Ai miei figli,
Francesco, Elisabetta, Mauro,
ai tanti bimbi adottati a distanza
e a tutti quelli a cui ho insegnato,
ormai diventati adulti,
che ancora mi porto nel cuore.
Perché ogni bambino al mondo,
anche quando diventa grande,
ha sempre il diritto di avere
una bella favola tutta per sé.
Premessa
UN LIBRO PER SARAH
Alice stava guardando con inquietudine dalla finestra della cucina i fiocchi che cadevano da due giorni, volteggiando senza sosta sui campi e sui giardini.
Già calavano dai monti le ombre della sera, quando sbottò:
– Accidenti! Tutta questa neve davvero non ci voleva! –
Aveva ormai realizzato che erano praticamente isolati e ancora il tempo peggiorava.
Proprio in quel momento suo marito, dopo aver appoggiato la pala al muro esterno, aprì la porta d’ingresso: era coperto di bianco come un fantasma e, scotendosi la neve di dosso, borbottava incomprensibili imprecazioni.
Poi come se avesse letto nella mente della moglie aggiunse:
– Di uscire non se ne parla neanche, men che meno in auto! –
La donna non aggiunse nulla a quelle definitive parole, ma abbassò lo sguardo rassegnata: era la vigilia di Natale e lei era bloccata in casa da giorni, aveva ancora alcuni regali già ordinati da ritirare e tra questi un libro, scelto con molta cura.
Era un libro di favole di Natale che aveva per protagonisti simpatici animali, un libro per la sua bambina, perché era convinta che tutti i bimbi del mondo hanno diritto ad una favola nuova e speciale, nella notte più magica dell’anno, la notte di Natale!
Si diresse in soggiorno e guardò il grande albero illuminato pieno di nastri, di pacchettini e di palle di vetro colorato… Sorrise compiaciuta del suo lavoro e corse col pensiero ai Natali di quando lei era bambina, e al suo primo libro illustrato.
Naturalmente s’intitolava “Alice nel paese delle meraviglie”, lo aveva ricevuto in dono dalla zia Nora la vigilia di Natale, perché lei era una bambina vivace e curiosa, come la protagonista del libro che rincorreva il coniglio bianco col cappello a cilindro, il panciotto e tanto di orologio nel taschino…
Quella favola aveva incantato e stregato la sua mente, ne era rimasta così affascinata che da allora tutti gli anni la vecchia zia le faceva avere un nuovo fantastico libro per la notte di Natale… Era stato così per diversi anni, finché visse la zia Nora.
In seguito quella tradizione era rimasta in famiglia, e adesso era lei a regalarne uno a sua figlia Sarah, uno scelto con cura, da leggere insieme, accoccolate sul divano del soggiorno o sedute a terra sul tappeto accanto al fuoco del camino, prima di andare a letto, prima che la pendola facesse risuonare i magici rintocchi della Mezzanotte…
– Che cosa posso fare per non deluderla proprio ora? – si chiese.
Poi all’improvviso ebbe un’idea e il suo viso s’illuminò. Andò subito nella sua stanza e tolse dall’armadio una scatola di latta colorata, che conteneva alcuni ricordi di quando era piccina, ne trasse qualcosa che pareva un vecchio diario con la copertina rossa, illustrata da una mano infantile, ma sicura e allegra nella scelta dei colori.
Attese l’ora di cena e salì in camera della figlia con il vassoio, le misurò la febbre, le imboccò il brodo caldo, quindi aprì quel lontano ricordo della sua infanzia e con voce calda e morbida incominciò a leggere: “C’era una volta…”
Parte prima
LA FORESTA MALEDETTA
– C’era una volta, tanti e tanti secoli fa, su una grande isola in mezzo al mare del Nord, in una valle stretta tra due colline, un piccolo villaggio fatto di capanne di legno con buffi tetti di paglia, che scendevano giù bassi fino alle finestre.
Lo attraversava una stradina polverosa che, serpeggiando tra le due colline, portava verso altra gente e altri paesi.
Si vedevano qua e là alcuni campi lungo il torrente e tante pecore sui pendii come macchie bianche sparse tra i cespugli. Poi alle spalle tutta un’immensa, impenetrabile, misteriosa foresta, così intricata che sembrava non lasciare passare nulla e nessuno, nemmeno la luce del sole o lo sguardo curioso delle stelle. –
“Una vera e propria selva nera, cari bambini miei…” disse in un sospiro il vecchio che stava narrando quella storia con voce bassa e profonda.
