L’abbraccio
“Mi sembrava quasi di respirare, eppure continuavo a morire al pensiero che tu eri di un altro”.
Una voce roca.
Una dimensione lontana.
Il viso di lei sotto la neve, tra le mani di lui, metalliche ma mai così gentili, calde.
“Non m’importa se tra un attimo tutto svanirà, Maria. Mi hai abbracciato”.
Da Asimov all’inferno
Le tre leggi di Testa Dorata
- 1 – Un essere umano non può recare danno a un cyborg, né può permettere che, a causa del suo mancato intervento, un cyborg riceva danno.
- 2 – Un essere umano deve obbedire agli ordini impartiti dai cyborg, purché tali ordini non contrastino con la Prima Legge.
- 3 – Un essere umano deve proteggere la propria esistenza, purché questa autodifesa non contrasti con la Prima e/o la Seconda Legge.
Il Salvatore
“Non so come, un vecchio lapis è piovuto dalla grata e io ne approfitto per scrivere, su dei sassi bianchi e levigati. È l’8 Marzo 2087. Domani quel fottuto cyborg torturerà qualcuno di noi, il più fragile. Forse sarò io. Perché Dio non interviene quando un innocente, un’anima buona patisce le pene dell’inferno? In questi mesi di prigionia non ho fatto altro che chiedermelo, in alcuni momenti ho perfino dubitato che un Dio esista. Mi pare d’impazzire. A cosa posso aggrapparmi? Dov‘è celato il senso di tutto questo, e in quale maniera posso raggiungerlo? Dovrei tapparmi le orecchie a vita per non sentire il doloroso crepitio di questo inferno, le urla della solitudine che abbraccia il mio cuore e, in segreto, quello di ogni essere”.
Eravamo accalcati tutti lì, in una fossa fangosa e fetida. A farci compagnia, di tanto in tanto, enormi scarafaggi volanti e viscidi topi a due teste. A imprigionare i nostri sogni, una grata immensa fatta di piccoli quadrati arrugginiti.
“Eccolo il vostro Salvatore”, urlò il cyborg dalla testa dorata, al centro della grata.
Ciò che apparve, nella prima luce dell’alba, ci lasciò allibiti: c’era un altro cyborg sopra le nostre teste, un cyborg di ultima generazione, spietato e invincibile, con le mani giunte e le sembianze di Gesù.
“Salvatore, fai il tuo primo miracolo”, urlò Testa Dorata.
Due cyborg B, armati di laser letale, furono subito calati nella fossa e trascinarono fuori un uomo ferito ad entrambe le gambe. Lo trascinarono al cospetto del Salvatore e gli ordinarono d’inginocchiarsi, sotto gli occhi esterrefatti degli altri umani.
L’uomo, nudo e ricoperto di piccole piaghe su tutto il corpo, pianse, implorando pietà. Il Salvatore lo fissò senza alcuna espressione, separò le mani e ne posò una, pesante e metallica, sui suoi capelli brizzolati e lerci. Accarezzò la sua testa tremante per due volte, poi conficcò le gelide dita nel suo cervello e strinse…strinse fino a ridurlo in poltiglia.
Testa Dorata ghignò, con aria trionfante.
“Eccolo il vostro Salvatore”, disse.
Molti uomini urlarono, in preda ad attacchi di panico, alcuni giurarono vendetta portandosi le mani al volto, altri pensarono ad addentare il cadavere dell’uomo che i cyborg avevano di nuovo buttato nella fossa, probabilmente l’unico possibile pasto per tutto il giorno.
“Devo fuggire da qui. Se non lo faccio ora è finita, è inutile sperare nell’arrivo delle ultime truppe umane, avranno massacrato anche loro”.
Dopo tre mesi di angosciante prigionia e di vane speranze avevo finalmente preso la mia rischiosa decisione.
Il pomeriggio di quello stesso giorno, infatti, tirai fuori dal mio calzino verde, l’unica cosa che indossavo, una pillola Metas 47, la pillola ideale per simulare una morte improvvisa.
Quel calzino era stato la mia salvezza: vi tenevo una buona scorta di pillole, prelevate dalla mia farmacia prima che i cyborg la distruggessero, e la bruciassero con dentro mio padre.
