Due metri e venti per uno e ottanta

di

Mario Ragaglini


Mario Ragaglini - Due metri e venti per uno e ottanta
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa
14x20,5 - pp. 84 - Euro 13,00
ISBN 9791259513625

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In copertina: fotografia di Mario Ragaglini


Prefazione

Questo non è un racconto di redenzione né di eroi. Elvino è un uomo qualunque, un padre e un figlio, che un giorno si è trovato in una cella stretta e pesante, fatta di muri, colpa, memoria e silenzi che pesano più del ferro. La sua storia non parla solo di prigionia fisica, ma di un viaggio interiore, fatto di domande scomode, verità dolorose e piccole scoperte. Dentro quelle mura, ha imparato a guardarsi dentro, a riconoscere il dolore e a capire che le prigioni più dure sono quelle che portiamo dentro di noi. Il carcere diventa una metafora, uno specchio e una soglia, un luogo che ci costringe a riflettere su ciò che ci incatena fuori e dentro. Elvino esce con una consapevolezza autentica, non migliore o perfetta, ma più vera, più sincera. Decide di dedicare la sua vita ad ascoltare chi, come lui, ha perso le parole o si sente intrappolato. Leggere questa storia è un gesto di rispetto e un invito a fermarsi, ascoltare e capire che ogni crepa, se osservata con attenzione, può diventare un nuovo inizio. È un viaggio nella coscienza di un uomo segnato dal dolore, ma non spezzato, che ha scelto di ricostruirsi passo dopo passo, tra sguardi, domande e pensieri che scavano nel soffitto della sua cella e nel suo cuore.


Due metri e venti per uno e ottanta


All’Amico Elvino
e
Mamma Lilla


I

L’esperienza emotiva di chi varca per la prima volta i cancelli del carcere è una morte simbolica: muore l’identità che si conosceva, muore il tempo, muore lo spazio come lo si è sempre vissuto. Per Elvino, quel primo ingresso fu un terremoto interno, silenzioso e devastante; appena oltrepassato il portone principale, quel clangore di metallo chiuso alle sue spalle non gli parve solo un rumore: gli sembrò la perdita di ogni futuro. Quel colpo secco era la firma sul contratto della sua esclusione dal mondo. Gli tolsero i lacci delle scarpe, il cinturino dell’orologio, i bottoni metallici, ogni oggetto che parlava di “persona” veniva eliminato, non era più Elvino Vatteroni, studente, figlio, uomo, era il detenuto 52 braccio B. In quel momento, il tempo si frantumò: non più stagioni, non più sabati, non più appuntamenti. Solo il calendario arbitrario del carcere: sveglia, conta, mensa, ora d’aria, silenzio. La prima cosa che Elvino sentì non fu un suono, ma un vuoto, il primo impatto visivo e sonoro fu un trauma sensoriale.
Il corridoio che conduceva alla sezione sembrava scavato nella pietra, le pareti erano di un bianco sporco affumicato, le luci al neon intermittenti e l’odore di disinfettante mescolato a sudore umano. Ogni passo rimbombava come se stesse camminando dentro una cassa da morto vuota, le voci dei detenuti lo accolsero come un coro stridulo:
– Chi è il nuovo?
– Bella faccia da primo sangue…
– Occhio a non sorridere troppo, dottore.
Le prime parole ricevute non furono di legge, ma di minaccia velata.
Elvino imparò subito che nel carcere non si osservano le regole scritte, ma quelle non dette.
Quando entrò nella sua prima cella, fu come infilarsi in una scatola da scarpe senza fondo: due metri e venti per uno e ottanta: un letto, un gabinetto scoperto, un tavolino traballante, una finestra minuscola con grate doppie. Elvino si sedette sul materasso e si rese conto che il silenzio non esisteva: il ronzio del neon, i passi fuori dalla porta, le urla lontane di qualcuno in isolamento, il suono meccanico della serratura che si chiudeva, diventavano la colonna sonora della sua nuova realtà. Nei primi giorni non parlava quasi con nessuno, lo stomaco era stretto, il respiro corto, la notte il buio non c’era davvero, ma dentro di lui calava una nebbia pesante, fatta di paura e incredulità. Ogni volta che si svegliava si chiedeva se fosse un incubo, poi vedeva le sbarre, sentiva le urla e capiva che era vero.
In uno spazio di due metri e venti per uno e ottanta il tempo si contrae, le pareti non sono solo confini fisici: diventano specchi deformanti dell’anima, che rimandano indietro i pensieri più cupi, i rimorsi, i ricordi. A trent’anni, quando fuori la vita dovrebbe ancora spalancare porte, dentro una cella così stretta, ogni apertura sembra chiusa per sempre.
Mi svegliavo ogni giorno con la stessa luce pallida, lo stesso odore stantio di umidità e disinfettante. Il corpo si abitua alla routine, la mente no, l’ansia mi svegliava prima dell’alba, come se qualcosa dentro di me cercasse ancora di fuggire. Mi aggrappavo a piccoli gesti, un libro, qualche parola con un secondino meno ostile, il rumore lontano dei passi nel corridoio, per non sprofondare. Ma la speranza è fragile, sottile come un filo che rischia di spezzarsi ad ogni ora. A tratti, la disperazione si faceva fisica: era un nodo alla gola, un pugno nello stomaco, un tremore che saliva dal petto. Non era solo la solitudine: era la consapevolezza che la propria esistenza era stata messa tra parentesi, sospesa in un tempo immobile.