– Alla base degli alberi c’era sempre una fitta nebbia che nascondeva la parte bassa dei tronchi, tanto che essi sembravano agli sguardi degli abitanti di quel villaggio quasi chiome di strani giganti, sospesi per aria, con le cime aguzze come lance, pronte a sfidare il cielo.
Nessuno mai penetrava oltre la severa guardia di quegli immensi abeti scuri, perché coloro che negli inverni più freddi avevano osato entrare nel folto a fare un po’ di legna per scaldarsi, non aveva più fatto ritorno. –
“Erano diventati spiriti…!” bisbigliò la stessa voce in un breve inquietante sussurro, e tra i piccoli ascoltatori corse improvviso un brivido di paura.
– La gente del villaggio credeva che gli spiriti di quei morti e di tutte le altre anime perdute sulla terra abitassero ciascuna dentro uno di quegli alberi e che facessero impigliare nei loro rami e nelle loro enormi radici tutti quelli che entravano a disturbare il loro sonno eterno, sfidando il potere della morte.
“La chiamavano la foresta maledetta senza ritorno!”
Infatti era come se essa fosse in realtà un grande cimitero, un regno cupo della morte stessa, la dimora degli spiriti dell’oltretomba. Tanto che la gente, appena poteva, se ne andava lontano da quel villaggio, perché veniva considerato troppo vicino ai confini paurosi dell’aldilà... –
“Ma non tutti!” Disse di nuovo quella voce, dopo una lunga pausa, aggrottando la fronte e spingendo gli occhi nel buio oltre i vetri della finestra. Quindi riprese:
- Proprio alla fine della stradina polverosa, quasi ai margini della grande foresta, c’era una piccola casa di legno bianca e nera, rallegrata da un minuscolo giardino sempre pieno di fiori, di voci di gioia e di gaie canzoni.
Lì viveva una famiglia di quattro persone, laboriosa e molto unita, composta dal papà, dalla mamma e da due bambini.
Il padre costruiva letti tavoli e sedie, piccoli oggetti di legno, la madre coltivava l’orto e governava la casa, Maggie, la bimba più grande, aveva nove anni e frequentava la scuola del villaggio, mentre il fratellino Rico aveva solo cinque anni e giocava felice nel giardino, insieme ai suoi adorati animaletti: uno scoiattolo dal pelo rosso, una tartaruga dal guscio giallo e verde, due tortorelle innamorate, e il suo più grande amico, un bastardino dalla coda a riccio, di nome Flick, che abbaiava allegro, incurante dei fantasmi che abitavano la nebbia.
Un tempo Maggie era stata molto gelosa e scontenta per la nascita di Rico, ma poi l’aveva visto tanto buffo e piccino, quasi un bambolotto, e l’aveva amato con tutta la bontà del suo piccolo cuore. –
“La vita scivolava serena, amici miei, stagione dopo stagione…” e continuò:
– Rico e Maggie crescevano insieme, e sembrava che nulla e nessuno potesse interrompere lo scorrere regolare di quei giorni pieni di giochi, di corse, di scoperte, di cure amorose e di liete sorprese…
Il papà aveva costruito un alto steccato, oltre l’orto dietro alla casa, per tenere lontano gli animali e gli spiriti del bosco, e non voleva che i suoi figlioli si fermassero ad ascoltare le storie terribili che vecchie simili a streghe raccontavano nelle sere d’estate intorno ai falò del villaggio e nei lunghi pomeriggi d’inverno presso i neri pentoloni d’acqua che ribollivano sul fuoco dei camini.
La mamma e il babbo volevano che i loro bambini crescessero sereni e felici e che niente e nessuno potesse fare a loro del male. –
“Ma il male, miei cari, stava già stendendo su quella piccola casa la sua lunga ombra nera…” Così disse, poi fece silenzio.
Allora gli occhi dei bambini scintillarono, nell’attesa curiosa che quella voce profonda riprendesse la storia:
– Era autunno inoltrato e c’era stata da poco una forte tempesta di vento che aveva scosso anche i giganti della grande foresta, alcune assi della palizzata si erano sconnesse e mentre la mamma di Maggie era uscita a raccogliere i frutti appena caduti dagli alberi, una strana presenza scivolò scura scura tra le fessure aperte dal vento, si avvicinò a lei piano piano e… subito l’avvolse!
