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In copertina: «La luna e il satellite» scultura di Armando Cheri. Idea grafica Brainstorm – www.brainstormsol.com
Prefazione
Al romanzo contemporaneo – si dice – giovano il viaggio, la pluralità, i confronti. Gioverebbe anche, se il pubblico dei festival e degli incontri letterari se ne accorgesse più di frequente, lo scrivere con gusto e proprietà (dote rara, diffusa a macchia di leopardo, talvolta ambigua per il variare del gusto e delle mode). Del resto, ci sono stati tempi ben più duri per il romanzo d’autore nel nostro Paese, dal secondo Dopoguerra in poi. Tempi in cui gli squilibri dello sviluppo economico, e tensioni politico-sociali hanno favorito da un lato l’affermarsi di tendenze realistiche, dall’altro la pulsione di un’avanguardia molto particolare. Il Neorealismo, in fondo, nasce da qui. La polemica che ha animato i decenni successivi verte casomai – più che sulla forza del rappresentato – sui limiti e sulla portata dell’impegno dell’autore, assumendo un carattere soprattutto etico, piuttosto che propriamente letterario. Tuttavia, credo che Maria Luisa Ciocci – se si fosse decisa a pubblicare le sue opere un po’ di tempo fa – l’avrebbe fatto con la stessa immediatezza colta, fintamente svagata di queste pagine, e senza prestare troppo ascolto alle sirene di una qualunque estetica di massa, ai condizionamenti della cosiddetta “industria culturale”.
Forse Luisa avrebbe faticato un poco, perché i suoi personaggi (umanissimi, contemporanei, alienati) sono presentati con garbo e non catapultati sulle assi di un palcoscenico di avanguardia. A ben pensare, proprio alla luce di queste riflessioni, è meglio proporre oggi queste carte. Oggi, che si rivaluta la diversità, sia pur per fini non sempre nobili. Qualche distinguo, tuttavia, proprio in nome di quella stessa diversità, bisogna operarlo (più che mai in un contemporaneo in cui troppi si definiscono scrittori).
Ben vengano, dunque, le opere come Un domani di vento che non prendono tanto le mosse dalla mobilità dell’esperimento, né dall’alienazione in quanto tale; quelle che partono sì dalla forma, ma non perché questa sia espressione individuale suscettibile di ogni più arbitrario sperimentalismo. Una forma-struttura, la potrei definire, che deriva il proprio rigore dall’essere enunciazione di un modo preciso, di una consistenza. Esiste, perciò, nel romanzo di Maria Luisa Ciocci (ed altrettanto avviene nella raccolta di racconti I segnali del cielo) una gabbia importante per la narrazione, un supporto fondamentale; ad essere puntuali, per la storia di Silvana – la protagonista giunta al Nordest dalla Sardegna e destinata ad affrontare (lei, borghese colta ed ingenua) i fasti ed i nefasti del Sessantotto – si dovrebbe addirittura citare un termine un po’ in disuso ai giorni nostri, forse per via dell’ascendenza crociana: il genere letterario. È importante porre questa premessa, perché sarà utile in seguito.
Il ragionamento su questo romanzo ben impostato, tuttavia, deve necessariamente procedere anche su altri binari, perché la trama ed i temi trattati dall’autrice, di generi letterari ne codificherebbero più d’uno. Ma non solo: ci sono alcune particolarità, alcuni anacronismi che rendono l’opera bizzarra e feconda, posta nel solco di una solida capacità narrativa, ma eccentrica rispetto alle cesure, alle reazioni dei personaggi. Difficile, del resto, riproporre una scrittura alla Zola, tutta in superficie; Luisa sta, piuttosto, a metà tra Dickens e Hardy. Il primo per la totale imprevedibilità degli eventi, per quella vena folle (e tanto più folle, in quanto apparentemente razionale); il secondo, per il senso del tragico. E Maria Luisa Ciocci, a conoscerla, ha una natura passionale. Per di più, scrive come parla, senza atteggiamenti di distacco. Va subito al nocciolo, al cuore degli uomini e dei problemi. Allora, anche se sfiora la realtà con rapidi tocchi – appena sbozzati l’immobilismo dell’isola natìa e la soffocante Bassa veneta, con il suo corredo di opportunismi e di abitudini – dal suo romanzo finisce per uscire tutto intero un mondo di provincia assieme statico ed agitato: un proletariato non conscio, ma incline alla rivolta, una piccola borghesia percorsa da pericolose inquietudini. Il vecchio ed il nuovo che si mescolano, con effetti deflagranti sulle vicende della protagonista. Silvana non sta al passo, recalcitra; non vuole rinunciare a ciò che di buono ha imparato, per assumere panni che non le si addicono. Combatte contro un mondo che le sta crollando addosso e, a suo modo, riesce a vedere uno spiraglio di luce solo nel narrarsi (che è poi un transfert validissimo, mimesi della pratica analitica).
Ciò che ne emerge, a livello ideale e narrativo, è innanzitutto la considerazione particolare che l’autrice ha della vita, quel suo coglierne l’inesplicabilità fin da subito. E i perché di Silvana, dall’andamento circolare, con poche risposte e molta angoscia, riescono a muovere la trama in modo altrettanto inesplicabile. Merito dell’autrice, che è ricca d’immaginazione ed ha l’occhio lungo, sospettoso. Per questo il suo narrare, anche stilisticamente, è molto denso. Anzi, a volte Maria Luisa Ciocci lo infittisce di particolari, iperboli, circonvoluzioni e – così facendo – lo intorbida un poco, come quando si racconta a ruota libera. In altre parole, la mancanza di distacco, la vicinanza emotiva fanno, talora, il passo diverso, più corto e rapido. Ne vale la pena, perché è come trovare un frutto particolarmente sugoso sulla tavola, la scia argentata nell’osso del fuoco d’artificio.
