In una delle ultime interviste, lo scrittore Jorge Amado dichiarò che «...Il Brasile è la somma meravigliosa di ogni possibile contraddizione: in ogni uomo veramente brasiliano scorre un sangue ricco di fermenti europei, africani, indios, meticci, ed è proprio questo che rende il Brasile così magicamente colmo di luci ed ombre, così fragile, allegro, violento, e tuttavia così impossibile da dimenticare».
Amado, il più grande fenomeno letterario del Brasile, nacque il dieci agosto del 1912 in una fazenda nella regione del cacao, Itabuna, nello stato di Bahia. I suoi romanzi, tutti ispirati alla cultura bahiana, sono impregnati di un vigore e di un calore latino veramente straordinari: Amado fu l’interprete del meticciato culturale brasiliano, della “negritudine”, dei ceti miseri e disagiati contrapposti alla placida borghesia pietrificata. Jorge fu il cantore tenero e ironico della santèria, credenza religiosa animistica importata dall’Africa, piena di riti magici, danze iniziatiche sfrenate, offerte votive di ogni genere a dèi splendenti e terribili. Era figlio del colonnello Joao Amado de Faria e di Dona Eulalia Leal.
Il clima politico dell’infanzia dello scrittore fu contrassegnato dalle violente lotte per il possesso della terra, e questi leggendari e avventurosi eventi furono da lui ricordati fino alla vecchiaia nei suoi romanzi epici. Amado trascorse i primi anni ad Ilheus, quindi frequentò il ginnasio Ipiranga a Salvador di Bahia, e infine si laureò in scienze giuridiche all’università di Rio de Janeiro. Appena adolescente iniziò a scrivere per alcuni giornali e in seguito fu uno dei fondatori de La Academia de los ribeles, che si batteva contro l’insipida letteratura ufficiale, accusata di disimpegno sociale e sorda ad ogni tipo di rinnovamento artistico e stilistico. Di questa accademia fecero parte illustri scrittori come Sosìgenes Costa, Joao Cordeiro, Clovis Amorim, Vàlter da Silveira. Da questa premessa si evince l’impegno morale, civile e politico di Amado, che per settant’anni fu sempre coerente, e che a causa di questo granitico credo, subì la persecuzione del potere costituito, e come sempre in questi casi, il duro esilio. Il Brasile, all’inizio degli anni ’30, stava entrando in un periodo di forti contrasti. Nel 1888 era stata abolita la schiavitù domestica e agricola, ma di fatto, era continuata in modo più subdolo, con il latifondismo e le paghe irrisorie. Questa economia, prima basata sul lavoro degli schiavi neri, stava ora avviandosi verso la nuova realtà industriale e capitalistica, creando una nuova borghesia bianca, arroccata nei suoi privilegi e letteralmente terrorizzata dalle possibili rivolte dei ceti miserabili, formati quasi del tutto da neri e mulatti. V’erano state inoltre le grandi ondate di immigrati tedeschi e italiani verso le regioni del sud, più opulente e temperate. Fu così che San Paolo, pigra città di provincia, divenne con la rivoluzione industriale la megalopoli più importante dell’America Latina. Questo brusco passaggio dallo schiavismo alla nuova industria creò anche una vera e propria caccia alle streghe: la nuova classe agiata tremava al solo pronunciare la temutissima parola, subverso, sovversione, e costruiva mille barriere e mille punizioni per coloro che si rendessero anche minimamente colpevoli di allearsi con le classi sociali sfruttate.
E a portare fermenti di lotta furono proprio gli anarchici italiani, esiliati o in fuga dalla patria a causa delle loro idee rivoluzionarie, (ricordiamo che la stessa moglie di Amado, Zelia Gattai, era proprio una discendente di tali italiani anarchici). In questo contesto infuocato, nasce il primo romanzo del diciannovenne Amado, O paìs do carnaval, del 1931, che sorge come denuncia rivoluzionaria. Scritto sull’onda dell’entusiasmo per la rivolta del ’30, in esso vi è uno sconfortante pessimismo verso la nuova realtà del Brasile, paese del carnevale, unitamente alla speranza di un miglioramento sociale. È la storia di un giovane che non trova direttive esistenziali e si perde nell’impossibilità di affrontare i rifiuti e i dogmi di una società obsoleta, che nulla vuole mutare, ma che tutto vuole preservare egoisticamente. Nel ’33 e ’34 escono rispettivamente Cacau e Suor, il primo che affronta il tragico malessere dei nuovi schiavi, gli alugados, letteralmente gli affittati, coloro cioè che lavorano come servi, il secondo dedicato al sottoproletariato urbano, col suo folklore, le sue miserie, le sue tristi follie. Questi primi tre romanzi furono per Amado un apprendistato: affilava gli strumenti e acquisiva coscienza del suo talento stilistico. Ma il grande esordio letterario fu con Jubiabà, del ’35, il cui titolo non è altro che il nome del suo protagonista, il sommo stregone e incantatore nero di Bahia. La provocazione fu inaccettabile per la borghesia brasiliana: Jubiabà è nero, nero il giovane Balduino, e la storia d’amore tra una donna bianca e un uomo di colore suscitò enorme scandalo, ma restituì dignità e importanza alla cultura nera, sempre ignorata, svilita e offesa.