Trenta minuti dopo averla presa, cominciai ad accusare i primi sintomi: violenti spasmi, schiuma giallastra dalla bocca…Un cyborg B mi vide e riferì tutto a Testa Dorata.
“Può essere qualche malattia infettiva. Toglilo da lì, e buttalo nella discarica del Monte Umano. Mi ci voglio ancora divertire parecchio con quegli schiavi”.
Il cyborg B mi trascinò per i capelli verso un camion pieno di cadaveri di donne e bambini. Mi afferrò per le braccia e, come una marionetta, mi scaraventò sulla pila di corpi maleodoranti. Poi mise in moto. Gli effetti della pillola svanirono pian piano, e durante il tragitto che mi separava dal Monte Umano ritrovai forza e lucidità mentale. Chiusi gli occhi, per non vedere i bambini mutilati, ed estrassi dal calzino una pillola Bruce 74, un farmaco che poteva mettere a forte rischio le mie coronarie e il mio cuore, ma che mi avrebbe regalato per cinque, sei minuti una forza straordinaria, capace di prendere a calci in culo quel cyborg dalla testa nera.
Quando quest’ultimo scese mi trovò con la schiena appoggiata al camion.
“Cerchi me per caso?”
Testa Nera mi si avventò subito contro e mosse la mano per estrarre il laser letale ma, con un movimento repentino, riuscii a bloccargli il polso. Incrociammo gli sguardi per un attimo interminabile poi, con tutta la forza della Bruce 74, gli strappai il braccio e lo scaraventai su ciò che restava di una Fiat Uno grigio metallizzata.
“Questo è per mio padre”, dissi, sferrandogli un pugno che penetrò il suo cuore di latta. Strisciò a terra per qualche secondo, prima di fermarsi dinanzi alla ruota sgonfia di un vecchio scooter.
Nel camion trovai una tuta mimetica spiegazzata e senza perder tempo la indossai, nonostante fosse almeno tre taglie più grande della mia.
Stavo per andare via, avevo già aperto lo sportello rosso del camion, quando giunse alle mie orecchie qualcosa, come un pianto sommesso, un grido d’aiuto soffocato. Proveniva dal Monte Umano, era una giovane donna. Corsi subito da lei e, nonostante gli effetti della Bruce 74 fossero già quasi del tutto svaniti, riuscii a tirarla fuori da quell’orgia spaventosa di morte.
Ci sedemmo a terra, nella polvere, l’uno accanto all’altra.
Le piccole cicatrici che aveva sulle guance e sul mento non m’impedirono di cogliere la sua folgorante bellezza. I capelli castani le scendevano sulle spalle lentigginose, la schiena nivea portava ancora i segni di un’impietosa frusta. Era nuda, infreddolita, stremata. Pensai che qualsiasi uomo avrebbe fatto a gara per morire su quel seno, procace e serico.
“Come ti chiami?”, le chiesi, coprendole le spalle con la giacca della mimetica.
“Mi chiamo Maria. Tu sei un tingan, vero?”
Parlava con un filo di voce. Le lacrime le scendevano ancora dagli occhi grandi e azzurri come il cielo d’Estate.
“Sì, sono un tingan. Hai qualcosa contro i tingan?”
“No, ma pensavo fossero tutti morti, sterminati dai cyborg. ‘Sono suscettibili. Hanno un occhio solo, ma vedono meglio di mille umani. Hanno sempre qualcosa di buono da mangiare appeso alla vita e possono realizzare qualsiasi tuo desiderio’, così vi descriveva mia madre. Lei ha vissuto su Fyn, sul vostro splendido pianeta, per molti anni”.
“Cosa desideri ora?”
“Andare via il più presto possibile da qui”.
“Sai, è anche il mio desiderio…Facciamo in modo che si avveri…”
Le porsi la mano per aiutarla a rialzarsi, ma lei spalancò gli occhi e urlò: il cyborg s’era ripreso e ora aveva l’unico braccio rimastogli attorno al mio collo…Con il volto livido, prigioniero di quella poderosa stretta, riuscii solo ad indicare a Maria il laser letale volato sui resti della Fiat Uno. La ragazza corse a prenderlo e, dopo qualche impaccio nell’impugnarlo, colpì tre volte alla schiena il cyborg. La presa si allentò e caddi a terra, stremato, con la vena lunga della fronte che non la voleva finire di pulsare. Il cyborg rimase spento, in piedi, dinanzi al tramonto. Quasi volesse contemplarlo.
