Opere di

Yuleisy Cruz Lezcano


Con questa opera è risultata 5ˆ classificata nella XVII Edizione del Premio Letterario Città di Melegnano 2012 – Sezione narrativa


Questa la motivazione della Giuria:

«Le taniche gialle sono il simbolo della grande madre terra, l’Africa, che nella sua ardua sopravvivenza, nei suoi terribili contrasti, nella sua arcana e selvaggia bellezza, è pervasa in questo racconto di soave dolcezza.
Bisogna forse aver toccato quel suolo così crudo e ammaliante per comprendere fino in fondo la squisita e pura poesia di questo scritto, bisogna come me e l’autrice aver visto quei bambini ridenti, sgomenti e scintillanti sotto il sole, andare al mattino a rifornirsi di acqua con le taniche gialle, per espandere internamente questo simbolo così piccolo all’apparenza, ma così intenso e trasparente dinanzi al mondo intero.
Lo splendore dell’Africa, che muore, che di nulla vive, ma che sorride come il piccolo Monchin dalla foto di un’adozione a distanza dell’autrice, la convince a partire volontaria per vivere questo mistero, questa inenarrabile odissea di un mondo dimenticato e negletto ma vivo e pulsante, e mai stanco di combattere la miseria, la fame, la sete, le malattie. E i suoi bambini che trasportano le taniche gialle piene di preziosissima acqua, trascinandole sulla calda e arida terra rossa, diventano sacri, depositari della cultura più vecchia del mondo, da cui noi tutti proveniamo ancestralmente, ma che in occidente non vediamo, un’umanità che è il futuro, e che ci addita la strada della consapevolezza e della giustizia sociale.
Ognuno di noi, dovrebbe portare almeno una volta nella vita una tanica gialla, per capire il valore dello sguardo incantato di un bambino, nudo di tutto, ma non del suo sorriso. Bravissima l’autrice».

