Racconti di una vita vissuta con passione

di

Antonio Proni


Antonio Proni - Racconti di una vita vissuta con passione
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa
14x20,5 - pp. 190 - Euro 13,50
ISBN 9791259513540

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In copertina immagini dell’autore


I fatti e i personaggi citati nei racconti sono libere e soggettive rielaborazioni dell’autore Nota biografica


Attraverso una serie di racconti, l’autore passa in rassegna tutti i momenti salienti della sua vita sia in Italia che all’estero. Ne nasce una sorta di rivisitazione dove il lettore potrà cogliere tutti gli aspetti di quella ampia e diversificata umanità con cui è venuto in contatto l’autore e la passione con cui tali aspetti sono stati vissuti: dai viaggi al paradiso comunista, dal principe Eugenio allo jettatore, dai bordelli tailandesi alla “grande” Germania, dai buongustai ben pasciuti ai missionari della povertà e così via.


Terminata una fase importante della propria vita, nasce il desiderio di ripercorrere criticamente gli eventi salienti che l’hanno caratterizzata: dall’infanzia alla giovinezza, dalla maturità alla pensione.
Questo percorso all’indietro è realizzato attraverso questi racconti che, in alcuni casi, ripercorrono cronologicamente le fasi importanti della vita, in altri citano fatti e personaggi singolari incontrati durante la medesima.
Lo scopo è quello di rivisitare criticamente gli avvenimenti e i fatti, non già per rimediare agli errori commessi, dato che la vita, purtroppo, non dà questa possibilità, ma per trasmettere queste riflessioni a chi abbia voglia di ascoltarle. Ciò perché si possa sempre tener conto della scala di valori che adottiamo nel corso della nostra esistenza e conseguentemente degli obiettivi che ci proponiamo per perseguirli.


Racconti di una vita vissuta con passione


CASA DEL POPOLO O PARROCCHIA?

“Il primo dovere di un uomo è essere sé stesso”.
(Henrik Ibsen)

Io sono stato un bambino fortunato. è vero che mio padre era un operaio che lavorava solo alcuni mesi dell’anno e che mia madre era casalinga e quindi le risorse disponibili in famiglia erano assai limitate, ma i miei genitori non me lo hanno fatto mai percepire e quindi io non sapevo nulla della vita grama che conducevano. Ricordo le due stanzette in cui abitavamo in affitto a Granarolo, in Romagna: una stanza per mangiare e una per dormire, con una superficie totale di circa trenta metri quadrati e senza acqua corrente e bagno. Per l’acqua corrente provvedevo generalmente io, andando alla fontana della piazza del paese a prenderne un secchio per volta, mentre per il gabinetto, lontano alcune decine di metri dall’abitazione… è meglio soprassedere. Eppure io ricordo con una certa nostalgia quei tempi spensierati, quando l’andare a prendere l’acqua in piazza mi consentiva anche di giocare ai quattro cantoni presso il monumento ai caduti con i compagni o quando con la mia bicicletta usata gareggiavo intorno al viale della stazione o intorno al ponte per stabilire il record del circuito.
I genitori di mio padre, emigrati nel 1905 nell’impero austro-ungarico, dove avevano avviato una fiorente attività nel campo dei marmi, erano stati costretti al rientro in Italia con tutta la famiglia all’entrata in guerra dell’Italia contro l’Austria nel 1915. Mio padre, che allora aveva nove anni, era stato messo a fare il garzone presso una famiglia di contadini per non pesare sui genitori, ormai senza più risorse.
Non avendo frequentato scuole italiane, ma solo scuole straniere, era praticamente analfabeta, anche se aveva imparato a leggere e scrivere alla buona, da solo.
Nel dopoguerra cominciò a lavorare come muratore in una cooperativa del luogo e la sera, dopo il lavoro, andava a costruire gratuitamente con altri compagni, comunisti e socialisti, la casa del popolo che doveva rappresentare il luogo di riferimento per le persone di sinistra del paese in antitesi con la parrocchia e l’oratorio.
La casa del popolo venne inaugurata alla fine degli anni ’40 in un tripudio di bandiere e fazzoletti rossi.
Era una struttura spaziosa, dotata di ampio bar, gioco delle bocce, biliardo, locali per riunioni e di una sala cinematografica, dato che i compagni si proponevano di acquisire la licenza per la proiezione dei film. Il prete della parrocchia, però, non dormiva e andando a Roma, riuscì ad avere la licenza prima di loro. Essi dovettero quindi riconvertire la sala cinematografica in sala da ballo, a quei tempi definita “sala del peccato” dagli oppositori politici, e così aumentò la conflittualità fra i due schieramenti.
Quasi ogni sera d’estate mio padre, dopo il lavoro, mi portava con orgoglio alla casa del popolo. Il nostro divertimento era guardare gli altri che giocavano a bocce e consumare un quartino di vino bianco dolce del quale anche io, di nascosto a mia mamma, bevevo un mezzo bicchiere.
Mia madre non era molto contenta che io frequentassi la casa del popolo, dove talora girava qualche parolaccia o qualche bestemmia e mi spingeva a frequentare l’oratorio la domenica. Del periodo della dottrina, la domenica pomeriggio, ricordo un banchetto gestito da una signora sempre vestita di nero, magrissima e allampanata, con un fazzoletto nero che le raccoglieva i capelli e con una barba incipiente e per questo soprannominata “la barbata”. Ella appariva verso le 13.30 a un angolo fisso della piazza in corrispondenza dell’orario della dottrina e poi scompariva misteriosamente con il suo piccolo banchetto poco dopo la fine della stessa.Vendeva dolcetti e simili ghiottonerie e io avevo la domenica sempre dieci lire pronte per poter comprare quelle leccornie… certamente di dubbia qualità dal punto di vista igienico.