Maria Luisa scrive costantemente in uno stato di tensione di fronte all’oggetto del proprio narrare, ci vive dentro. Così l’opera si allarga a macchia d’olio, anziché procedere lineare (del resto, quella del romanzo senza sbavature, freddo freddo, è solo un’illusione retorica…). Per ritornare alla letteratura di genere, è vero che a raccontare superficialmente Un domani di vento si corre il rischio di farlo passare per un prodotto attardato della grande tradizione naturalista. Tuttavia, se da principio si è utilizzata la figura della cosiddetta forma-struttura, è anche vero che le modalità di utilizzo in questa narrazione sono del tutto diverse. Ci viene in soccorso (e mai prossimità al Dickens del Circolo Pickwick mi è sembrata più stringente) una delle armi vincenti di questa narrazione: l’ironia (e l’autoironia) feroci che la scrittrice esercita in modo magistrale, calibrando le dosi sul filo sottile della storia. Così, il guscio può avere qualche assonanza con la tradizione naturalista, ma il midollo è altra cosa.
Qui avviene il colpo di scena: l’autrice pone in atto artifici narrativi propri della cultura novecentesca, passando da una prospettiva all’altra con cesure di tipo cinematografico, flashback, flussi di coscienza, alternanza di discorso diretto ed intimo ragionare. Torna alla memoria, ad avvalorare la potenza di questo stile, un passo del grande Giacomo Debenedetti, laddove il critico sostiene che l’impersonalità era il canone per eccellenza della narrativa naturalista. Luisa, sotto una traccia apparentemente consueta, anche se multidirezionale (romanzo di educazione? Intreccio amoroso, trama storica?), rovescia invece motivazioni e dispositivi, per indagare altrove. Non si tratta più di una narrazione puramente di causa ed effetto, ma di comportamenti, di modi insindacabili di apparire e di esistere. Il rovello di Silvana sulle avventure segrete del marito, il suo stare male al mondo si traducono allora in una sorta di agitazione psicomotoria, una condizione ossessiva che si fa ritorno non innocuo, valore concreto, rivalutazione del reale (più che mai nella concezione della parola). La sostanza narrativa si aggrega, per condensazione e per deposito, attraverso un filtro stilistico che appare rapido nel tempo sintattico ed è, al contrario, lentissimo nel suo spazio proprio.
Qualcosa di minerale, uno zoccolo duro e lucente, brilla nel narrare di Luisa Ciocci, nel suo periodare sinusoide. Qualcosa che resta, quasi secondo l’angolo d’incidenza della luce, come se si potessero ricondurre le vicende degli uomini ad un’unica modalità naturale. L’anima vi si scopre per rifrazione. Anche le storie minute, gli accidenti post-sessantottini della protagonista, sopraffatta dall’essere ex – ex-bibliotecaria, ex-moglie, ex-antiquaria – appartengono, in ultima analisi, ad una serie esterna: sono il mezzo, la mediazione rispetto a quel cuore minerale.
Rimane un senso, dopo la lettura di quest’opera, ed è un senso forte, che spaventa: la potrei definire la crisi di un reale, quella che la scrittrice racconta. È lì che si passa da una storia naturalizzata, in cui i personaggi si muovono come figurine, ad una natura storicizzata, come quella che tentiamo di mettere in atto ogni giorno, con tutte le implicazioni ed i condizionamenti socioculturali che ne derivano. Dal canto suo, il personaggio di Silvana gode – un intervento che l’autrice compie non si sa con quanta consapevolezza – di una proprietà transeunte. Quasi fosse sempre vicinissima alla rivelazione, senza giungervi mai. In virtù degli eventi esterni, la protagonista attraversa il tempo per una specie di giustapposizione fisica, un po’ a scatti, attrice di un’infinita pantomima. Come lo Zeno di Svevo, elabora – in fondo – elementi ritmici nella durata. Luisa, di suo, vi aggiunge un’arietta secca ed elegante, un’oncia di disilluso umorismo tenuto a briglie corte. Impietoso e catartico, come una risata.
Magia della letteratura (quando è libera) l’alleviarci un poco, spostando dalla nostra fronte il peso della responsabilità, dal bacìno l’imperio della danza e, ciò che più conta, dal ventre la costruzione della Storia.
Francesca Ruth Brandes
Un domani di vento
a Francesca Ruth Brandes
PROLOGO
In medio stat virtus. Bella massima… diciamo carina, ma non può dirsi esaltante nel senso che non ti fa scoppiare dentro la gioia di vivere.
In una virtus siffatta c’è senza dubbio una sapiente cautela, una misura che ti adagia come cosa fragile in un esistere senza sussulti. Ma quel “medio” incolore, privandoti di gesti esaltanti, (di eroismi neanche a parlarne), ti appiattisce entro l’informe del banale; così fra tonalità sfocate, ti esclude dal grande affresco policromo fatto dei contrasti della vita.
In compenso potresti vivere più a lungo. Sembra. E se misurassimo con metro adeguato la forza sgretolante del ripetitivo? Della goccia che scava la pietra? Ecco che la forza persuasiva dell’inesorabile “uguale” ti fiacca come un malanno pesante.
