno a finire completamente a tappeto. Poi, così come era iniziata, la lotta terminava improvvisamente o per paura o per una stanchezza incoercibile che spegneva il pensiero. Arrivava il buio e come una spugna gonfia d’acqua cancellava le parole e le immagini di cui riuscivo a conservare al risveglio qualche frammento. E c’era anche il silenzio, ricordo. Il silenzio che ad un certo punto si esala facendo affiorare più vivida ogni cosa, compreso il rumore stanco dei treni a merci che arrancavano all’arrivo del loro lungo viaggio solitario. Chi li guidava a quell’ora? Chi come me era ancora compromesso con le fondamenta della vita? Forse occorreva il coraggio di capovolgere tutto e abbracciare il pensiero, quel pensiero privo di nome che da anni ti pedina e assale l’anima senza che tu possa controllarlo. E c‘è tutto in questo pensiero. Tutto. Ma è così grande che è difficile trovargli un nome. Eppure sembra indispensabile per chiamarlo e dirgli di venire da te, perché è arrivata l’ora di chiarire, di urlare, di immergersi nelle sue immagini. Un nome è necessario per aiutarlo a risponderti quando lo cerchi mentre la spugna piena d’acqua sembra aver tolto tutto, persino ogni più piccolo coriandolo di memoria del cuore. Ed è allora che ti accorgi che non è solo colpa tua o del pensiero, ma anche del caso, del tempo. Dei continui rimandi diventati legge.
Il mio passo era volutamente incalzante quella sera che stava diventando notte. Mi sentivo come se fossi in ritardo ad un appuntamento ed era inutile preoccuparsi di cosa avrebbe pensato la gente vedendomi camminare in quel modo: non c’era nessuno. Mi accorsi che la zona della città in cui ero capitato era davvero particolare. La via che avevo seguito senza troppa attenzione si apriva all’improvviso in uno spiazzo silenzioso. Sulla destra campeggiava un edificio vecchio, con i muri scrostati e un cumulo di teloni di cellophane che, raccolti in un angolo, si gonfiavano leggermente al passaggio più intenso dell’aria. Accanto ad essi giaceva una piccola carriola. L’edificio aveva tutta l’aria di un magazzino abbandonato e caduto in disuso, una specie di discarica per arnesi malandati, come malandato era il cancello arrugginito che proteggeva il cortiletto di cemento. A sinistra della piazzola, invece, c’era una casa dai muri chiari e le finestre con le imposte tutte chiuse, tranne una: quello era l’unico segno visibile che testimoniava una presenza laddove sembrava regnare la totale solitudine. La finestra, da cui grondava buio fitto, si affacciava su un frammento di pavimentazione di sassi e su un lampione che rischiarava il luogo con la sua luce pacata. Al centro del luogo si trovava un piccolo parco giochi con uno scivolo, due altalene e qualche panchina scrostata. Un altro lampione illuminava un dondolo a forma di cavalluccio marino con buffi e tondi occhi blu e il corpo dipinto di verde e arancione. Più in là, in mezzo al prato e affiancata da qualche albero dalla chioma spumosa, spuntava una montagnola d’erba, che assomigliava al guscio di una tartaruga emersa dai fondali della terra. Molto probabilmente si trattava di un’invenzione escogitata per far divertire ancora di più i bambini che venivano a giocare nei pomeriggi d’estate. Incuriosito, mi avventurai oltre con lo sguardo, ancora più in là, fino a che non mi fu possibile, fino a che non venni bloccato dalla presenza di una collinetta verde che si stendeva al confine del parco facendogli quasi da recinto. Dietro di essa scoprii, con grande sorpresa, che era stato costruito un parcheggio per automobili, quella sera praticamente vuoto e dall’aria desolata. Oltre lo spiazzo di cemento, infine, giaceva la superficie scura del lago. Se per caso capitava di sedersi su una panchina del parco con la luce brillante del mattino era difficile immaginare, almeno per me, che oltre la collinetta ci potesse essere una distesa d’acqua confinata. Con il chiarore vivido del giorno quel posto sapeva di mare, di onde, di movimento. Mentre di sera, così particolare e insolito, con addosso il sapore dell’avventura, il lago che mi si stagliava davanti, immobile e dall’aria impenetrabile e offesa, calzava a pennello.
