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Il gioco delle tredici carte
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Prefazione
Ho conosciuto Gabriella Dell’Orto, senza incontrarla di persona, leggendo “Il gioco delle tredici carte”, sua seconda opera letteraria.
Mi si è configurata come un essere umano proteso verso la ricerca di un mondo ideale, dominato dal bene, realtà che oggi a molti di noi sembra irraggiungibile, ma che, al termine di questa lettura, sentiremo attorno a noi, dentro di noi.
Le prime pagine del libro hanno una struttura ardita, inconsueta, ai limiti dell’avvincente, al punto che possono sconcertare il lettore, come se fosse colto da un senso di stordimento. Una sensazione che, anziché dissuadere dal procedere, esercita – com‘è capitato a me – uno stimolo a proseguire, tanto è pressante e convincente il piglio di chi scrive.
E’ così che, avanzando nella lettura, i due filoni narrativi, presentati in modo indipendente sul piano tipografico, ci convincono sempre più che siamo di fronte a un modo nuovo di narrare, un impegno notevole teso alla ricerca.
Una pausa di riflessione a metà percorso ci conferma che gli accorgimenti espositivi del romanzo sono sofisticati soltanto in apparenza.
In realtà sono la logica conseguenza di uno slancio espositivo spontaneo ed efficace, che stimola la nostra fantasia fino a farla coincidere con gli intenti dell’autrice, tanto da farci immedesimare ora in uno, ora nell’altro dei protagonisti.
Questa reazione va certamente attribuita alla trasparenza concettuale e alla spontaneità di pensiero della scrittrice, elementi essenziali di uno sforzo letterario profondamente sentito.
Ad attrarre l’attenzione non è soltanto la figura fiabesca di Babd, ma l’affiancano anche personaggi più vicini alla realtà dei nostri giorni come Fabiola o il dottor Hemmerson, Anna e Andrea, Beth e Peter.
In ciascuno di loro si finisce col ritrovare un po’ di noi stessi e certamente in ciascuno di loro c‘è un po’ dell’autrice, premessa al coincidere delle nostre sensazioni con quelle verisimilmente da lei provate man mano che dal suo intimo le trasferiva sulla carta.
Come catalogare quest’opera?
Una serie di racconti legati da una sottile filiera?
Un thriller mascherato?
Un succedersi di momenti di riflessione sull’imprevedibile e, al tempo stesso, sulla più calma quotidianità?
Ce n‘è per tutti.
Sono certo che ogni lettore troverà la sua interpretazione, che, per quanto soggettiva, per quanto personale, coinciderà fatalmente con le idee di Gabriella.
Questa sua opera ardita e avvincente si esprime in modo poliedrico e ci propone, in modo innovativo ma pienamente valido, l’antica tesi che sovrasta l’umanità secondo cui il bene finisce sempre per prevalere sul male.
Bruno P. Pieroni
PRESENTAZIONE
“L’antica scatola di legno era divisa in tre scomparti: nel primo erano incastrate delle strane carte da gioco con uomini e donne in vestiti antichi, nel secondo era fissata una pergamena ingiallita, chiusa a rotolo da un laccio nero, nell’ultimo erano legate tra loro quattro carte di formato insolito con figure dipinte”.
Quali misteri dietro a quel gioco delle tredici carte?
“Dopo millenni d’attesa, l’antico spirito del drago, attraverso la figura del cavaliere nero, era riuscito a riprendersi quelle spoglie che la madre Terra aveva conservato intatte nella pietra dell’antro, un tempo il sotterraneo del suo palazzo e insieme il cuore di un grande vulcano, collegato dierettamente con gli Inferi. Il rito infernale non era riuscito completamente per colpa di Babd che nel momento cruciale della sua metamorfosi gli aveva sottratto entrambe le vittime. Ora Kainoch volava stancamente nel cielo col suo corpo immenso e le grandi ali uncinate, il sangue degli uomini, che aveva appena bevuto, non era stato sufficiente a ridargli l’antica forza né a rendere stabile l’immagine di sé che a tratti si scomponeva e spariva nel vento. All’orizzonte il sole attendeva impaziente di aprire le porte all’alba di un nuovo giorno, e lui doveva assolutamente rintracciare quei due giovani e completare il rito. Forse avrebbe potuto risparmiare la ragazza, come aveva promesso all’Inferno e lasciarla a Babd, forse… Ma non voleva rischiare che questa volta le cose potessero andargli di nuovo storte. Li avrebbe spremuti entrambi, fino all’ultima goccia”.