Viene in mente una storia affatto intrigante, affatto esplosiva o emozionante, una storia così, come tante altre, eppure pregna del suo invisibile e sottile potenziale di erosione. All’inizio non sai come raccontarla perché non puoi raccontare il trascorrere lento del tempo se non con una lagna stiracchiata di suoni e parole.
Si può cominciare col dire che in una cittadina del Nordest Italia vive una donna di mezza età, di media cultura, di buoni propositi come la virtus del ceto medio.
E dopo? C’è il paese in cui abita. Forse è bello, ma non ispira granché: un pugno di case, cubetti pallidi, seminati nel verde mite dei giardini e degli orti che affondano in trasparenze di nebbia. Tutto minuscolo, ordinato, accondiscendente, come in raccoglimento ai piedi del vecchio campanile che la fa da padrone (da sempre voce di richiamo, sottesa e presente nella religione di un quieto vivere, rassegnato e passivo, ossequioso di ogni regola accolta senza scelta); un vivere dunque dai ritmi misurati sul rintocco delle campane e sul grande orologio che segna le ore, del mattino, del mezzodì e del vespro, e delle altre ore più solenni e grevi: l’ora della nascita e l’ora della morte.
Sorvolando la pianura, dall’alto si distinguono appena, sbiancati dalla foschia, i giardini con le piante dal verde impallidito e poi i sassolini candidi, come lavati e magari contati: tutti in pari numero nelle aiole dalle simmetrie perfette. Un grande grafico ingrandito potrebbe dirsi, “uscito” magari dalla testa quadrata di un computer che tiranneggia ormai tutti, costringendo anche i “fantasiosi” ad entrare in un ordine geometrico che ormai ipnotizza…quando lo dice lui…quando lo dice lui… È la tecnologia che spadroneggia. Ed entri nella sua manìa.
Gli inventori di versi e parole, con le loro idealità senza confini né contorni definiti, dovrebbero comprimersi entro l’ordine prestabilito di un puzzle, entro la confezione dado ristretto del parlare a “mozziconi”, dell’essenziale della logica binaria; e se “scappa” una parola di conio nuovo, la sicumera del genio-computer vi piazza uno striscione rosso, il colore dell’errore o del divieto. Insomma, cantori e poeti, creativi, ricercatori ed inventori, trovatori e signori della lingua: ecco i nuovi analfabeti.
In questo deserto della fantasia, niente pensiero in divenire, si sillaba solo l’essenziale. In compenso nasce la cittadina ordinata e comoda. La possiamo riprodurre con pigro pensare senza troppi sforzi dell’immaginario. Ogni linea, ogni segno, servono per assestare le cose in bell’ordine non proprio per ricercare soluzioni estetiche. Qua e là, qualche debole tentativo di uscire dall’allineamento con ingenui ritocchi in qualche modo elaborati: il cubo di una casa si scompone in due per cui una parte cresce in altezza; e così i due tetti sfalsati, ad azzardare la sezione del cubo, rappresentano il massimo dell’estro creativo. Per via dello scompiglio di linee assolutamente inutili, verrebbe da assestare un secco colpetto sul cappellino più alto e riportare tutto all’origine. Nulla sarebbe fuori posto e lo spirito stagnerebbe disteso nella soporosa linea orizzontale.
E i luoghi comuni? Non ne manca uno, e perciò anche qui non ci sono più stagioni. Lo dicono tutti, corrucciati, tacendo il fatto che la natura si è ribellata agli uomini che non meritano granché.
La primavera poi avrebbe ragione da vendere perché il rigoglio di fiori e fronde deve fare i conti con le cesoie in vena di bizzarrie geometriche. Non bastano le siepi ed altro verde, squadrati come muretti, anche divisori, prime trincee per la guerra contro il vicino. Rigogli compressi nella miseria dei contrasti umani, imbrigliati entro figure innaturali come solidi a forma di cono, di piramidi, di cubi, di corni doppi e tripli, i cilindroni e cerchioni tondi come ruote di automobili. Il raduno di tutto quello che è orgogliosamente nostro. Modernume a tutti i costi: foglie, lamiere, gomma, corna e tubi in uno stesso incanto d’effetto progressista. Per non parlare delle forme ovoidali, rettangolari e compatte come le teste dei geniali inventori. Insomma la natura, che vorrebbe e potrebbe fare meglio per questo bel pianeta, non trova i suoi spazi perché la vanità dell’uomo la vorrebbe sempre più a sé somigliante.
Neanche il vento, che sembrerebbe immune da certi artificiosi interventi umani, può sibilare e sviolinare, come è suo costume, fra le frasche, ormai ridotte senza più fessure per via del taglio a testa d’uovo che ne compatta le cime. Che nostalgia dei versi e come il vento odo stormir fra queste fronde… C’è da chiedersi in quale mare sarebbe naufragata l’estasiata contemplazione leopardiana, se le cesoie fossero giunte alla divina siepe.
Lo scempio è scontato: niente sinfonia di vento, niente poesia, niente infinito.
Dunque nel nostro paesaggio gli spazi sono angusti per la fantasia e si sogna poco. Qui l’inesorabile energia del funzionale e dell’essenziale, sopraggiunta da ogni dove, travalicando ogni confine, questa magia globalizzante del “tutto comodo”, si assesta con la sua forza di sopraffazione e vince ogni cosa.