Lo spicchio algido della luna brillava lontano. Ricordo che, passeggiando nella piazzola con le mani intrecciate dietro la schiena, mi colpirono fin da subito le labbra arse di sete delle grondaie insieme alla tenera luce del solitario lampione. Alcuni macchinari da lavoro abbandonati accanto alla strada dissestata esalavano sonno. Guardai queste cose. Le guardai assaggiandole con ogni più piccola e sperduta parte del mio corpo fino a che, all’improvviso, come se ci fosse sempre stata e le mie orecchie si fossero aperte solo allora, l’aria si riempì di musica. Una musica densa che proveniva da chissà dove. Mi diressi allora nel punto in cui il suono sembrava più vivido. Alzai la testa: l’unica finestra con le imposte aperte faceva grondare quelle note insieme al buio. Forse, pensai, qualcuno stava ascoltando la musica in una stanza con la luce spenta. Mi fermai perché le gambe mi tremavano e perché c’era qualcosa di forte che mi bloccava, come se fossi andato a sbattere contro un muro invisibile. Come se una mano posata sulla testa mi facesse quasi inchinare di fronte a ciò che è solenne e infinito. Di fronte all’insieme di suoni e di istanti che mi avvolgevano. Non avevo mai sentito nulla del genere in vita mia. Quella musica aveva in sé tante cose. L’alito profondo e trapuntato di mistero del blues. Il colore graffiante e impetuoso del jazz. Lo struggimento di un violino suonato in una stanza dove i muri sono sordi alle lacrime. La dolcezza stremata e intensa dell’arpa. La favola vibrante di una voce che canta la sua canzone di vita. L’irruenza di un fiotto che apre la terra. Aveva tante cose quella musica. Tante cose unite in uno stesso abbraccio di note e non esattamente decifrabili per la mia testa ubriacata dalle emozioni.
Ma perché trovarle per forza un aggettivo o un nome?
Assomigliava al piacere di una donna. Lungo e dolcissimo. Disarmante e inebriante. Di quelli che ti fanno bere l’alba e il tramonto in un sorso solo. Di quelli che ti aprono il ventaglio dell’infinito nel cuore. Quella musica l’ascoltava una donna, ne ero sicuro, perché aveva la forza di un concepimento. La immaginavo seduta su una poltrona. Una ciocca di capelli intorno al dito. Un bicchiere d’acqua vicino che avrebbe bevuto solo a metà. Le occhiaie e le ciglia lunghissime. La stanchezza della giornata e la voglia di fuggire via, il più lontano possibile. Il cuore nel petto come una valigia sfatta. I brandelli di tutti i suoi segreti sparsi tra le lacrime non ancora scese. E le gambe rannicchiate come quando era bambina, come se il tempo non fosse mai trascorso. In fondo lei era rimasta sempre lì, in quei giorni lontani dell’infanzia, quando l’amore era già stato tradito e la fantasia litigava con il principio di realtà. Ma ora era notte e poteva lasciar parlare la paura, la nostalgia. La musica era la sua nicchia di protezione. A lei si concedeva e non aveva timore di disturbare nessuno, libera di volare durante l’ora tarda. Era come la polpa succosa di un frutto quella melodia. Il sapore denso di un acino bruno che si scioglie in bocca. Era forte e ti prendeva la gola. Era tenera e ti massaggiava il petto.
Poi, senza preavviso, si avvicinò a me un suono diverso. Passi.
«Non spaventarti, sono solo una puttana» disse una voce bassa. Mi girai e vidi di fronte a me una giovane donna. Mi colpirono i suoi occhi scuri e intensi e la figura sfuggente. Sembrava un rilievo dell’aria notturna.
«Stasera siamo in due ad ascoltarla» sussurrò piano come se temesse di svegliare qualcuno. «Io vengo qui perché sono innamorata. Innamorata veramente…» aggiunse, e alzò il suo lungo braccio, indicando con il dito la finestra. «E tu, invece, perché sei qui?» continuò. Gli occhi erano le piume nere e vellutate di un corvo.
«Credo di essermi innamorato anch’io» ammisi con voce bassa. Forse c’era il rischio di disturbare davvero qualcuno.
«Non suona sempre» disse con voce triste, intessuta di un lieve accento francese. «A volte sì e a volte no, dipende…».
«Da cosa?» chiesi incuriosito.
«Da come è andata la giornata» rispose. «Se il cielo, il tempo e le persone erano come lui li aveva immaginati…».
«Lui?».
«Perché, immaginavi forse una donna?» rise divertita e le piume vibrarono in attesa del volo. «E magari anche bella, affacciata alla finestra, triste e abbandonata. Mancavi solo tu per farle compagnia». Ora mi scrutava annusando con le pupille i pertugi dei miei pensieri.