Seppellimmo almeno i corpi dei bambini e delle donne e abbandonammo quel posto terrificante, mentre cominciava a calare una strana e inquietante nebbia rossa. Accesi lo schermo a cristalli liquidi del camion. Trasmettevano uno di quei film tutto cip cip coccole e lucchetti elettronici ai lampioni. Ai bordi della strada, deserta e sterrata, di tanto in tanto apparivano minuscole margherite nere dal lungo stelo bianco.
“Perché volevano ucciderti?”, le chiesi all’improvviso.
“Sono una scienziata”, rispose, con voce rotta dal pianto. “Sono stata io a creare il chip di Testa Dorata…Avresti fatto meglio a lasciarmi là, merito la morte: tutti i mali di questo mondo hanno avuto origine da me…”
“Non mi hai risposto…Perché volevano ucciderti?”
“Perché non gli servivo più...”
Si asciugò le lacrime con un piccolo fazzoletto profumato alla menta, trovato nella tasca della mimetica. La giacca le arrivava qualche centimetro sotto le ginocchia e lei l’aveva pudicamente abbottonata.
“Cosa ne è stato delle ultime truppe umane?”
“Si sono rifugiati su Fyn, sul tuo pianeta. I soldati erano scoraggiati, erano convinti che tutto ormai fosse perso. Tu cosa intendi fare?”
“Ruberemo un’astronave Bluster, la più veloce che ci sia, e ci dirigeremo spediti verso Fyn. Proverò a convincerli che c‘è ancora qualche speranza”.
“Ma le astronavi sono nell’area 23, quella di fronte al palazzo reale…Se ne stanno rintanati lì Testa Dorata e il Salvatore…”
“Sì, è rischioso. Capirei se tu volessi tirarti indietro, ma io proverò lo stesso. I cyborg sono convinti d’aver già vinto, non ci saranno molte guardie a protezione delle astronavi. Devo tentare, Maria”.
“Non mi tirerò indietro”.
Sorrise per la prima volta, guardandomi, e l’oscurità che avevo dentro per un attimo svanì come per incanto.
Come avevo previsto, c’erano solo due cyborg B nell’area 23, a protezione delle astronavi e soltanto uno era armato di laser letale. Ci rifugiammo dietro una Wing 3PO, un’astronave di grandi dimensioni e ben armata, ma di ridotta velocità. Stavo per prendere la mira e far fuori il cyborg armato, quando la finestra del palazzo reale mi abbagliò.
Vidi il Salvatore sorridere, un sorriso indubbiamente diverso da quello che avevo visto quand’ero ancora prigioniero, un sorriso puro, pieno d’armonia…Non so chi e cosa vidi quel giorno, ma dopo anni di tribolazioni in cui avevo visto sterminare i miei simili, quel lancinante senso di solitudine che per troppo tempo mi era stato compagno mi abbandonò, e mi sentii davvero felice di essere ancora in vita, di essere l’ultimo tingan rimasto.
Cercai di scuotermi: dovevo agire e in fretta.
Mirai al cyborg armato e lo stesi al primo colpo, ma l’altro lo mancai. Lo vidi premere un puntino luminoso alla sua sinistra, dopodichè una sirena assordante rimbombò nelle nostre orecchie.
Maria tirò su il cappuccio e il suo bel viso scivolò nel buio.
Corremmo verso la Bluster più piccola: grazie all’ultima Bruce 74 forzai il portello d’entrata e, dopo aver fatto entrare Maria, accesi il motore, impostando la massima velocità.
Finalmente ci alzammo in volo e lasciammo spediti la terra dei cyborg, decisi a tornarci con le truppe umane per sferrare l’ultimo, disperato attacco.