A due passi, il paradiso perduto delle nobili campagne veneziane che si allunga a lambire il retroterra col suo prezioso tessuto d’arte e di storia: parchi e ville avite, custodi silenziose di una sacralità quasi pagana, presenze aliene, estranee e superbe in un circondario ove avanza inesorabile il tutto nuovo.
Si insinua lo chic opulento: gli abitanti gonfi di salute, per dire ben nutriti, riversano sui bambini, come abbondanza di amore, cibo e cibo, tutto visibile sulle gote tonde e morbide come palloncini di burro.
Si respira solerzia ed operosità e se anche manca l’ispirazione per poetare, ci restano come note pregevoli, solenni inni al lavoro: le bande cittadine dei cortei dei lavoratori, delle commemorazioni, delle sagre ove circola pur sempre moneta, fumo e arrosti, frittelle e ciambelle in omaggio all’opulenza
Ma dopo le meritate laudi sulla poesia del lavoro, permane, inesorabilmente, una fissità d’assetto, come se tutto quel che si vede sia stato prodotto lì dall’evento del prefabbricato: le case spuntate fra l’erba per una artificiosa fioritura… le piante, la gente collocata lì da mano invisibile come per comporre un presepe. Nei giardinetti delle piccole ville, i nanetti di gesso di Biancaneve, assortiti con gli abitanti, completano l’arredo. Una cittadina fatta con i pezzi di un mosaico, tutto nuovo, con tanti giardini e tanti fiori.
I fiori dei giardini e dei parchi hanno colori tenui, viola-lilla, ed ogni donna, a buon diritto, dovrebbe chiamarsi Malvina.
Per la verità, di Malvine da queste parti ce ne sono tante, coltivate nel culto delle consuetudini, venerate ed intoccabili come parte del paesaggio ove è rigorosamente vietato calpestare queste preziose fioriture.
Una che ti aprisse la porta alle primissime ore del mattino, avrebbe i capelli in bell’ordine, rigidi di lacca. Questa statuina bisquit, magari maritata, si supporrebbe uscire (vista l’ora) dalla stanza da letto, e ti verrebbe da pensare che a quel bell’ordine abbia ceduto tutto, persino i diritti d’alcova… insomma un enigma.
La stessa acconciatura sembra averla patita la casa all’interno: in cucina, lo zucchero usato impropriamente come amido, spiana centrini ovunque, persino sui coperchi dei fornelli, e ti sottrae tutto, ma proprio tutto, anche il conforto di uno sbadiglio e persino il “casual” riposante che ti può elargire magari una caffettiera, zuccheriera e tazzina allegata. Niente. Già tutto a posto, conservato e magari contato, obbediente ad una razionale economia che preserva il benessere.
Ma tant’è. I paesi del nord-est si allineano su tracciati sicuri e sono l’invidia di altri meno fortunati e meno disposti a fare pace con i vantaggi dell’operosità. E così la tazzulilla di caffè mediterranea finisce col soffocare la sua allegria nel precario dell’inventiva e del carpe diem… impossibile spiegare a tutti che di sogni non si vive.
Dunque ogni Malvina del nord, superfresca fin dalle prime ore del mattino, si muove lesta ed instancabile per le faccende di casa, i mestieri come giustamente azzecca il termine per definire i lavori della casalinga, mestieri come arti, che non si esauriscono mai perché sono essi stessi la religione dell’operosa fatica: lustrare… lustrare… Molte ore consumate a logorare i panni per la polvere, ripassati ove già tutto brilla, in omaggio ad una gestualità per cui le cose devono essere toccate ed accarezzate quasi a “marcare” ogni volta lo spazio, il territorio di riservato dominio. Per il pensiero e la meditazione non c’è tempo, le energie sono ancora lì, a riappropriarsi quanto già si possiede, con un rituale ripetitivo eppure denso di significati: la casa, gli arredi, gli oggetti tutto quel che si tocca, si controlla e si conta, sono il frutto di sacrifici e di anni di lavoro, perché – da vecchi – si deve approdare in una casa di proprietà, costi quel che costi.
La ricchezza di questo angolo di mondo è fatta anche del lavoro duro e costante di chi non ha mai “mollato” e non “molla” ed ancor ora, sino alla fine, per una sorta di inerzia, si muove entro il perimetro di un’idea fissa per il tetto, il riparo sicuro, la casa, che sono le coppe vincenti, i trofei ben meritati, da accarezzare con le mani e col cuore, dopo la gara, faticosa e lunga come la vita.
In questi luoghi sembra non possa mai scaturire alcuna storia importante: quel che accade appare scontato, e fra le Malvine operose, non sai quale designare per dare colori definiti a tanti impalpabili lillà.
La protagonista della storia potrebbe essere dunque una di queste Malvine.
Ma in questo caso anche Silvana, che ispira altro…qualcosa di più ampio, di più complesso per densità di aromi e di chiaroscuri. Come in una foresta dove le piante buone e cattive, fragili e robuste si intrecciano, e… chi vive vive.
Capitolo I
Silvana. Una creatura cresciuta forte col vento di bora estroso e sfilacciato della Padania del nord, ed il sole tondo, fisso ed inesorabile delle terre del sud: una commistura impetuosa e quieta, in parte domata, poco rassegnata a giacere in distensione fra le tenui verdure di una pianura ubertosa, distesa come un’umida coltre su un vivere che, a lei forestiera, è sempre apparso un “tutto uguale”.