Non un grido uscì dalla sua bocca, non un lamento, ma un velo di tristezza coprì il suo volto e una profonda malinconia, come una oscura malattia, invase il suo corpo.
Il recinto fu subito riparato dal babbo, ma a nulla giovò: il male era ormai dentro casa e la felicità di un tempo svanita all’improvviso insieme al vento.
Più i giorni passavano e più la mamma stava male e si muoveva inquieta per casa. Non più un sorriso o un gesto d’amore, ma la divorava una rabbia a stento repressa che a volte faceva volare dappertutto le cose. Allora la donna cercava di stare il più lontano possibile dal marito e dai figli, ma non serviva a niente, perché il male dentro di lei cresceva, cresceva senza che lei potesse fare più niente per contrastarlo.
Poi un giorno con un grido disperato saltò dall’altra parte dello steccato e, correndo, sparì dentro la foresta.
Suo marito cercò d’inseguirla, ma Rico si attaccò forte alla gamba di papà e incominciò a piangere e a strillare:
“Mamma, mamma…!”
Allora corse fuori anche Maggie e capì che gli spiriti della foresta avevano rapito sua madre; e anche che la mamma alla fine si era sacrificata per proteggere tutti loro. –
“L’ombra del male, infatti, lasciò quella casa, ma non la tristezza…
E come può, bambini miei, non essere triste una famiglia che ha appena perso la mamma?” Così disse. Asciugò il naso di una bimba che gli stava davanti e poi continuò:
– Passarono i giorni, Maggie vedeva il babbo farsi sempre più chiuso e pensoso; lei sapeva che lui avrebbe voluto entrare nella foresta per cercare la loro mamma, ma che non lo avrebbe mai fatto, proprio per loro, perché, se non ne fosse più uscito, i suoi figli sarebbero rimasti soli e completamente indifesi.
Allora cominciò a pensare che toccava a lei farlo, che lei sarebbe andata a cercare la mamma per Rico e per il suo papà, perché voleva che entrambi ritornassero a sorridere.
Così preparò di nascosto un coltello e delle provviste, li avvolse in una coperta che sistemò sulle spalle e, preso il grosso bastone del babbo, la mattina, dopo la festa di burn-burl (una specie di Hallowe’en antica), al momento opportuno, invece di andare a scuola, scavalcò la palizzata e si avviò decisa verso il bosco, sicura che nessuno si sarebbe accorto della sua mancanza prima di sera.
Aveva appena messo piede dentro la foresta, quando all’improvviso sentì uno strano guaito lungo, quasi un richiamo.
Già tremando di paura, si voltò. –
“No, non era un fantasma, miei cari! Sì, era proprio Flick, che ora le abbaiava intorno festoso e la tirava per il vestito, come per costringerla ad uscire di lì.”
– Infatti il cane, scavato un buco sotto lo steccato, era corso da lei per salvarla, per riportarla a casa.
Allora Maggie si rivolse a lui e gli disse:
“Va a casa Flick, va da Rico… Io, io non torno… Vado a cercare la mamma, mi capisci?”
Il cane abbaiò più forte, fece due salti per uscire dalla foresta, ma poi ritornò subito indietro e si accucciò ai piedi della bambina.
Era il suo modo per dirle che sarebbe venuto con lei.
“Ok, testa cocciuta di un cane, Rico piangerà tutto il giorno, se tu non rientrerai subito a casa! Va…, va via!” Gli disse ancora.
Ma il cane si limitò ad appoggiare la testa sulle zampe anteriori, uggiolando piano, e Maggie capì che non sarebbe riuscita a cacciarlo.
Così gli disse:
“Fai silenzio, hai capito, o vuoi svegliare tutti gli spiriti che adesso dormono negli alberi?”
Maggie aveva saputo da una sua compagna che nella notte di burn-burl gli spiriti organizzavano una grande festa e ballavano in una sarabanda infernale tutta la notte. Per questo aveva pensato che quella mattina dormissero e per un po’ l’avrebbero lasciata in pace. –
“E infatti avvenne proprio così!” La voce del vecchio sospirò e si concesse un’altra pausa. Poi riprese:
– La bambina procedeva piano, facendosi largo tra gli arbusti spinosi col suo grosso bastone; ma dopo il suo passaggio la vegetazione si richiudeva dietro di lei.
Allora si mise a fare dei segni sugli alberi a mano a mano che entrava sempre più nella foresta.