Il gioco delle tredici carte
A mia madre:
“Splenda a lei la luce
del Tuo volto.
E il suo spirito viva
nella pace dei Tuoi Cieli.”
Al club dei ‘Destini incrociati’
Il cielo era ancora un po’ imbronciato, ma aprile già respirava aria di piena primavera sul Naviglio Grande e la gente di tanto in tanto rallentava il passo e guardava lo scorrere monotono e tranquillo dell’acqua, oltre il parapetto del ponte.
Giovanni teneva una mano affondata nella tasca del giubbotto e con l’altra stringeva al petto il suo tesoro.
“Rimarranno stupiti” pensava “io che sono l’ultimo arrivato, ...azzo, che soddisfazione!”
E ritornava con la mente alla domenica precedente, quando su di una bancarella del mercatino d’antiquariato, che si tiene a Monza una volta al mese, aveva rovistato quasi per noia tra un mucchio di cianfrusaglie e vecchi attrezzi agricoli ed era stato attratto da una rozza scatola di legno, che sembrava chiusa ad incastro e non presentava serratura. – Chi sa che cosa c‘è dentro… Lei l’ha aperta? – aveva chiesto al rivenditore.
L’antiquario l’aveva presa tra le mani e l’aveva scossa: – È leggera, sembra sia vuota. In effetti è curiosa… Non ha serratura e l’incastro pare sigillato. Se vuole provo ad alzare il coperchio. – - No, grazie, non è il caso… Mi rovinerebbe la sorpresa! Facciamo che sia solo una scatola vuota e un po’ tarlata, e non è detto che non si rompa al primo tentativo di aprirla. Quanto vuole? – Il rivenditore chiese una cifra ragionevole e Giovanni dissimulò il suo interesse tirando un poco sul prezzo e ottenendo un piccolo sconto.
Camminando per le bancarelle, più si rigirava la scatola tra le mani e più era assalito da una strana ansia di scoprirne il contenuto.
Rinunciò alla passeggiata e tornò a casa. – Eppure ci deve essere il modo di aprirla senza romperla – si disse e lisciò i polpastrelli lungo i bordi cercando un punto in cui far leva sull’incastro senza incidere rovinosamente il legno.
Si era già armato di cacciavite, quando il bordo di uno spigolo cedette e il coperchio si sollevò come se una molla l’avesse spinto verso l’alto.
La scatola non era vuota.
Ormai Giovanni era arrivato all’altezza del vecchio lavatoio, bastava girare a sinistra per una stradina, passare attraverso il portone e il relativo passo carraio, per entrare dentro la corte di una casa a ballatoio, restaurata da poco meno di un anno.
Da tempo un gruppo d’amici aveva preso in affitto due locali a piano terra, per ritrovarsi il sabato a far bisboccia, a discutere e a coltivare argomenti ed interessi di cose un po’ misteriose, di cui era meglio non parlare al bar.
A volte, però, gli spazi erano utilizzati anche dalle mogli e dalle famiglie per festeggiare compleanni, anniversari ed affini. Insomma due stanze per stare insieme e fare un po’ di chiasso senza disturbare i vicini dei propri condomini.
Tuttavia Mauro, quasi per burla, un giorno aveva affisso sull’anta della doppia porta color antracite una targhetta d’ottone, a caratteri corsivi e un po’ ricercati, con la scritta:
“I Destini Incrociati / club esoterico”. Qualcuno aveva protestato, qualcuno aveva preso la cosa sul serio.
Molti, in base ai propri interessi, avevano incominciato a leggere libri e riviste sui misteri dell’al di qua e dell’aldilà, sulle sedute spiritiche, sul paranormale e altri fenomeni del genere.