Pensavo alla madre, agli amici che forse non mi aspettavano più, a ciò che avrebbe potuto essere. Eppure, dentro quel dolore, a volte nasce una rabbia silenziosa, non urlata, non esplosiva, ma cupa, che rode dall’interno. La rabbia per gli errori commessi, per l’ingiustizia, per un sistema che spesso rinchiude più che riabilita.
Ogni sera, nel buio della cella, il silenzio era assordante, e mi ritrovavo lì, solo con me stesso, a chiedermi se sarei riuscito mai a rivedere il cielo senza sbarre, a ritrovare un senso, a ricominciare, e guardando le pareti mi dicevo: “Perché sei ancora qui? Quante volte ti sei promesso che sarebbe cambiato tutto? Lo so, ogni volta che chiudo gli occhi cerco un’uscita, anche se so che non c’è, c’è solo questo spazio, queste pareti, e me stesso. Ti stai abituando, stai imparando a sopravvivere, non a vivere, è diverso. È l’unica cosa che so fare, ormai, contare i respiri, ascoltare i rumori, immaginare il tempo che passa là fuori. Hai paura che, se tutto finisse domani, non sapresti più chi sei, vero? Sì, perché questo silenzio, questo vuoto, alla fine mi ha scolpito, mi ha fatto e disfatto. Non so chi ero prima, non so se c’è un dopo. Ma sei ancora qui, parli con te stesso e questo, forse, è un inizio. O forse è solo un modo per non impazzire del tutto, ma va bene così. Oggi, almeno respiro ancora, ma il domani da lì dentro è solo una parola.”
Nell’ora d’aria camminavo a piccoli passi nel cortile spoglio, una piccola area di pochi metri, con il cielo grigio che pesava come un coperchio sopra la mia testa. Ogni movimento era lento, stanco, come se l’aria stessa mi opponesse resistenza. La solitudine mi mordeva dentro, non come assenza di compagnia, ma come assenza di significato. Sopra di me la presenza silenziosa e opprimente della guardia: due occhi che osservavano, giudicavano, senza mai concedere tregua.

Il recluso non si sente uomo, ma cosa, numero, errore. Prova una tristezza densa, quasi solida, mescolata a un senso di ingiustizia muta, e alla rabbia fioca di chi ha dimenticato come si grida. Nell’ora d’aria la libertà si mostrava nella sua forma più crudele: visibile ma irraggiungibile. Poi arrivava l’ora del pasto principale come un’abitudine meccanica, non come un piacere. Il rumore dei passi, dei piatti metallici che stridono sui tavoli, e delle voci basse o taglienti riempiva l’aria pesante. I detenuti si muovevano con attenzione ciascuno consapevole della fragile tregua che regnava tra le pareti della mensa. Gli sguardi si incrociavano furtivi, a volte pieni di sfida, altre volte svuotati da ogni emozione. Il cibo veniva distribuito in porzioni impersonali, senza gusto né cura, eppure era atteso con una fame che va oltre lo stomaco: fame di distrazione, di routine, di qualcosa che spezzi l’infinito ripetersi delle ore. Alcuni mangiavano in silenzio, occhi bassi; altri chiacchieravano piano, tra frasi spezzate e battute amare. Ogni gesto aveva il peso della sorveglianza e del bisogno di non mostrarsi deboli. Era un momento in cui il corpo veniva nutrito ma l’anima restava digiuna. Tra i detenuti non era insolito che scoppiasse la lotta, come una tempesta improvvisa in un clima già carico di tensione. Un gesto, una parola di troppo, uno sguardo mal interpretato: bastavano pochi secondi, il tempo si contraeva, e il silenzio pesante della routine esplodeva in un fragore caotico: sedie rovesciate, vassoi che cadevano, urla secche e pugni che colpivano con rabbia accumulata giorno dopo giorno. I corpi si muovevano con furia cieca, spinti più dalla disperazione che dalla forza, era una violenza cruda, viscerale, che non cercava vincitori, ma solo uno sfogo. Alcuni detenuti si allontanavano in fretta, occhi bassi per non essere coinvolti, altri osservavano impassibili, abituati ormai a quel rituale feroce. Elvino mangiava in silenzio, due tavoli dopo gli ergastolani, ogni tanto alzava lo sguardo, come chi cammina in mezzo al fuoco cercando di non scottarsi, immobile, come paralizzato da una corda invisibile.
Poi il rumore delle scarpe delle guardie arrivava come una sirena sommersa: TUMTUM – TUM; il suono secco dei manganelli e in meno di trenta secondi la violenza si capovolgeva, i corpi si rannicchiavano le urla diventavano colpi sordi, mentre il sangue cominciava a colare sotto il tavolo come un brodo rosso. Una guardia gridava:
– Fermi! Giù la testa! Nessuno si muova!
Un’altra passava vicino a Elvino, manganello in pugno, il volto livido, gli occhi che cercavano qualcosa da punire.
Quando tutto finiva, rimanevano i resti: piatti rotti, una scarpa persa, un cucchiaio piegato. Elvino smetteva di mangiare, si alzava lasciava il vassoio intatto e usciva senza dire una parola, non per paura, ma perché aveva visto una verità cruda.

[continua]


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