I
Il crepuscolo della marchesa Sofia
Il mago
«Riccardo, mia nonna è morta.»
«Non è morta, è trapassata. Copri gli specchi e chiama un prete.»
«Ho perso mia nonna e tu mi chiedi di coprire gli specchi?»
«Sì, se non vuoi che afferri il tuo riflesso e lo porti con sé nell’aldilà.»
«Gli specchi adesso riflettono solo il mio dolore.»
«Non essere addolorata, Sofia.»
«Come potrei non esserlo?»
«Eppure tua nonna è lì, non la vedi?»
«Lì dove?»
«Osserva bene, è accanto a te.»
L’oscurità dischiude l’alba e i primi raggi di sole bagnano via Toledo, attraversando la coltre di umidità in questa notte d’aprile. Scorgo sempre qualcosa di nuovo in questo quadro, un dettaglio che non avevo colto, un disegno nascosto negli arabeschi di un palazzo, una lastra di piperno consunta dal tempo, un vaso di fiori su un balcone, una venatura in una colonna, un angolo che regala uno scorcio inconsueto della città, l’inaspettato che si manifesta nell’ordinario.
La magia non è un elemento soprannaturale nel creato, ma è nella perenne lotta fra luce e oscurità. Vi è qualcosa di arcano nella penombra che accompagna il buio quando sopravanza la luce o quando il chiarore è sopraffatto dalle tenebre.
Un mistero avvertito fin dalla notte dei tempi: la danza dello sciamano, la preghiera del sufi, il canto dei monaci accompagnano il travaglio, mentre la notte che sgrava il giorno con le sue gambe aperte dà origine al mondo. Caverna di mistero, Cibele che muta in Vergine.
Questa è la mia arte occulta per cui fui mago, come i magi che portarono i doni a Gesù, i quali furono anzitutto maghi perché nascosero nella mirra la pace e la comunità, nell’incenso la radice che collega l’occidente all’oriente e nell’oro l’immortalità che conduce magos, all’Uno. Al pari degli alchimisti, colgo l’azione catalitica dell’etere, sinolo tra lo zolfo e il mercurio, fra le proprietà lunari passive e quelle solari attive.
La chimica ci ha svelato un’altra realtà, ma il significato del dono non cambia: Gesù è uno, ma al tempo stesso è comunità, sintesi tra buio e luce. Questo il mio credo, questo il mio segno, il mio passaggio, perciò fui e sono magos, cardine della porta ianuaria che nelle mie terre fu delle ianare, tradotte erroneamente in streghe, ma che costituivano varchi tra i due mondi degli spiriti e dei corpi. Queste erano anche dianare, ovvero seguaci di Diana, alter ego di Cibele, nel cui nome praticavano le arti magiche in difesa degli oppressi.
Cammino verso casa. Non intendevo trascorrere la notte fuori, ma sono gli imprevisti del mestiere. Ieri, poco prima di cena, ho ricevuto una telefonata da un’amica che voleva farmi partecipare alla veglia funebre di sua nonna; ho cercato di spiegarle che in questi casi è preferibile avere un prete a fianco, un unto che somministri i sacramenti. Le ho consigliato di pregare tanto e di coprire tutti gli specchi di casa con lenzuola bianche, ma Sofia ha insistito perché io fossi presente. Si è appena separata dal marito e vive con sua madre e la nonna novantenne appena spirata.
Avevo chiesto ad Anna, la mia governante, di prepararmi qualcosa per la sera: l’arrosto con le patate era quasi pronto, ma quella telefonata ha rovinato tutto. Già mi prefiguravo una cena con lei accompagnata da un bicchiere di Aglianico del Taburno, dopo la quale avrei letto qualche pagina di Esoterismo e tradizione di René Guénon. Invece sono sceso di casa in fretta e furia, sperando in cuor mio di riuscire a tornare in tempo per la cena.
Anna, vedendomi uscire, mi ha guardato di traverso. Questa sera era più carina del solito, aveva i capelli raccolti a tuppo, sarebbe meglio dire a chignon, ma tuppo fa più sangue. E indossava un grembiule stretto sulla vita che le metteva in risalto i fianchi e il sedere.
Ma è troppo giovane per me, ha venticinque anni e io quasi cinquanta.