Poi c’era stata una sottoscrizione, e si era fondata, con tanto di statuto, una vera e propria associazione con finalità culturali, a cui ben presto furono affiliati nuovi adepti.
Giovanni vi era finito dentro per caso, trascinato da un amico che gli doveva un favore, forse pensava in quel modo di disobbligarsi.
Scoprì ben presto che l’occulto lo affascinava, ma nello stesso tempo gli ripugnava: ne aveva una paura quasi superstiziosa.
Comunque i locali erano riscaldati, c’era un bar sempre ben fornito, oltre a un concitato interesse e tanta allegria.
Per statuto mogli, mariti, bambini e cani dei soci non erano ammessi.
Si leggeva, si discuteva, a volte si giocava anche a carte… o Renata faceva a qualcuno i tarocchi e gli altri guardavano.
Ciao, Giovanni! – Ehilà... – Ormai era entrato.
E non c’era nemmeno bisogno di attrarre l’attenzione: il suo fare un po’ impacciato e il pacchetto sfilato cautamente dal giubbotto avevano già calamitato il gruppo.
Si capiva che era qualcosa di serio.
E Giovanni, dopo aver risposto ai saluti, aprì in silenzio il pacchetto.
La vista della scatola dipinse sul volto di alcuni una smorfia di delusione, ma altri, soprattutto le quattro donne, gli si fecero intorno. – È una scatola ad incastro, senza serratura…- sentenziò Andrea. – Già, come si apre? – chiese curiosa Roberta
Il giovane la posò su uno dei tavoli e sfregò il dito sul bordo al lato di uno spigolo. Il coperchio saltò di scatto.
Ora erano tutti intorno.
L’interno della scatola era diviso in tre scomparti imbottiti: in uno erano incastrate delle strane carte da gioco con uomini donne in vestiti antichi, nell’altro era fissata una pergamena ingiallita, chiusa a rotolo da un laccio nero, nel terzo erano legate tra loro quattro strane carte di formato insolito, più grandi di quelle del mazzo, le figure dipinte avevano abiti medioevali.
L’interesse di qualcuno si puntò sulla pergamena, ancora arrotolata. – Forse contiene le regole di un antico gioco. – Ipotizzò Enzo, pokerista incallito.
Renata invece fu subito attratta dalle carte. – Possono essere collegate a qualcosa di occulto – disse esaminandole. – Le carte hanno figure che ricordano quelle dei tarocchi. Ed è decisamente roba molto vecchia. – Guarda quelle quattro, sembrano anche di valore… – aggiunse Nadia – Non potremo sapere niente, fin quando non avremo tolto il sigillo e dato un’occhiata alla pergamena. – Sentenziò Giovanni.
Poi volse lo sguardo a Vittorio che annuì.
Allora la prese, l’aprì davanti a tutti e osservò: – Che caratteri strani, sembrano orientali. – - Di sicuro non sono arabi. – borbottò a mezza voce Vittorio, che teneva in un angolo della bocca una pipa spenta.
Era il più anziano e il più colto, e godeva il massimo rispetto del gruppo. Chiese di passargli la pergamena da visionare e quindi concluse: – Il documento è scritto da destra a sinistra, forse in ebraico. Conosco una persona esperta in testi antichi. Faremo tradurre da lui la pergamena. – Ovviamente a spese di tutti! – marcò Giovanni.
Ma nessuno protestò, perché ciascuno era ormai preso da una strana euforia e da una smania di sapere.
L’uomo, che insieme al contenuto della scatola era diventato il centro d’interesse del gruppo, si sentiva al settimo cielo, gustava quella insperata celebrità e si leccava letteralmente i baffi.
Si congratulò con se stesso per l’affare fatto e iniziò a raccontare come era venuto in possesso di quel tesoro, ovviamente allargando e infiocchettando la vicenda della sua scoperta.
Fu una serata sicuramente indimenticabile per tutti, una di quelle in cui il Destino incrocia per davvero i suoi piani con quelli degli uomini.
Il ‘servizio d’onore’
Peter tentò di correre più spedito sotto il peso della grande fascina. Nonostante le sue spalle robuste e la forza atletica delle giovani gambe, il carico era eccessivo e la legna ondeggiava pericolosamente sopra la sua testa, minacciando di farlo cadere da un momento all’altro.