Amado infranse così uno dei tabù più rilevanti del Brasile, mettendone in risalto l’ipocrisia e la stolidità, proprio mentre per le strade di Bahia sfilavano le camicie verdi di Plìnio Salgado, quinta colonna ariana di Hitler, che Amado rigettò con una impetuosa presa di posizione contro il nazismo e il razzismo. Mar Morto uscì nel ’36, e narra la difficile e cruda vita quotidiana dei pescatori di Bahia, le loro credenze nella santèria e nella dea del mare Jemanjà, importata dall’Africa ma indissolubilmente unita alla Madre Divina, in un sincretismo religioso magico, pagano, scintillante e colorato. È del ’37 Capitàes de arèia, capitani della spiaggia, che ha per scenario la città di Salvador, il suo mondo afro-brasiliano e i suoi bambini abbandonati, figli della strada, del porto, del mare, bambini che crescono con coraggio in un mondo avaro e crudele, e che tuttavia sono terribilmente consapevoli del loro diritto alla libertà e alla gioia.
Con questo ciclo di opere, Jorge Amado sceglie una linea di pensiero che non lo abbandonerà più, e la sua iscrizione al partito comunista lo porterà più volte all’arresto o all’esilio. Infatti nel ’41, è in esilio prima in Argentina e poi in Uruguay. In piena guerra, nel ’42, inizia la terza parte della sua opera. Esce prima in Argentina e poi nel ’43 in Brasile “ O cavalinho da esperanca”, il cavaliere della speranza, che narra le gesta di Luis Carlos Prestes e il suo cavalcare per il paese annunciando al popolo in miseria il senso della sua libertà e la necessità della rivoluzione. Sempre nel ’43 scrive Terras do sem fin, terre del finimondo: con quest’opera, Jorge torna alla sua infanzia, narrando violenze, brutture, banditismo e povertà estrema nell’entroterra brasiliano durante le lotte per il territorio. È questa la fase della militanza politica dello scrittore, in un mondo nel quale, come egli stesso disse, il comunismo era l’unico ideale possibile per contrastare la degenerazione dei valori umani. Fu questo per Jorge il periodo del carcere, nel quale fu rinchiuso innumerevoli volte. Ma non si diede mai per vinto, granitico nel suo impegno attivo. Alla fine della terza guerra mondiale lo ritroviamo ancora una volta in esilio, prima a Parigi dal ’48 al ’50, poi in Russia, dove gli venne assegnato il prestigioso Premio Stalin e dove restò per ben tre anni. Nel ’54 Amado pubblica Os subterraneos da libertade, i sotterranei della libertà, in tre volumi.
In essi c‘è una esplicita denuncia delle persecuzioni della destra al potere, il cui predominio mondiale cominciava a diminuire dinanzi a una vittoria alleata della guerra e alla conseguente posizione più prestigiosa dell’Unione Sovietica. Sono questi gli anni dell’esilio ripetuto, di frenetici viaggi per il mondo, dove i suoi romanzi, ormai tradotti, portavano una nuova immagine del Brasile, con l’influsso della cultura africana e la realtà poco conosciuta del meticciato, ora proposti in modo intenso e aperto. Dopo quattro anni Amado tornò in Brasile, ed entrò nella quarta fase della sua opera letteraria: sorprese tutti con il romanzo che l’avrebbe confermato come uno dei più grandi scrittori del secolo ventesimo, Gabriela, cravo e canela, Gabriella, garofano e cannella, ed è questo per lui un viaggio a ritroso nella memoria, nel quale ripercorre la mappa dei suoi ricordi infantili delle lotte dei fazeinderos per il possesso della terra, con tanto di sparatorie, antiche ricette gastronomiche a lui così care, amore sfrenato, istinti selvaggi e primordiali. Gabriella rivendica il suo diritto all’amore e alla sensualità con un tale esplicito impeto che il romanzo causò ad Amado denunce e proteste pubbliche dalle donne brasiliane, che si ritennero offese nell’onore puritano, ma in realtà Gabriella diede una vera e propria scossa sismica al concetto tradizionale della donna, aprendo le porte ai fermenti del nuovo nascente femminismo. Il critico Antonio Olinto, inserisce l’opera in versi di Amado, A morte e a morte do Quincas Berro Dàgua, nelle tre opere tipiche del climax della narrativa mondiale che ereditò il patrimonio della poesia epica. Le altre due sono La morte di Ivan Ilytch di Tolstoi, Il vecchio e il mare di Hemingway.