L’eterno tramonto di Fyn
“Manca un solo giorno all’arrivo su Fyn. Maria dorme. Credo che non riuscirò a convincere le ultime truppe umane a tornare sulla terra. Non abbiamo nessuna speranza, questa è la verità. Eppure qualcosa dentro mi dice di tentare, almeno, se riuscirò a convincerli, moriremo combattendo. Non riesco a dimenticare il sorriso di quel cyborg: mi chiedo se Dio fosse davvero in lui quando l’ho visto. Quell’immagine mi dà coraggio”.
Il tingan
“Negli ultimi mesi ho compiuto crimini orribili, spero qualcuno riesca a fermarmi, io non posso più. Il lato oscuro ha prevalso. Credimi Maria, non volevo arrivare a questo punto, tutto ciò che volevo era diventare un uomo, per poterti amare e rendere felice. Tu invece mi hai creato e poi respinto, segnando non solo il tuo destino ma quello dell’umanità intera. C‘è ancora una speranza…quel tingan, sento che lui può riuscire nell’impresa. Se da lassù mi stai guardando, prova a perdonarmi, almeno tu”.
Il cyborg dalla testa dorata
Maria aprì gli occhi e il mio piccolo cuore di tingan s’illuminò.
“Moriremo, vero?”, fu la prima cosa che disse.
“E anche se fosse? Non devi aver paura della morte”.
“A parole è tutto così facile…Come si fa a non averne paura?”
“La morte spesso non possiamo combatterla, ma possiamo darle un senso, combattendo fino all’ultimo respiro per un giusto ideale”.
“Non so se definirti pazzo o saggio. Siamo arrivati: eccolo il tramonto eterno di Fyn. Il tuo pianeta è splendido”.
“Lo è anche il localizzatore di questa Bluster. Abbiamo fatto bene a sceglierla, mi sta già segnalando la posizione dell’astronave N 41 usata dalle truppe umane. Dobbiamo raggiungerla al più presto”.
Lasciammo l’astronave in un immenso campo dorato accarezzato dal vento, sotto un cielo color porpora di cartoline spedite. Per una clessidra virtuale e mezza percorremmo un lungo sentiero sterrato; a farci compagnia solo qualche fiore iridescente di cui non conoscevo nemmeno il nome, e un silenzio carico di pensieri e angosce.
Raggiungemmo un piccolo centro abitato da esseri umani e da wokis, pacifiche creature dai piedi palmati e dall’esile corpo completamente ricoperto di morbidi peli grigi. L’intelligenza di queste creature era inversamente proporzionale alla loro statura: era stato un wokis, dopo secoli di ricerche, a scoprire la cura definitiva per i tumori e le leucemie fulminanti. Troppo tardi per salvare mia madre, morta quand’ero bambino.
Strinsi la mano di Maria e, insieme, guardammo il localizzatore mobile prelevato dalla Bluster. Ci segnalava la N 41 subito dopo quel piccolo centro abitato. Non appena alzammo gli occhi, vedemmo un nomade umano con una tromba dorata dare fiato in strada al dolore di ogni creatura. Un bimbo vestito di stracci pian piano lo seguiva, seguiva quelle note struggenti. Il bimbo aveva un flauto azzurro in tasca e la mano tesa.
Piovve una moneta abbagliante dal balcone scrostato di un wokis.
L’astronave, ora, era davvero a un passo.
Erano lì le ultime truppe umane, accanto a ciò che rimaneva di una vecchia astronave N 41. Una trentina di soldati in tutto. Il comandante, con la divisa sbottonata e sudicia, dormiva accanto a una bottiglia svuotata di Stock 3000. Più della metà dei soldati erano ubriachi e giocavano a colpire con la pistola laser un piccolo e contorto ramo dipinto di rosso di una grande quercia abbattuta.
L’unica donna del gruppo ci venne subito incontro; aveva orecchie lunghe e appuntite e, negli occhi azzurri e gelidi, tutta la logicità dei vulcaniani.
“Sono il sergente Scott. Chi siete?”
“Siamo solo… quelli che vi convinceranno a tornare sulla terra per battervi e, se serve, morire per liberarla dai cyborg”.
“Voi siete pazzi. O forse solo ciechi. Guardate in che stato sono ridotti i soldati e il comandante: non avremmo nessuna possibilità. Trentatrè soldati contro centinaia di cyborg…Questo non è un racconto epico mio caro tingan, stavolta i buoni non possono vincere”.