«Mi piace immaginare le cose e anche se non volessi sarebbe impossibile. Potrei scommetterci che dietro a quella finestra c‘è una donna che sta ascoltando la musica» ribattei con tono deciso ma innaffiato d’ironia.
Lei sorrise, poi riprese a parlare come se non avesse sentito nulla di ciò che avevo detto.
«Una notte mi stavo sciacquando il viso alla fontanella del parco giochi: non mi piace il sapore del sale e così sono venuta qui per togliermelo dalla pelle…»
«Non ti piacciono le lacrime?».
Mi guardò con lo sguardo di un gatto illuminato all’improvviso dalla luce. Abbassò lievemente le palpebre. Proseguì: «Non mi piace il sapore del sale e avevo bisogno di acqua. Poi mi sono seduta sulla panchina e ho sentito la sua mano sulla mia spalla. Era tenera, come la voce: “Vuoi venire con me?” mi ha chiesto. Era strano che qualcuno pensasse che io potessi volere qualcosa. Sentivo che non mi avrebbe fatto del male. La sua voce era calda e morbida, come la sua mano. Aveva una voce grande…» s’interruppe per un attimo. «Si può dire che una voce è grande?» chiese con un sussurro da bambina.
«Penso che a quest’ora della notte sia permesso dire tutto».
«Lo credo anch’io. Anche quella volta pensavo che avrei potuto dire qualsiasi cosa. C’era la sua mano che mi proteggeva come un nido. Io non mi sentivo più sola, né sporca, né brutta». Le ali di corvo brillavano come se contenessero frammenti di stelle.
La musica continuava imperterrita a suonare avvolgendoci come una sciarpa di seta. Era uno scivolo su cui l’aria rallentava come se volesse racchiudere nelle sue mani gli istanti che stavano trascorrendo. Era uno di quei momenti che ti sembrava di aver già vissuto in un’altra città, con un’altra persona, in un passato sconosciuto ma già incontrato in un sogno. E la voce stessa di quella ragazza che mi parlava era sì nuova ma non forestiera. Era già venuta a trovarmi per poi nascondersi di nuovo in quella frase che ripeteva: è soltanto un sogno. Ma io ero lì, anche se forse me ne sarei dimenticato. Io ero lì e ascoltai le sue parole.
«Quella notte» sussurrò come se cantasse una ninna nanna a bassa voce «salii le scale con la sua mano che mi guidava. C’era profumo di casa, di gente che cura i fiori, che fa colazione, che scatta delle foto da tenere per ricordo». Deglutì, forse un frammento di tristezza. Immerse per pochi istanti le piume di velluto tra le dune ambrate del viso. La musica fluiva dalla finestra. Il lampione ci donava la sua tiepida luce. La luna stava appesa al cielo.
«Continua a raccontare, ti prego».
Lei sorrise rimanendo con gli occhi chiusi: «Aprì la porta. Il rumore della chiave nella toppa aveva un sapore buono, come quella di una fetta di pane con spalmato su il miele. Anch’io, sai, conosco il sapore del miele?».
L’avrei abbracciata.
«Mi ha fatto ballare al suono di questa musica, le mie mani nelle sue. Ho chiuso gli occhi per non dimenticare quel momento, per fotografarlo meglio con il buio. E così faccio ogni sera, ogni notte, quando torno qui, di fronte alla sua casa. Io, sai, sono rimasta a ballare con lui».
Era notte e si poteva chiedere qualsiasi cosa senza imbavagliare il cuore.
«Come ti chiami?».
«Lebnem».
Lo disse piano, come se fosse un segreto, come se lo avesse scoperto solo ora. Come se fosse un dono da custodire con mani emozionate.
«Il tuo nome mi ricorda qualcosa».
Sorrise: «Come tutti i nomi».
«Mi ricorda un fiore dai petali viola nascosto tra le foglie fitte di uno scorcio di bosco. Di solito senti un nome e un’immagine ti si staglia all’improvviso nella mente. Con te è diverso. Il tuo nome sembra prendere per mano, per portarti in un luogo segreto promettendoti quello che adesso manca…». Lo pensai talmente intensamente che mi sembrò di averlo detto ad alta voce. Solo dopo mi accorsi che la voce era rimasta nella mia testa. Ripetei tra me e me quel nome che mi ricordava un fiore nascosto nel cuore più ombroso di una foresta dove la notte si annida misteriosa e la rugiada brilla di luce propria. Anche le due ali di corvo brillavano intensamente.
«Io non ho solo un nome, ho anche una storia».
«E allora raccontamela».
«Sì, ma solo domani notte, se vuoi, sempre qui».
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