Sono uscito dal palazzo e ho preso la funicolare a Montesanto per il Vomero. Sofia abita a piazza Medaglie d’Oro: in venti minuti ero a casa sua. Il portiere mi ha fermato. Mi avrà visto trafelato e malvestito, con una polo macchiata che per la fretta non avevo cambiato, e si sarà allarmato.
«Sono atteso a casa Capecelatro» gli ho risposto, quindi il portiere ha avvertito la signora.
Servirebbe anche a me un guardiano così solerte. Dopo il lasciapassare, mentre salivo le scale ho avvertito una presenza alle mie spalle. Una vecchia signora vestita di nero, con un velo di merletti che le copriva il capo, mi è passata di fianco e mi ha superato come una folata di vento.
Nonostante l’andatura, il suo incedere era silenzioso. I suoi piedi fluttuavano sui gradini. Nel momento esatto in cui ho compreso che non era reale, si è voltata. Il suo sguardo freddo, capace di penetrare nell’anima, mi ha fatto rabbrividire e lei con un ghigno è sparita, come risucchiata da un vortice che risaliva dalle scale.
Sofia mi attendeva davanti alla porta: aveva gli occhi rossi per le lacrime, i capelli spettinati, lo sguardo assente.
All’ingresso, su un ripiano di legno, ho notato una foto della marchesa Sofia da giovane, abbracciata a una signora che corrispondeva alla figura incontrata sulle scale.
Sofia ha notato che mi ero soffermato a guardare la foto. «Hai visto quant’era bella mia nonna da ragazza?»
«Sì. Ma chi è quell’altra signora?»
«La mia bisnonna.»
A quel punto mi ha abbracciato con calore, io l’ho rassicurata: «Tua nonna è una signora molto anziana, ma l’anima è giovane e vuole correre. Non dobbiamo costringerla in questa dimensione».
Non è la prima volta che mi capita di vedere un trapassato, che per me non è un morto, bensì un’entità che abita nel nostro stesso universo in una dimensione sottile: io immagino l’universo come un wafer in cui ci sono più strati spaziotemporali, quello sovrastante non è percorribile prima del trapasso, ma quando questo avviene si apre sopra di noi un cunicolo dimensionale.
In soggiorno sedeva un giovane sacerdote, vestito in modo sportivo, riconoscibile però dal collarino, il quale mi ha squadrato da capo a piedi. Sofia me l’ha presentato come don Gerardo Vassallo. Mi sono chinato a baciargli la mano come mi hanno insegnato i miei maestri, poiché l’unto ha le mani sante che vanno onorate: lui, però, l’ha sottratta con fastidio.
Sofia, quindi, mi ha condotto dalla nonna. La vecchia signora, anche lei di nome Sofia, era adagiata sul letto. Pur nel suo pallore, ancora con gli occhi aperti e un mezzo sorriso sembrava canzonare la figlia Giulia che la teneva per mano con la testa china sul cuscino, quasi fosse ancora viva: i capelli delle due donne si confondevano.
Davanti a me la vita e la morte si prendevano per mano, l’una sembrava dire: “Resta qui, non lasciarmi”, l’altra sembrava rispondere: “Devo andare, ci rivedremo presto”; l’una era triste per la dipartita, l’altra sembrava irridere quella tristezza, liberata finalmente dagli affanni terreni. La nonna non mi sembrava aver sofferto nel trapasso; si era semplicemente spenta qui per riaccendersi da qualche altra parte.
Sofia entrava e usciva compulsivamente dalla camera. Don Gerardo sonnecchiava in soggiorno sul divano. Al suo fianco c’era un uomo sulla cinquantina, che si è presentato come Bruno l’avvocato. Perché questo figuro era lì? Sofia si era appena separata e non mi sembrava plausibile che in un paio di mesi avesse trovato un compagno o un amante. Inoltre l’avvocato portava la fede: l’avevo notato perché la ruotava nervosamente fra le dita. Forse era stato chiamato per questioni di eredità.
La sua presenza m’infastidiva. Avevo sempre pensato a Sofia come a ben più di un’amica, anche se per lei forse ero solo quello.