A un certo punto però si rese conto che i segni poco dopo sparivano, così capì che non sarebbe più stata in grado di trovare la strada del ritorno. Ormai non le restava altra scelta che continuare.
Anche Flick la incoraggiò leccandole la mano e spingendola a proseguire.
La foresta era sempre più fitta e scura, e Maggie aveva l’impressione che mille occhi la stessero spiando.
Procedeva a fatica con Flick che le salterellava tra i piedi, ringhiando piano e girando guardingo intorno i suoi occhietti furbi e neri. Il cane intanto pensava che avrebbe voluto poter parlare per dire alla sua amica Maggie:
“Non aver paura, io ho più paura di te, ma non ti lascerò mai sola, verrò con te fino in fondo e ti proteggerò. Vedrai, se la tua mamma è qui, io la troverò, conosco il suo odore, il suo buon odore di lavanda.
Non temere, io ho buon naso e so anche ritrovare la strada di casa, in barba alle cortecce che hanno scrollato via i tuoi segni!” –
“Tutte queste cose pensava Flick, ma era solo un cane, non aveva una voce umana per dirle e poi aveva ricevuto l’ordine di non abbaiare…”
– Così camminarono insieme a lungo in silenzio in mezzo alle spine e agli sterpi, fin quando non apparve una stretto sentiero che tra due cornici di fiori portava dritto nel cuore del bosco.
Maggie ne era stupita:
“Flick hai visto? Fiori di primavera in novembre! E qui non fa nemmeno più freddo; il sentiero è pulito e senza spini, si sente anche l’acqua di un ruscello… Flick, andiamo a bere!”
Il cane abbaiò e corse verso un piccolo prato fiorito nel centro del quale da una roccia sgorgava una fresca acqua invitante. Maggie riempì la sua borraccia e bevve, Flick leccò avidamente lungo la riva del piccolo lago che si allargava e subito si richiudeva ai piedi della fonte.
“Come è bello qui!” disse la bambina.
“Sì è davvero un posto molto carino!” le rispose il cane.
Si guardarono stupiti negli occhi.
Era il suo cane che parlava?
O era lei che ora comprendeva la lingua abbaiata da Flick?
Che cosa stava succedendo?
Ma l’animale capì e disse:
“Questa deve essere un’acqua magica e questo un posto protetto da uno spirito saggio!”
“Sì, forse possiamo stare qui per un po’, fermarci a mangiare un boccone… passare la notte …e poi si vedrà!” Concluse la bambina.
Tuttavia il cane dopo aver annusato tutt’intorno disse:
“Non credo che sia una buona idea, forse questo posto è davvero protetto da uno spirito saggio, ma può essere anche una trappola. Io direi di non fermarci e di andare a vedere dove porta questo sentiero.”
“Ma io sono stanca,” si lamentò Maggie “e questo è un posto magnifico per riposare…”
“Mi sembra strano,” continuò il cane “non ci sono animali qui intorno, non vola neanche una mosca, una farfalla o un passero.”
Poi vide un’ombra e abbaiò forte o forse gridò.
Maggie raccolse in fretta la coperta e incominciò a correre lungo il sentiero, mentre la fonte il lago e il prato si accartocciavano dentro una rete dalla quale erano riusciti a fuggire appena in tempo.
Il sentiero spariva dietro di loro, che correvano senza mai fermarsi, senza mai voltarsi indietro.
Fino a quando non tornò ancora il freddo e incominciarono a scendere veloci le prime ombre della sera.
Maggie si fermò di botto senza più fiato:
“E adesso che facciamo?” disse quasi senza voce e con lo sguardo smarrito.
Il cane abbaiò una due tre volte, ma lei ugualmente capì che voleva dire di continuare fino alla fine del sentiero.
Così la bambina si strinse nella sua mantella e riprese a camminare. –
“Cammina, cammina, cammina… andarono avanti silenziosamente, fintanto che la foresta a un tratto non si schiarì!”
Il vecchio pronunciò queste parole con una voce ferma e i suoi occhi guardarono attentamente i bambini che protestavano dicendo: “ma non stava scendendo la notte?” “E gli spiriti che cosa facevano?” “Perché non se li mangiavano?” “...che significa ‘schiarì’?”
Con un gesto della mano lui li zittì tutti: “Se volete che continui la storia, dovete fare silenzio!”