Tre letterature diverse, tre lingue, tre ottiche, tre tecniche: quella di Tolstoi è incentrata sul travaglio russo quotidiano, quella di Hemingway sulla battaglia dell’uomo inerme dinanzi alle forze invincibili della natura, quella di Amado sulla scelta picaresca tra due morti. Qui lo humour di Amado è pura poesia che esprime in una sola storia l’inerme mortalità dell’uomo.
L’Ivan di Leone Tolstoi, il vecchio di Ernst Hemingway e il Quincas di Jorge Amado hanno nella loro cruda concretezza di stile, l’esatto strumento per giungere a una verità, un meaning che apre una porta tra due mondi, quello fittizio dell’arte, e quello reale delle percezioni concrete.
E quello reale è ciò che il filosofo Heidegger chiamerebbe «l’universo potente che ci circonda». Amado rappresenta un diverso tipo di morale popolana, creata dalle necessità vitalistiche e quindi ironicamente concreto.
Appare così negli scritti di Amado, un Brasile convenzionale, immobile e classificatore, e un altro Brasile, quello dei porti, dei mercati, delle taverne, che pratica la santèria, rende omaggio a Jemanjà, la dea madre, impazzisce, muore danzando, s’innamora nei frenetici giorni del carnevale, là dove l’erotismo diventa misticismo, e la gioia di esistere tristezza.
Ma la cosa più geniale e sorprendente è questa lingua di Amado, sicuramente non ufficiale, piena di origini mandinghe, dialetti africani, neologismi strappati ai portoghesi e rimescolati dal popolo in colorate invenzioni linguistiche di rara efficacia.
La lingua luso-brasiliana di Amado diventa non portoghese del tutto, ma nemmeno popolana: usa il classico, inserendo la parlata dialettale per dare più smalto allo humour. Può passare dal realismo più crudo al misticismo della santèria con una spontaneità davvero esotica e originale: è ciò che viene chiamato il ritmo tropicale della scrittura di Jorge Amado. Nel ’66 pubblica “ Dona Flor e seus dois maridos”, nel quale amore, morte e surrealismo spiritico mostrano una bonaria ironia sul tema del matrimonio, e sono sempre meticci e popolani i suoi protagonisti, vivacemente contrapposti a una borghesia sempre perdente. Seguirono nel ’69 Tenda de milagres, la bottega dei miracoli, che affronta di petto la negritudine e l’intolleranza verso di essa. Nel ’72 vede la luce Teresa Batista cansada do guerra, Teresa Batista stanca di guerra, nel quale l’autore esalta il femminismo.
Come Dickens in Inghilterra, Amado cambiò il Brasile. Tale e tanta fu la forza dei suoi scritti! Dopo la diffusione dei suoi libri, la persecuzione del Brasile contro i Candomblès, la santèria, e i culti africani, si allentò e si tentò di riparare ai danni apportati ai ceti più miseri e ai bambini abbandonati, anche se con poco successo. Il capolavoro di Amado è senz’altro Tocaia grande, la grande imboscata, nel quale l’autore riuscì a riunire in un romanzo una storia corale, lirica, erotica, violenta e grottesca, intrecciando armoniosamente tragedia, ironia pietosa, speranza poetica. Il libro, con dialoghi forti carichi di sensualità, comicità e dolore, narra la realtà di una piccola città della foresta composta di neri, zingari, prostitute e maniscalchi, che tra feste, funerali, erotismo, fame, vendette e faide, vive la quotidianità aspra della terra, dei soprusi e degli istinti. Come in una vetrata e con la precisione di un mosaico, ricostruisce tutti i tasselli di piccole esistenze fino a dar forma a un vero e proprio affresco narrativo.
Le opere più recenti di Amado sono Navegacao do cabotagem, navigazione di cabotaggio e A descoberta do Amèrica pelos Turcos, del 1992. L’ultima opera è O compandre do Ogum del 95.
Jorge Amado ricevette innumerevoli e prestigiosi premi letterari, ma non ebbe mai il Nobel, forse perché la sua carica ribelle spaventò sempre anche coloro che lo ammiravano. La sua indole selvaggia non poteva essere catalogata o borghesemente esaltata: forse è proprio questo il suo fascino o il suo carisma. Jorge era fortemente cardiopatico, e morì il sei agosto del 2001, quattro giorni prima del suo ottantanovesimo compleanno. In settant’anni di letteratura aveva fatto crollare il muro del pregiudizio, e con solarità straordinaria aveva illuminato e ridato dignità al Brasile povero e ai suoi bambini abbandonati. La sua amata terra proclamò tre giorni di lutto. Il suo grande cantore era morto. Ma la sua voce continuava a splendere e ad attraversare il mondo intero, col coraggio e la tristezza della sua nostalgica poesia.
«...Fu allora che una figura attraversò i cieli, e irrompendo per i sentieri più chiusi, vinse la distanza e l’ipocrisia, pensiero libero da ogni costrizione… Allora s’accese un fuoco sulla terra, e il popolo bruciò i tempi della menzogna.”
(Donna Flor e i suoi due mariti, Jorge Amado)
Alessandra Crabbia