Era approdata qui seguendo gli itinerari dei sogni dopo il ripudio del suo mondo, per lei chiuso come uno scrigno, divenuto troppo piccolo per contenere esagerate attese. Né il contorno di mare intorno alla sua isola, una recinzione di prigione, poteva arrestare quel suo patire urgente dell’andare oltre… ché davvero incontenibili sono le pulsioni verso le aperture del “nuovo” che sgomenta ed affascina.
L’irrequietezza dei suoi venti anni Silvana l’aveva esibita quando con un colpo d’ala aveva lasciato la sua Itaca. Itaca come la Sardegna, pietrosa e sola, piccola come un puntino in mezzo al mare, da cui fuggire come da tutte le isole del mondo o dell’anima.
Fortunatamente non aveva l’ardimento di alcun Ulisse e perciò le suggestioni del suo percorso non erano devastanti. Non si era cacciata in alcun intrigo fra maghi e sirene che, nel mondo d’oggi, non avrebbero prodotto epiche e mitiche leggende. Semmai qualche scivolone sulla dura roccia dell’esistenza.
I confini delle sue esplorazioni Silvana li aveva raggiunti subito arrivando in un piccolo centro, nel retroterra di Venezia, ove la Serenissima sembrava aver ridisegnato “in scala” il suo sistema di civilissimi equilibri. Ogni centro abitato o periferia sembrava riprodurre quel sistema, come in un atomo: la Chiesa, il Municipio, la Farmacia, l’Ospedale, le Scuole, i Carabinieri, gli Enti Inutili, le aule deserte degli Enti Inutili, le botteghe e i marciapiedi, (larghi possibilmente), dove le ciacole delle comari inventavano la cronaca locale. Qui come in tanti altri angoli della Penisola, ove l’invisibile ragnatela del sussurrare radunava la comunità, ed era più tenace e duratura della carta scritta, destinata invece a sparire nel macero. La carta, non le notizie speciali diramate a voce: vera ed autentica memoria storica.
C’erano, è vero, anche i monumenti, le erme in piazza con tanto di scritte, grandi, incise sul marmo che però nessuno si sognava di leggere.
Infine il Cimitero, con la Cappella, grazie al Cielo, ove lavare la vergogna delle imprecazioni, prima della grande risalita fra i ta’ morti, per dire i morti di tutti; restituirli alla sacralità dei Cieli, perché con loro prima o poi si dovrà sostare in santa pace, e riverirli tutti insieme, i tuoi o i miei, indifferentemente.
Silvana era arrivata qui, nel mondo nuovo, attraversando la penisola per mare e per terra. Salpando da Olbia, alle sue spalle il trionfo di luce della Costa Smeralda, e di fronte Civitavecchia, grigia ed avvizzita, da far piangere per lo svantaggio del cambio.
…E ancora avanti, tante ore di viaggio verso nord, su un treno infinito, bagagli appresso, due sole valigie con poche cose, chiuse senza corde o nodi (ma era come se ci fossero): quattro cerniere lucide per il decoro di chi non viaggia per l’avventura; e comunque cerniere che erano pur sempre gli stessi nodi, stretti per contenere i tanti idoli del cuore di ogni viandante.
Non mancava niente. Nel bagaglio di Silvana c’erano tante foto e lì tutto il suo mondo: tanti volti e tanta gente, ed anche la sua città con le case disseminate sulla collina, fra gli alberi di ulivo, campi gialli di fieno, e più in là le torri, i nuraghi, ed altro di antico, sopito, opaco e silente.
Più nitide le foto del tempo presente: piazze e strade del centro città, il Duomo, le Chiese di tante Madonne, invocate da tutti, sempre, nel dolore e nelle imprecazioni dissacranti, ma mai negate come presenze nel cuore della città e degli uomini.
Di color giallo ocra, le cartoline della Chiesa della Madonna del Rosario, della Madonna del Carmine, e infine della Madonna dei Sette Dolori, la più amata e meno invocata, perché il dolore nessuno vorrebbe chiamarlo —che è meglio lasciarlo dov’è_. Un peso grande lasciato tutto a Maria Santissima, poverina! che usciva una volta all’anno in processione con sette spade conficcate nel cuore a ricordare i peccati che, a voler essere onesti, erano più di sette; l’esame di coscienza, però, molti se lo facevano solo quando vedevano quelle trafitture.
Numerose le cartoline degli edifici scolastici, degli Istituti Universitari, monumentali come le ambizioni degli immeritevoli. Tante Facoltà, troppe per un pugno di abitanti, i “tutti Dottori” dell’avvenire, i “tutti lavoratori” mancati all’industria che non c’era, i “tutti braccianti” sottratti alla terra che c’era, ma relegata coi pochi “fedelissimi” a patire l’immobilità del tempo, in simbiosi con una natura, sopita, assorta fra miti e leggende, una natura noncurante che ora respingeva l’homo sapiens ad affrontare i travagli frettolosi del divenire, condannandolo a faticose salite.
E si saliva in alto! Alle vette dell’Università che poi avrebbe disseminato più d’un arrampicatore fra le prime rampe delle infinite scalinate. Ma questa ecatombe nelle cartoline non era visibile. C’erano tanti giovani radunati, contenti, ignari e buffi sotto i cappelli da matricola.
***
C’era tutto in quelle immagini celebrative riunite insieme, come la realtà di un tempo remoto che si accostava al presente, sorvolando secoli di storia.
Le più care e ben custodite nel cuore di Silvana, le foto della sua casa, semplice e severa. Nello sfondo nuvole rosse, in primo piano il giardino con le piante di limone e di mirto, profumi ed immagini che sembravano uscire dal riquadro, come richiamate da una ostinata memoria e trainate anch’esse in qualsiasi altro angolo del mondo dovesse condurre la sorte.