Non poteva allungare ulteriormente il passo, se fosse caduto sarebbe stata la sua fine.
Strinse i denti con maggior determinazione, mentre guardava la luce del sole che si lasciava inghiottire dalle nuvole di nebbia appese all’orizzonte appena sopra la radura, purtroppo ancora maledettamente lontana. – Fra poco sarà buio, – si disse con un brivido di terrore – non posso pensare a cosa potrebbe succedermi… – E la mente andava inevitabilmente alle leggende e ai racconti paurosi che ascoltava da bambino intorno al grande camino della casa paterna, prima che cominciasse il suo ‘servizio d’onore’.
Mentre correva, vedeva già il suo corpo disteso per terra e le radici degli alberi che gli si avvinghiavano intorno. Lui cercava invano con la scure di tagliarle, ma queste gli si avvolgevano attorno al corpo come lacci, immobilizzandolo, mentre la terra si apriva e dalle crepe tenebrose i figli deformi dei Tuatha, che abitavano il mondo sotterraneo, avrebbero avuto la loro vendetta.
Lui aveva osato prendere la legna dalla foresta sacra, non lo avrebbero lasciato andare.
Numerosi come le formiche, bruni, pelosi, con le orecchie a punta e la testa calva ed enorme, come quella dei bambini appena nati, lo avrebbero dilaniato a pezzo a pezzo con la loro poderosa dentatura. Peter sentiva già il dolore provocato dai loro denti, mentre fitte sempre più frequenti attraversavano le sue membra. – No, non dovevo venire a far legna in questa foresta maledetta! – Si ripeteva: – Perché, perché ho voluto rischiare? – La risposta però già la sapeva: una tale quantità di legna quest’anno non avrebbe potuto trovarla da nessun altra parte, perché l’inverno era stato freddissimo.
Certo lui aveva avuto molto coraggio ad arrivare fin lì, ma non c’era stata altra possibilità di scelta: era al servizio di Badb, la terribile, che aveva il potere di dare la morte, e il suo comando imperioso non poteva essere trasgredito, poiché quella era la serata degli incantesimi e il fuoco dell’antro doveva avere la massima potenza per tutta la notte.
Terminati gli scongiuri dei druidi, Peter incominciò a pregare con le litanie dei santi, cantate dai monaci del convento: – O buon Gesù aiutami. Santa Madre, per le sue piaghe, assistimi. Anime di tutti i martiri, intercedete per me… – Intanto che la radura si avvicinava, incominciarono a calare le ombre.
Ora se le sentiva venire addosso dal cielo ed appesantire le sue spalle, simili a grandi ali di pipistrello, come quelle degli antichi draghi.
Lui da bambino ne aveva visto uno, se lo ricordava immenso, dipinto con scaglie verdi e gialle sulla parete dietro l’altare maggiore del monastero della contea: aveva larghe ali acuminate e occhi orribili, dalla bocca insieme alla lingua di serpente uscivano fumo e fiamme, e la coda saettante verso l’alto terminava con una punta simile a quella di un arpione.
Lo vedeva già pronto a prendere il balzo e a colpire, nessuno poteva resistergli.
Ma dall’altra parte, su un cavallo bianco, intrepido, c’era anche un cavaliere: l’elmo, la corazza e lo scudo di metallo invincibile lo proteggevano dal fuoco del drago, mentre coraggiosamente avanzava puntando con la lancia al cuore del mostro.
La storia, raccontatagli dai monaci, diceva che alla fine il cavaliere aveva ucciso il drago.
Lui non riusciva a credere che un uomo da solo potesse annientare una bestia tanto enorme e feroce, dotata per lo più di tutti i poteri del male.
Tuttavia l’immagine di San Giorgio, pronto a trafiggere quel demone, come al solito lo rincuorò e gl’infuse forza e coraggio per affrontare gli ultimi cento metri di radura, senza cedere sotto il peso del carico.
La nera apertura dell’antro di Babd ora gli stava davanti, l’odiata caverna gli pareva adesso un’insperata salvezza.