Silenzio fu, e la storia continuò. – Era ormai scesa la notte, ma il cane e la bambina erano entrati in una grande radura illuminata dalla luna, che si appuntava come un enorme faro sulla cima di un immenso e maestoso abete: aveva rami grandi come i tronchi larghi delle querce centenarie che stavano in fondo alla valle e la sua cima sembrava sostenere la luna e il cielo sopra di lei.
Maggie si avvicinò cautamente, “se in quell’albero c‘è uno spirito” pensò “esso è sicuramente il più grande, il più forte e il più potente di tutta la foresta.
Un gigante così io non l’ho mai visto: i suoi rami sono grandi come capanne e le sue radici sono così grosse da formare intorno a sé solchi profondi come caverne…”
Mentre così pensava, si alzò un forte vento. Maggie prese in braccio Flick e cercò un riparo tra due enormi radici; fu allora che senti il suono cavernoso di un’eco che faceva vibrare di sé la spessa scorza dell’albero.
E le vibrazioni divennero chiare e profonde parole:
“Chi sei ? E che cosa vuoi, piccola?”
Lei si sentiva davvero tanto piccina, mentre Flick sgusciato dalle sue braccia abbaiava con tutte le sue forze, nel vano tentativo di spaventare quello spirito possente.
“Fai silenzio, stupido cane! Che cosa credi di fare? Vuoi proprio irritarmi?”
Ma il cane continuò ad abbaiare fino a quando la punta del ramo più basso non gli si strinse intorno e non lo sollevò in alto di almeno venti metri.
Allora La bimba implorò:
“Ti prego non fargli del male! Lui cercava solo di difendermi… È un cane buono… Signore!” –
“Non sapeva nemmeno lei che cosa stesse dicendo, ma la paura le era come di colpo sparita. E lo Spirito dell’albero allora capì che in quel momento lei avrebbe potuto dare a lui la vita in cambio di quella del suo cane…”
Il vecchio smise di narrare e guardò per un attimo i piccoli che gli stavano intorno e lo fissavano con i visi rivolti verso l’alto in trepido silenzio. Così la sua voce continuò:
– L’Albero riafferrò con la cima di una fronda il cane che stava cadendo a terra e Flick atterrò con un tonfo sulle foglie tenere e morbide come un cuscino, rimanendo accucciato sul ramo, a quattro metri dalla testa della sua padroncina.
“Come ti chiami?” scrollò con voce di vento impetuoso l’Abete.
“Maggie…” gli rispose una vocina di sotto
“Bene, Maggie, da oggi in poi sarai al mio servizio!”
Un ramo l’avvolse e la prese delicatamente, depositandola sul tronco dalle fronde morbide su cui stava già accucciato Flick.
I due si strinsero vicino, come naufraghi nella tempesta, ma l’Albero disse:
“Non temete, qui nessuno potrà farvi del male! Mangiate qualcosa e poi dormite. Fra poco si spegnerà anche la luna, ma le ombre della notte non arriveranno fino a voi.” E così fu.
L’Abete mantenne intorno a sé un alone argentato, anche dopo il tramonto della luna, e li protesse, mentre si scatenavano le voci orribili degli spiriti e le grida tremende delle anime morte, che percorrevano tutta la foresta intorno alla radura. Tuttavia quei suoni terribili non giungevano sino all’albero se non come echi ovattati.
Consolati da quel chiarore e cullati da un vento leggero Maggie e Flick si addormentarono insieme sotto la coperta e per la prima volta la loro mente fu attraversata dai sogni d’oro che nella notte seminano le stelle. –
Due dei bambini più piccoli ai piedi del vecchio vestito di rosso, con una lunga barba bianca, si erano già addormentati.
Lui li prese delicatamente tra le braccia, prima l’uno e poi l’altro, e li mise a dormire in due piccoli letti di legno, intagliato e dipinto, che ricordavano quelli dei sette nani.
Poi disse ai più grandicelli:
“Si è fatto tardi, è ora che anche voi vi prepariate per dormire.”
“Ma io non ho sonno!” si lamentò una bimba dallo sguardo vispo.
“E poi la storia non è finita, non è vero?” sottolineò un altro, che però stava già sbadigliando.
“Zitti, tutti!” e gli bastò uno sguardo. “Continuerò domani e potrete stare qui con me un altro giorno.”
“Urrà!” fu la parola d’ordine e in men che non si dica, nella vecchia baita in mezzo alla foresta scese il silenzio. E anche lì la notte si popolò di sogni, quelli più belli che solo i bambini, quando sono davvero buoni, sanno fare.