La casa nella mente di Silvana era un pensiero ricorrente che scompariva e riappariva con le sue finestre scure sulla facciata bianca, il lungo terrazzo, il grande portone coi battenti in ottone. La finestra di zia Serafina era quella con le ante sempre accostate.
Zia Serafina. Forse con la complicità della penombra voleva regalare, chissà, sacralità al suo pianoforte e fervore alle sue sonatine.
La foto la ritraeva assorta come per seguire le dita che si muovevano rapide sulla tastiera insistendo sempre sul pezzo d’esercizio per Elisa, che lei eseguiva ormai evitando le pause, in volata, sicché il pezzo era… un’altra cosa. E quando Serafina si ispirava, ripetendo le volate, le pareti della casa e l’esasperazione di tutti, raggiungevano indicibili vibrazioni.
Sullo spiazzo del giardino il cane infastidito guaiva più forte delle note in corsa, come un cantore che si fosse aggiunto al singolare concerto.
La tenda del salotto buono serviva a ben poco dato che non riusciva ad assorbire i rumori, né a contenerli all’interno. I drappeggi assestati ad arte potevano semmai accogliere le arrampicate languide di una fatalona anni ruggenti. Ma certi accostamenti, per Serafina veri insulti da querela, cadevano nel non luogo a procedere, dato che lei viveva la sua solitudine di donna nubile col vanto orgoglioso di una prescelta del Cielo cui era toccata la purezza degli angeli.
I suoi divini concerti erano patiti da tutti con bonaria sopportazione come i suoni nasali di un prete stonato alla Messa cantata.
Altrettanto greve e solenne risaliva dalla memoria l’austero tempio della Musica, l’Istituto “Canepa”, situato come un trono al centro della città, ove più per forza d’ambizione che per l’amore dell’arte, Silvana era stata iscritta al corso di pianoforte: dopo un anno di solfeggi ed inutili prove, i tasti, colpiti coi martelletti di un’insistente ostinazione, giacevano accasciati e rochi.
L’iscrizione al secondo anno era avvenuta per colpa di zia Serafina che voleva designare a tutti i costi, come sua degna seguace, questa nipote senza talento.
Furono le prove del bel canto, deturpato da un gracchiare stonato di gola, a regalare a Silvana la bocciatura liberatoria e definitiva: per ricordo e premio di consolazione le rimase una foto di gruppo: lei in prima fila con un nastro infilato di traverso sul petto recante la venerabile insegna dell’Istituto Canepa. Ma la scritta troppo lunga lasciava sul retro le ultime sillabe “pa”, per cui in bella vista, il solo “Cane” la diceva tutta sui vocalizzi non proprio melodiosi
Il tutto era finito presto senza troppo arrangiare l’incidente. E poi gli allievi di quella generazione erano abituati alle bacchettate o alle soste in piedi dietro la lavagna con le orecchie d’asino, perciò senza andare troppo per il sottile a cercare se stessi dallo psicanalista, realizzavano subito e da soli quel tanto di capacità critica che bastava al caso.
Silvana capì subito che quella non era la sua strada.
Se la cavò un po’ meglio negli studi classici, e qui zia Serafina non c’entrava affatto. A presidio di tanto impegno era bastata la severità di sua madre vedova inconsolabile che metteva nell’educazione dei figli la troppa durezza derivata dalle sue paure di donna insicura e sola. In omaggio al povero marito, che lei continuava a ricordare e venerare più per il dottorato che per la pietas dovuta ai defunti, ora spettava a lei, la moglie del Professore, il compito gravoso di garantire continuità al sapere tracciando un binario da cui nessuno dei figli osava deragliare. Ma non era proprio la continuità del sapere la sua idea fissa, piuttosto la continuità dei titoli dottorali che quel sapere avrebbe poi prodotto. Guai a spezzare gli anelli di una catena! ove si incastonavano i vari Prof, Ing, Avv, Arc, tutti agganciati, come per mano, a darsi coraggio.
Le torchiate per gli esami le aveva patite non solo Silvana, ma anche il suo mite fratello (che studiava soltanto per ubbidienza), ed una sorella che studiava accanitamente per sentirsi prima, non si sa di cosa, e insomma prima di una lista inesistente. Forse non si sentiva bella, e comunque meno graziosa di Silvana e questo problema per un’adolescente diventava più grande di quanto fosse in realtà.
Non che Silvana potesse considerarsi una bellezza appariscente: magra e minuta com’era, poteva somigliare, a prima vista, alle tante altre giovinette della sua età che non primeggiavano né per altezza né per abbondanza di curve. Possedeva però il dono di mostrare attraverso i tratti del volto, tanti aspetti contrastanti di un carattere multiplo: docilità, arrendevole assuefazione, e sorrisi di buona maniera, accanto ad un che di forte e di ambiguo da profetessa omerica, che suggeriva l’interesse di un enigma. Il trapassato remoto c’era tutto nei capelli lisci e corvini, nel colorito chiaro olivastro, nel pensiero inghiottito dagli occhi nerissimi che, come un oracolo, guardavano gli altri come esseri inesistenti. Un’indifferenza distratta che stizziva uomini e donne, ma che attirava; e le donne potevano dire che questa Silvana aveva coi suoi corteggiatori il successo di tutte le svampite. Sotto certi aspetti avevano colto almeno un lato dell’enigmatico sembiante poiché Silvana, in realtà, scontenta per la vita da isolana, guardava dall’alto, appunto come un’estranea, un mondo in cui si sentiva aliena. Dunque paradossalmente era il suo disinteresse a suscitare interesse, anche magari da parte di giovanottini coetanei, maldestri ed impacciati che certamente non raccontavano i loro insuccessi… impossibile, sin d’allora, ritoccare la mascolina baldanza.