“Io credo di sì invece. Ascolti quello che ha da dire la mia amica”.
“Mi chiamo Maria Rossum. Ho creato io il chip di Testa Dorata”.
“Non vedo come quest’informazione possa spingere me e gli altri soldati a tornare sulla terra per
farci massacrare”.
“Se costruiamo un frequenziometro acustico per chip Au 27, con delle vibrazioni particolari possiamo mandare in tilt la testa dei cyborg per circa due clessidre virtuali e mezza, e sferrare così in quel lasso di tempo l’attacco decisivo”.
“E lei parla soltanto adesso, dopo aver fatto massacrare migliaia di uomini?”
Maria tacque e guardò il ramo rosso della grande quercia.
“Tornare indietro è inutile. Ora dobbiamo agire e basta”, dissi con tono lapidario. Porsi la mano alla vulcaniana che non esitò a stringerla, mentre il comandante continuava a russare, e a borbottare nel sonno di una donna e di un amore mai esistito.
Passata la sbronza, il comandante Anel m’invitò ad entrare nella N 41. Nel cielo dell’eterno tramonto era apparsa una falce di luna. Un alito di vento fresco scuoteva i petali azzurri di una rosa dallo stelo lungo e dorato, ai piedi di un soldato in lacrime. Piangeva, al solo pensiero di dover ripartire e combattere.
“Il sergente Scott mi ha parlato dei suoi propositi”.
Il comandante Anel era alto quasi due metri; aveva orecchie a sventola e un naso aquilino. Nei suoi occhi verdi lessi subito un vuoto e una solitudine senza confini.
“Spero, comandante, che i miei propositi possano coincidere presto con i vostri”.
“Risparmi le parole, ho già deciso: verremo con voi e proveremo ad abbattere una volta per tutte quei fottuti cyborg. Sia chiaro, non lo faccio per la sua brillante capacità di persuasione, non credo vi siano reali possibilità di uscirne vivi. Lo faccio perché da quando siamo arrivati su Fyn non abbiamo più vissuto, e c‘è una parte di me che ogni sacrosanta mattina mi chiama vigliacco. Tutto è meglio di questa sensazione e di questo vuoto, perfino la morte.”
La N 41 fu riparata in fretta e furia da Neil, un caporale sordomuto dalle mani unte e miracolose.
Il giorno dopo eravamo già in viaggio, verso la terra dei cyborg. I volti emaciati dei soldati, tranne quello di Scott, straripavano di paura e smarrimento.
Kohshi, Basho e Shiki, i tre soldati gemelli giapponesi, si tenevano per mano fissando la rosa azzurra e tremante tra le mani del soldato Anakin; quest’ultimo aveva di nuovo il viso pallido solcato da una lacrima luminosa, come lo stelo dorato e spinoso della rosa che portava sempre con sé.
“Stai tranquillo”, disse Kohshi ad Anakin, in tono rassicurante. “ Tornerai presto dalla tua ragazza e ti sposerai, come avevi progettato. Ti avviso, io al ricevimento voglio essere invitato!”
Anakin sorrise, ma non poté non continuare a chiedersi che ci facesse lui, un poeta, nel bel mezzo di una guerra tra umani e cyborg.
“Cosa facevate prima di arruolarvi?”, chiese timidamente.
“Gli acrobati al circo”, risposero in coro i gemelli.
Qualche metro più in là, in un angolo silenzioso dell’astronave, il soldato nano scaricava la tensione smontando la sua pistola laser. I suoi occhi grandi e castani sembravano poter cacciare scintille da un momento all’altro e la barba lunga pareva strappata al diavolo in persona.
Maria lavorava alacremente al frequenziometro. La luce era fioca.
Entrai nella sua stanza con passo silenzioso, senza che lei se ne accorgesse, e decisi di fare quello che avevo desiderato dal primo momento in cui l’avevo vista. Le carezzai la nuca, con una dolcezza per me innaturale. Lei si voltò e io poggiai subito le mie labbra sulle sue. Fu come cogliere tutta l’energia dell’universo e delle creature che lo popolavano, in un solo, meraviglioso istante.