Ho partecipato alla veglia funebre fino alle tre del mattino: tutti eravamo lì a sostenere Sofia, io però fremevo, avrei voluto andarmene prima. Con il passare delle ore era divenuto sempre più evidente che l’avvocato non era lì solo per questioni legali: a un certo punto, Sofia aveva preso la mano di Bruno e l’aveva stretta forte fra le sue.
Poco dopo ho avuto la conferma ai miei sospetti quando, cercando Sofia per congedarmi, li ho colti abbracciati in cucina dove si erano appartati. Si sono subito staccati, in evidente imbarazzo.
Ero stanco e avevo voglia di tornare a casa, a quell’ora la funicolare era chiusa, perciò ho chiesto a Sofia di chiamarmi un taxi, ma lei ha insistito perché mi riaccompagnasse il portiere. Non ho capito i motivi di quest’offerta: perché scomodare una persona che non faceva parte della famiglia? Il portiere sembrava particolarmente scosso dalla morte della marchesa Sofia e ciò mi appariva strano. Ad ogni modo, dopo essermi congedato da Sofia e Giulia, ho atteso in strada l’arrivo del portiere che si è presentato con una Smart dopo un po’.
Erano già le quattro del mattino, ma nonostante la stanchezza volevo trattenermi per strada e attendere l’alba, perciò gli ho chiesto di lasciarmi all’inizio di via Toledo, non proprio sotto casa.
La possibile relazione di Sofia con l’avvocato ha risvegliato il mio desiderio per lei. Non capivo il motivo di quella telefonata e l’apparente richiesta d’aiuto mi aveva fatto sperare che qualcosa sarebbe potuto nascere tra noi due, entrambi liberi, io sempre, lei liberata, ma anche questa volta qualcosa non è andata per il verso giusto.
Avevo voglia di consultare le carte, ma così avrei violato il sacro principio: non posso divinare su me stesso senza che qualche forza mi chieda un conto da compensare, sconvolgendo il mio destino.
Meditavo queste cose seduto su una panchina davanti alla fermata della metro Toledo, attendendo l’alba. Alle sei e mezzo il ragazzo di un bar ha tirato su la saracinesca.
«Mi fai un caffè?»
«La macchina è fredda, sono arrivato adesso, abbia pazienza» mi ha risposto infastidito.
Ho dovuto attendere un’altra ora per assaporare il primo caffè e mentre lo sorseggiavo osservavo via Toledo. Quanto era cambiata: quando ero piccolo quella era una strada affollata di auto e autobus che avevano il capolinea davanti al Palazzo Reale, per la chiusura pedonale di piazza del Plebiscito, che i vecchi chiamavano ancora “Largo di Palazzo” in riferimento allo slargo originato dalla costruzione del Palazzo vicereale nel Cinquecento.
Alla fine degli anni Novanta, in occasione del G7, la riqualificazione urbanistica consentì a quell’area di riprendere fiato assaporando la brezza marina, per anni sopraffatta dagli scarichi dei motori, diventando un punto di riferimento per la vita notturna della città.
Intanto, il suono delle campane della chiesa di Santa Maria delle Grazie mi annuncia la prima messa delle otto.
L’avvocato
Fin da piccolo sono stato uno strenuo difensore della verità e della giustizia, poi crescendo ho compreso che ci sono fin troppe verità: quello che per uno è giustizia per l’altro è l’esatto contrario, senza contare che spesso giustizia e leggi non coincidono affatto e che alla massima giustizia può corrispondere la massima ingiustizia.
Questo non l’ho pensato certo io per primo, ma Cicerone nel I secolo avanti Cristo, quando spiegò che si commettono spesso ingiustizie anche per una certa tendenza al cavillo, ossia per una troppo sottile, in realtà maliziosa, interpretazione del diritto.
A questo riguardo, Cicerone narra di un cittadino inviato dal Senato ai Nolani e ai Napoletani, come arbitro per una questione di confini. Venuto egli sul luogo, parlò separatamente agli uni e agli altri, raccomandando che non trascendessero in atti di avidità e di prepotenza, anzi volessero piuttosto retrocedere che avanzare.
Così fecero gli uni e gli altri, e un bel tratto di terreno rimase libero nel mezzo. Allora egli fissò i confini dei due popoli come essi avevano detto; il terreno rimasto nel mezzo, l’assegnò al popolo romano. Questo, conclude Cicerone, si chiama inganno, non giustizia.