A ragione dunque Silvana si sentiva designata a spaziare verso mete più aperte. Un po’ con la mente dei poeti e dei creativi che sorvolano il quotidiano disdegnando le lezioni sul realismo dell’esistenza: Silvana voleva partire, ma portando con sé una valigia di sogni.
O forse non erano solo i sogni a sospingerla altrove. In quella casa ove era cresciuta con la tenacia e la resistenza di un sottile giunco pieghevole, mancava l’anima, per dire la concordia e lo spirito di vicendevole soccorso. Sembrava invece che già le radici della sua famiglia fossero minate per far scoppiare il temibile morbo della faida. E faida era una parola grande ed importante, una dea Ate che si aggirava in un mondo lontano, sui monti della Barbagia, iraconda chissà per quali interessi violati.
Nella sua casa invece Silvana percepiva appena il piccolo germe della discordia che si ingigantiva e cresceva e si alimentava di cose di poco conto, che dovevano restare nel loro minuto esistere. Ma purtroppo quel germe c’era. Covava nei contrasti inevitabili con la sorella maggiore, Lucilla che non la poteva “soffrire” fin dalla nascita come una rivale usurpatrice del primo posto in famiglia; ed inoltre era inviperita proprio per quel niente effimero di Silvana, in definitiva un pizzico di beltà, fuggevole come la giovinezza.
La vera vittima, in fondo, restava quella poverina di Lucilla, incapace di liberarsi del temibile morbo dell’invidia, triste condizione dello spirito che dovrebbe guarire, (dicono), col sopraggiungere della maturità. Chissà… dicono…
Certo è che Silvana viveva male la sua vita in famiglia, anche perché le dicerie su di lei, l’oca stolida che per di più portava nera, seminate fra i comuni conoscenti, e poi puntualmente guidate, rientravano in casa dove, a lungo andare, l’ignara, respirava gelo; perciò viveva in disparte scansando litigi. Parlava poco, era dunque incomprensibile e, come tale, poco amata. O almeno così mostravano le apparenze perché sua madre (che pur sapeva e vedeva), taceva per quieto vivere, e per curare a suo modo Lucilla, applicava a Silvana una forma scoperta di ingiustizia obbligata, raccomandandole di avere pazienza e comprensione: “Lascia perdere, non ti inquietare, sai lei com’è fatta” diceva a Silvana che non capiva proprio come fosse fatta una che le aveva tutte vinte.
Anche zia Serafina che pur aveva un debole per lei, se ne guardava bene dal mostrarlo apertamente. In definitiva Silvana veniva guidata ad aderire, inconsapevole, a quella specie di assurda congiura contro se stessa. Le faceva pena e tenerezza la zia Serafina quando le si avvicinava in segreto, discreta e colpevole, offrendole due caramelle di miele come il premio di consolazione dopo l’ennesima accusa di Lucilla: Silvana è così… Silvana è colà…
Silvana in pratica, seguendo la cultura biblica di zia Serafina, sull’esempio di quel franoso affare fra Esaù e Giacobbe, avrebbe dovuto chinare le spalle di fronte ai diritti di primogenitura della sorella, col baratto di un piatto di lenticchie, o di caramelle, fa lo stesso.
Tuttavia, per quanto riguarda il nulla da cui nascevano penose gare, e come poi nel tempo evolvessero certi guasti dello spirito dell’infelice Lucilla, è materia di cui Silvana neppure sospettava l’esistenza. E per troppa incosciente distrazione non si soffermava né a pensare né a spiegarsi il perché di tante vicende non chiare, attribuendo al caso sfortunato i meschini impigli e le insidie di cui era punteggiato il suo cammino di adolescente.
Eppure Lucilla poteva essere una ragazza di apprezzabile aspetto, somigliava a Silvana, ma le mancavano i contorni incisi di nero: era castana anche negli occhi, tutta omogenea, senza risalti, come la copia sbiadita di una stessa fotografia. Era sfortunata per questo e si crucciava per quel suo duplicato che le impediva una sua propria identità in assolo. Ad onor del vero lei era una graziosa ragazza di color nocciola, (e se il nocciola non provocava turbamenti non era colpa sua). Comunque il pastello morbido definiva il suo bello, per cui incidervi altre tinte forti e persino il nero di un ritratto sovrapposto, diventava per Lucilla un tiro burlone della natura. Poiché si sentiva condannata al duplicato con Silvana, voleva starne lontana e la escludeva volutamente dai luoghi di raduno, dalle feste con amici ove l’una non doveva comparire con l’altra. Dato che il problema era tutto di Lucilla, era lei a disporre i pezzi sulla scacchiera della vita di gruppo… e Silvana meno attenta a questo genere di strategia si ritrovava talvolta fuori dal giro.
La reietta finiva allora per imbastire i propri rimedi, adattando a sé soluzioni teoriche: fu così, nel disdegnare la provincia, che Silvana fu avvistata una sera con due tenenti dell’aviazione italiana, piovuti dai cieli di Lombardia. Una scelta interregionale, non c’è dubbio.