Ne varcò la soglia, attraversò l’atrio appena illuminato dalle lampade a olio, poste in due opposte nicchie scavate nella parete rocciosa, scaricò dalla spalle il peso e incominciò a chiamare: – Beth… Betty, dove sei? Sorellina, sono tornato, vieni ad aiutarmi!
Nessuno gli rispose, ma Peter non si preoccupò: il fuoco sotto il grande pentolone era già acceso, voleva dire che lei era già rientrata in attività.
Anche se forse adesso se ne stava a fantasticare rannicchiata in uno dei tanti cunicoli che collegavano tra loro le grotte.
Quante ce ne fossero lui non lo sapeva, solo Elisabeth e Babd conoscevano gli antri e le stanze segrete, a cui lui non aveva potere d’accesso.
Una volta che lei aveva tardato più del normale, aveva tentato di cercarla tra il labirinto delle gallerie, rischiando di perdersi.
Alla fine l’aveva vista oltre uno spacco chiuso da stalattiti e stalagmiti: era rannicchiata per terra e sembrava dormisse.
Voleva svegliarla dispettosamente con un pizzicotto, ma il suo tentativo di raggiungerla era stato bloccato da una forza simile ad una raffica di bora, che l’aveva costretto a reggersi ad uno spuntone della parete.
Tuttavia riuscì a vedere che in realtà lei non dormiva.
Aveva invece gli occhi aperti, e guardava fisso davanti a sé con un’espressione imbambolata.
I suoi begl’occhi azzurri sembravano persi in un altro mondo.
Peter aveva allora capito che Beth possedeva il grande potere della fantasia, quello che talvolta aveva anche lui, cioè di poter visitare da svegli i propri sogni.
D’allora aveva cominciato a rispettarla, non l’aveva più canzonata, tirandole le trecce.
Poi con gli anni era cresciuto, anche lei del resto non era più la piccola bimba spaurita di una volta.
Il giovane ancora continuava a chiamarla ‘Sorellina’, ma col tempo aveva capito che Elisabeth non era nemmeno lontanamente sua sorella.
Peter sospirò e cominciò diligentemente a spaccare la legna per il fuoco. Ce ne voleva davvero molta, perché la notte degl’incantesimi sarebbe stata lunga. E solo se tutto fosse andato bene, a lui e a Betty sarebbe stato consentito di mangiare e di riposarsi.
In genere Babd non era una padrona esigente, lasciava a loro molto tempo libero e lui ne approfittava per andare al villaggio.
Poi, c’era sempre cibo in abbondanza, anche perché Peter era bravo a pescare le trote del torrente Cenn e a mettere le trappole per le lepri.
‘Sorellina’ cucinava bene, ma non amava il sole, raramente l’aveva vista affacciarsi dall’apertura della caverna.
All’inizio, quando a dodici anni era stato obbligato a vivere lì e a prestare ‘servizio d’onore’, aveva pensato per un po’ di tempo che fosse una pronipote di Babd.
Ma lei gli aveva detto di non avere né figli, né nipoti, e che quella era sua sorella. – Com‘è possibile? – le aveva chiesto – Io nemmeno la conosco quella mocciosa! – Babd l’aveva guardato con occhi terribili, che l’avevano reso quasi di pietra, e puntandogli la lunga unghia dell’indice in mezzo alla fronte, aveva tuonato: – Stupido e insulso ragazzino, che vali meno di mezzo guscio di lumaca, nella quale potrei trasformarti, mettiti bene in testa che Beth è tua sorella! – Quell’unghia sembrò penetrargli nel cervello come un punteruolo, sentì la sua testa molle come il corpo di una lumaca, finché le sue labbra non si aprirono e lui ripeté: – Beth è mia sorella! – E da quel momento per lui fu così.
Mentre aggiungeva legna al fuoco, vide tra le fiamme avanzare un lungo grembiule celeste, scacciò dalla mente i ricordi e disse: – Oggi sei in ritardo, Sorellina! Fra poco Babd si sveglierà... – Gli rispose un suono di voce lontana: – Non temere è già tutto pronto. – Allora Peter tirò finalmente un sospiro di sollievo e si stiracchiò davanti al fuoco.
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