E non ho dimenticato il sacerdote della parrocchia don Giuseppe, un prete tutto di un pezzo di cui ho sempre ammirato, oltre che le sue battaglie basate sulle sue ferme convinzioni, lo stile dotto, autorevole, mai banale delle sue prediche dal pulpito alla messa della domenica. Come dimenticare la processione per la festa del Corpus Domini, rigorosamente organizzata nella sua partecipazione e nel suo percorso, con i disegni sacri a terra fatti con segature colorate che suscitavano la mia ammirazione? E quando al liceo ebbi bisogno di una presentazione per lavorare, nei tre mesi estivi, allo zuccherificio del paese, don Giuseppe non si tirò indietro, pur provenendo io da una famiglia comunista.
Dall’altra parte c’era il sig. Domenico, segretario della sezione locale del P.C.I., operaio che, dopo il lavoro, cominciava la sua intensa attività politica distribuendo giornali, affiggendo manifesti, organizzando riunioni, sempre in giro con la sua bicicletta ed una sporta di paglia smunta (almeno così me lo ricordo) con cui distribuiva i suoi materiali di propaganda e… le sue idee.

Entrambi, pur da posizioni avverse, perseguivano e lavoravano per un’idea: per questo, quando vedo i film di don Camillo e di Peppone e quelle contrapposizioni, raccontate magistralmente da Giovannino Guareschi, mi ritorna alle mente quel periodo e ripenso con ammirazione e nostalgia a quegli uomini veri che lottavano, non per convenienza personale, ma per un ideale, sia che esso fosse più spirituale o più concreto.
Per questo mi sono definito un bambino fortunato: quanta umanità coglievo in tutte quelle persone, semplici e onesti lavoratori che, al di là delle idee che professavano, perseguivano e praticavano valori comuni quali la dedizione al lavoro, l’onestà, l’amore per la famiglia, valori universalmente validi al di là delle loro idee divisorie!
Poi, negli anni Settanta, vennero le Regioni e con l’autonomia regionale avvenne un miracolo in Emilia Romagna: alcuni giovani, che militavano dalla parte di don Camillo, erano stati folgorati sulla via di Damasco e si erano convertiti all’altra! Ci fu anche qualcuno che fece, nel partito appena abbracciato, una carriera politica folgorante, portando in esso tutto l’ardore del neofita. Ideali o altro? Chi può dirlo?
Nel frattempo io, con la mia sudata laurea in chimica industriale, ero ormai partito dalla Romagna, dove avevo trovato soltanto lavori precari ed ero andato lontano a lavorare in territorio lombardo, a Milano.