La notizia di quel suo approccio con le truppe, fiondata in casa come un siluro, le aveva procurato tre giorni in stato di fermo in camera sua, col divieto di libera uscita.
Lucilla, dal canto suo, ce la metteva tutta. Studiava molto, ma con un accanimento che andava al di là del semplice dovere, misurandosi in una gara che si era inventata lei, in una palestra ove in definitiva gareggiava da sola (perché mancava la controparte), cioè Silvana che neanche si accorgeva di esser sfidata in singolar tenzone ed anzi mostrava indifferenza per gli studi e per le troppe imposizioni della ambiziosa madre. Esibiva così l’unica forma di contestazione apparente che le fosse consentita. In ogni caso per la rapida capacità di apprendimento riusciva a sbarcare esami ed interrogazioni senza ingobbirsi sui libri.
Dunque il suo disinteresse per le noie piccole e grandi della vita, Silvana le estendeva a quell’agitarsi dell’infelice sorella secchiona impigliata con agra passione in una tenzone grande, per un problemuccio da nulla. Da nulla per Silvana ovviamente che, a lungo andare, doveva rassegnarsi ad apparire oca e stolida, secondo copione, cioè l’etichetta appioppata dagli spasimi della mente dell’invidiosa Lucilla.
Purtroppo fuori casa, non bastavano le caramelle di zia Serafina, ed il circondario laddove la zizzania era stata seminata fra amici e conoscenti, a Silvana sembrava allargarsi come se un’area più vasta contenesse tutta l’ostilità della gente, come se usi e costumi fossero i severi accusatori per ogni suo movimento, anche innocente. La città che pur aveva i suoi spazi vitali per le modeste e misurate libertà dei giovani di allora, sembrava non volesse ammettere per lei ciò che era consentito ad altri.
Eppure i tempi non erano tanto bui ed anzi, in quegli anni sessanta che preparavano la rivoluzione culturale, proprio in Sardegna, specie nei centri cittadini ove Silvana viveva e si muoveva, si avvertiva fra i giovani un fermento innovativo che cominciava a spezzare le catene di esagerati pregiudizi.
Ma l’errore di Silvana era purtroppo una cecità di fondo… per cui, a dirla con Manzoni, invece di andare a cercare lontano, era meglio se si fosse scavato in giardino.
Curare il malseme che cresceva indisturbato non era dunque impresa da poco, anche perché quel medicamento del lascia passare con cui si incerottavano i tormentoni di Lucilla, più che un diserbante, era la viltà degli insipienti di casa che non volevano vedere, perché non sapevano che fare.
E per Silvana l’aria si andava facendo irrespirabile.
La risoluzione di andare via era un passaggio quasi obbligato, ed ora questo viaggio risolveva tutto, e liberava tutti. Anche Silvana, entrata nei panni della fuggiasca, idealizzava l’aria del continente.
“Adesso sarete tutti contenti”, concludeva Silvana col cipiglio orgoglioso da eroina designata. In realtà sapeva che tutti, tranne Lucilla, non avrebbero voluto il suo “espatrio” e al momento della partenza le raccomandazioni e gli abbracci troppo stretti contenevano l’unica forza residua e vile di cui erano capaci. Nessuno era convinto in realtà che la sua reputazione fosse davvero compromessa poiché nessun episodio eclatante aveva mai appannato l’immagine di una ragazza come Silvana, non vistosa, ma solo graziosa e corteggiata. E questo era il punto dolente che distribuiva in maniera diversa i suoi pungiglioni. Per l’astiosa Lucilla sappiamo come, per gli altri e per la madre soprattutto, l’inquietudine per l’avvenire di questa figlia incomprensibile, si ingigantiva straripando dalle dimensioni di ogni credibile verità. In realtà proprio questa povera madre, inesperta e credulona era la vittima più penosa. Per di più era impegnata in un ruolo di difficile gestione, una specie di fissazione per la rispettabilità. Un’eccessiva severità le era gravata addosso fin dalla nascita poiché il nome che le avevano appioppato era quello di Onorata e con un nome così… c’era poco da fare… era in catene.
Perciò il fumo passivo di malevole insinuazioni lo respirava tutto, si avvelenava da sola e avvelenava gli altri trasferendo le sue angosce.
Certo è che il problema delle ragazze da marito era la comune apprensione di tutte le madri che temevano gli inganni dei corteggiatori da strapazzo.
“Ma della testa di vento di Silvana non c’è da fidarsi – pensava Onorata, – è proprio un’oca se si fa vedere in giro persino con le truppe”.
Eppure Onorata non poteva essere così sprovveduta da bere tante pozioni di veleno. Neppure zia Serafina, che pure era ingenua, pensava tanto nero. Ma Serafina non si chiamava Onorata, era più serena, libera insomma dal peso di portare alto il gonfalone di un nome tanto impegnativo. Altro che gonfalone… quella era davvero una croce.
La cocciutona, timorosa per l’onore, inoltre non sapeva attingere esempi neppure da quella sua media cultura che, con qualche esempio sebbene teorico, poteva illuminarla. La sua cultura poteva definirsi erudizione, perciò lei non sapeva leggere le interpretazioni delle favole. La tragedia di Otello ad esempio la conosceva benissimo, ma dagli intrighi di Jago non riusciva a cogliere gli “universali”, né la comparazione con certi meccanismi ricorrenti delle umane debolezze. Figurarsi…se Jago aveva sconfitto Otello, poteva ben tenere in pugno questa Onorata, ossessionata da una mania che la rendeva altrettanto vulnerabile.
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