Se da ragazzo, dunque, credevo fortemente nella giustizia, oggi che ho i capelli bianchi mi rendo conto che abbiamo dimenticato quella che sempre Cicerone definiva la legge suprema, la salus populi, ossia il benessere del popolo. Le tante discriminazioni sociali, economiche, culturali che oggi più di ieri riscontriamo nella nostra società dovrebbero farci riflettere sul fatto che abbiamo trascurato, dimenticato, tradito persino quella che anche oggi dovrebbe essere considerata la legge più importante, ossia la tutela dei diritti civili, della sicurezza, del benessere, della prosperità, più in generale della vita dei cittadini.
Si potrebbe concludere, dunque, che io sia un paladino della giustizia. Nient’affatto. Appartengo alla categoria di quelli che predicano bene e razzolano male. Se, per esempio, devo fare una visita medica, chiedo a un amico primario e me ne frego se così facendo passo davanti a un poveretto che non conosce nessuno e magari ha più urgenza del sottoscritto. Ai semafori in cui tutti passano con il rosso, io mi baso sulla consuetudine e seguo l’esempio.
Quando un cliente si affida a me, lo porto in giudizio anche se non dovrei. Anche se l’esito è del tutto incerto, in fondo per me non esistono cause perse, perché comunque vada a finire il cliente mi deve sempre pagare. Con questo io non mi reputo cinico; forse è solo una mancanza di carattere e di consequenzialità fra i principi e la loro applicazione, un po’ come avviene per i concetti del diritto, della giustizia e dell’equità.
Queste riflessioni in piena notte forse dipendono dall’insonnia che da qualche tempo mi attanaglia, per via della gelosia che nutro verso mia moglie Giovanna. Stavo pensando a come soddisfare la richiesta della mia amica Sofia, che proprio ieri mi ha voluto al capezzale della nonna per chiedermi di aiutarla a escludere dall’asse ereditario un figlio che il nonno aveva avuto da una relazione extraconiugale. La ricerca del cavillo per attuare questa massima ingiustizia perseguendo la massima giustizia ha scatenato in me questo flusso di pensiero, che mi ha condotto indietro nel tempo fino a quel ragazzo che studiava legge per difendere i deboli e gli oppressi e ora profonde tutte le proprie energie per opprimerli in cambio di soldi, o per il puro piacere di aiutare un’amica così importante come Sofia.
Recentemente, mi ero confidato con lei circa i miei problemi coniugali. Dopo avermi ascoltato con attenzione, Sofia ha affermato di avere un’idea per risolverli.
«Ti sembrerà un’idea stravagante, ma vedrai che funzionerà, alla fine rimarrai stupito.»
Ieri sera mi ha chiamato nuovamente per dirmi che la nonna era morta; non ha fatto in tempo a concludere la frase che mi sono precipitato da lei. Una volta in casa, mi ha presentato gli ospiti. Che uno fosse un prete lo avrei capito da solo, ma quando mi ha indicato l’amico mago sono rimasto basito. Non mi ha fatto neanche una buona impressione: trasandato, una maglietta macchiata, frasi sconclusionate sulla differenza tra la morte e il trapasso. Beato lui che ha tempo per sofisticare!
Ebbene, una volta rientrato a casa, Sofia mi ha chiamato di nuovo: «Sai, Bruno, il tuo incontro con il mago non è stato casuale. Penso che lui possa trovare la soluzione ai tuoi problemi».
«Un mago per me?» Ho tenuto la lingua a freno per non mortificarla; in fondo aveva pensato a me in un momento così drammatico. La nostra amicizia era troppo intensa perché io potessi rifiutarmi.
«Ho motivo di credere che potrà esserti d’aiuto. Mi occupo io di fissarti un appuntamento. Tu però promettimi che ci andrai, almeno una volta. Poi deciderai se proseguire.»
«D’accordo, farò come suggerisci.»
Ora devo solo capire cosa inventarmi per non andare all’appuntamento. Con una nonna morta in casa, doveva per forza pensare a me e ai miei problemi con Giovanna, per di più mettendo di mezzo uno stregone?
[continua]