L’OROLOGIO

“La ricchezza non consiste nell’avere grandi cose,
ma nell’avere piccoli desideri”.

(Epitteto)

Non molto tempo fa, ho avuto occasione di rimettere a posto gli orologi di casa. Ne avevo di tutti i tipi e ognuno di essi ha rappresentato una fase ben precisa della mia vita e contemporaneamente una evoluzione della tecnologia del settore: dai tecnologici semplici a quelli più sofisticati di fabbricazione giapponese o coreana a quelli tradizionali economici o più costosi di produzione svizzera.
Ne ricordo uno, particolarmente tecnologico per quei tempi, di produzione giapponese, che poteva memorizzare ben cinquanta numeri di telefono (siamo agli inizi degli anni ’80) e che avevo comprato in Germania all’aeroporto di Francoforte, durante un viaggio di lavoro. Questo orologio mi fece fare un figurone negli Stati Uniti quando all’aeroporto di Boston il nostro corrispondente americano del marketing dovette parlare dagli Stati Uniti all’ufficio di Londra per definire un prezzo di vendita di una fornitura di gomma. Egli, non avendo con sé il numero di telefono, rimase stupito che io avessi, nel mio orologio, i numeri di tutte le filiali della società. Ora questo orologio, nell’epoca degli smartphone, farebbe ridere, ma allora mi fece fare un figurone, in più in America e con poca spesa.
Ce n’è uno però che ho tuttora davanti a me sulla scrivania, perfettamente funzionante che risale a oltre sessanta anni fa e che è appartenuto a mio padre.
Mio padre in realtà, per buona parte della sua vita, non aveva posseduto orologi, perché diceva che non gli servivano per il suo lavoro di muratore e che anzi un orologio lo avrebbe intralciato e si sarebbe sporcato. In casa c’era soltanto una vecchia sveglia, inserita in un piccolo mobiletto di legno che lui stesso aveva fabbricato e che segnava l’orario della giornata per la famiglia; per il resto, erano il sole o il campanile che, fino all’età di dieci anni, hanno segnato le sequenze del nostro vivere quotidiano. In realtà, il problema era che mancavano soldi per il superfluo e a quei tempi, lo capii dopo, l’orologio portatile poteva essere superfluo. Avvenne dunque che mia zia Sita, residente a Ginevra, forse stupita del fatto che mio padre fosse l’unico dei fratelli a non avere l’orologio, in uno dei suoi viaggi in Italia, gli regalasse un orologio da taschino con catenella di acciaio. La marca era “Titus Geneve”, un marchio di fabbricazione tuttora esistente e prestigioso e allora avreste dovuto vedere con quale accuratezza, la domenica pomeriggio, mio padre indossava questo orologio che mostrava soddisfatto agli amici e compagni, dicendo loro che veniva dalla Svizzera. Tutti volevano vedere e lodavano compiaciuti questo orologio silenzioso e preciso che scandiva il tempo con una precisione… svizzera, appunto. La sua vita era cambiata e la misura precisa del tempo cominciò ad essere un valore importante anche nella nostra famiglia.
Dopo qualche anno, però, quell’orologio gli cadde, non so per quale improvviso movimento, dato che mia madre aveva fatto una apposita tasca interna alla giacca per riporvelo. Esso fu portato a riparare con tutte le cure, come fosse un malato di grande importanza. Fu riparato da uno specialista del luogo, ma non era più quello di prima: d’estate andava indietro, in inverno avanti, probabilmente perché, essendo stato cambiato il bilanciere originale con uno di qualità inferiore, questo era troppo sensibile alla escursione termica. Mio padre, però, continuava a portarlo con immutato orgoglio e con grande soddisfazione.
Ora questo orologio, riparato a dovere e perfettamente funzionante, è sulla mia scrivania davanti a me, nella sua custodia originale di cartone precompresso e anche se non è l’orologio più prezioso che ho, è certamente quello a me più caro.

[continua]


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