Alessandra Crabbia


Le taniche gialle

Le popolazioni africane hanno le taniche gialle come simbolo: non esiste, infatti, oggetto che si trascini così rapidamente.
Dopo tanta fatica, sentire l’acqua scorrere, regala una gioia che rapisce e fa comprendere che il bisogno di questo liquido vitale è tangibilmente sopra di noi stessi.
I bambini ogni giorno compiono migliaia e migliaia di passi, trascinando le taniche gialle; e il calendario segna nel frattempo sei, dieci anni con una croce sulle presenze che documentano i giorni di frequenza alla scuola di sopravvivenza. Lì ciascuno impara come il palpitare della natura lascia spazio alla volontà di vivere. Sentire il passaggio del liquido prezioso lungo la gola sottrae dalla fatica e dall’affanno e fa anche “sorridere”. Non è un banale oggetto del desiderio ma è un bene imprescindibile, la sua ricerca è una pratica quotidiana che evoca tuttora in certe popolazioni l’intima relazione che ci vincola al soddisfacimento di un bisogno.
Il bisogno non si riduce a placare il piacere dei sensi, non è nemmeno un rito, anche se certe persone danno per scontato quello che per gli altri è una fatica. Si trascura a volte l’opportunità di trasformare le piccole cose in grandi cose. È un modo di deviare il sentiero che porta verso gli altri e così si smarrisce, strada facendo, il sentiero che conduce alla solidarietà verso la nostra specie. Oltre che allontanarsi nel tempo, la storia a volte allontana dalle coscienze delle persone; lo scenario contraddittorio porta le immagini quasi vintage lontano dalla sensibilità, insinuando forse il dubbio che sia un fenomeno lontano di una piccola nicchia di pochi sfortunati. Chissà cosa filtra di questa battaglia, divenuta silenziosa al mondo occidentale? Le riflessioni di un ecosistema urbano sostenibile si aprono come una sorta di codice puntuale che va oltre lo stile, ma richiede sostanza.
Descrivere le immagini con tutte le emozioni che arrovellano la mente e il cuore, in un modo che fa attorcigliare il nodo dentro il petto, può svegliare la curiosità e la voglia di mille domande. Ora chi sta leggendo le riflessioni si può fare un’idea di cosa succede e dei suoi perché. Allora ci si può chiedere: la società è diversamente presente, oppure sa ascoltare?
Se quando compiamo il nostro piccolo tragitto quotidiano, facciamo un tuffo nella nostra interiorità più profonda o nella memoria della nostra infanzia, cerchiamo a volte di capire le convergenze fra quanto eravamo e quanto siamo diventati. Le immagini del passato più o meno lontano ci arrivano come onde magnetiche a luci soffuse. Le immagini della realtà di questi bambini sono così diverse, ma arrivano come una parata di tamburi che si sovrappone al ritmo del cuore e, in modo chiaro e forte, cambia qualcosa nei cuori sensibili.
Da qui, se si guarda l’aria concentrando l’attenzione, si percepisce l’energia del calore del sole come una gelatina trasparente che fluttua e a volte, a contatto con i corpi, fa sentire il peso della sua potenza. L’energia stellare si fa viva con la stessa potenza dall’altra parte del mondo, ma i bambini non interrompono il loro viaggio sotto il sole rovente, e portano oltre alla speranza, il gravoso peso delle calzature fatte dai propri talloni dolenti.
Le taniche gialle alla luce solare risplendono tutti i giorni come un falò e rappresentano il simbolo della volontà di vivere.
Questo paese lontano ci sta così vicino, però può scomparire piano, portando nel libro della storia l’evoluzione dell’umanità, fino a cancellare le sue impronte.
Inutile rastrellare con i segugi le impronte del dolore per capire la fine di una civiltà, basta scavare nel cuore occidentale per trovare la mappa della solidarietà umana. Questa terra, come il deserto, è di una bellezza terribile! Noi tranquillamente guardiamo seduti la guerra di quei bambini, con un amore compassionevole e lontano. Una mano tesa, ridotta allo stretto necessario, è soltanto un calcolo minimo e inesatto di una realtà, combattuta ogni giorno; l’urlo breve ritaglia il futuro di un’infanzia fugace, che si raccoglie nell’anima a ogni luna. Da lì, nei territori di nessuno, dove il silenzio s’impone all’ingiustizia, camminano i bambini africani, con gli sguardi ardenti, sulla calce viva bruciano la fantasia a ogni passaggio. Ai primi raggi del sole inizia il viavai, i piedi nudi smontano i sogni, e la distanza dall’acqua fa sentire l’erosione del tempo e ossida quelle piccole ossa senza nome. Come schivare la sorte e bruciare con il sole le lacrime? Come salvare l’innocenza che si perde fra la polvere del cammino? Il loro viso, segnato da una pazienza incerta, con due gambette scomposte come cera, racconta la loro leggenda in una ruga sulla linea della vita.
La realtà appare attraverso una raccolta fotografica, lui un viso fra tanti ma con un nome che non avrei mai più dimenticato. Vedendo le foto mi sembrava così tanto familiare e il suo nome gli stava pure bene; uno con il nome Opara Dupe Monehin non poteva che avere quel viso. La sua immagine mi aveva colpito talmente tanto che a un tratto ha preso forma questa storia.
Da quel paese lontano arrivava la corrispondenza che mi comunicava i suoi progressi; le foto aprivano una breccia nel mio cuore e ogni volta cerco di decifrare in quel viso un carattere, dei pensieri; mi chiedo chissà cosa desidera e cosa lo fa ridere. Dall’ultima foto sembrava così simpatico, allegro. In quella posa sbarazzina, con le gambe aperte, i piedi all’infuori, logicamente scalzi; restava in equilibrio grazie alle ginocchia leggermente piegate. Il busto era sistemato all’indietro, con la testa inclinata da una parte, le braccia erano aperte con le dita in posa come se dirigesse un’orchestra e le piccole mani scure sembravano un caldo invito; mostrava i suoi denti bianchissimi in una risata che risaltava sullo splendore della sua pelle scura, e i suoi occhi scuri, scintillanti, irati, assorbivano l’attenzione come una spugna. I suoi vestiti erano stracci colore terra rossa, impolverati. Sembrava quasi dire: io sono felice alla faccia di voi ricchi. Nella foto dietro la sua immagine si potevano osservare i colori genuini della nostra madre “Africa”. Dalla prima foto che avevo ricevuto, sembrava un altro bambino; probabilmente in sei mesi, dopo che avevo iniziato con il progetto di adozione a distanza, qualcosa di buono avevo combinato. Ero così entusiasta che ho deciso di partire, volevo a tutti costi controllare le radici del mio piccolo impegno.
Lungo il viaggio verso l’Africa la ricerca della verità si perse a mano a mano che proseguivo nel mio cammino; al mio arrivo non incontrai quel sorriso, c’erano tanti Monehin, lui era in mezzo a tanti altri bambini, e non capii mai quale di loro fosse. Tutti i bambini insieme erano una piccola squadra di uccellini intabarrati, che si proteggevano alla meno peggio, l’uno con l’altro. L’eterno respiro della vita, in quel contesto, era soltanto polvere di nebulosa.
La prima notte che trascorsi in quel piccolo abitato, la mia decisione smagliante e tempestiva bussò alla mia porta svegliandomi da un lungo sogno, inghiottita dai pensieri, come se avessi in qualche modo scavalcato la soglia del “non ritorno”. L’ombra di quei corpicini esili, svolazzando attraverso il mio mondo trasognato di fantasia, mi portò via il sonno, per lasciare cadere le mie preoccupazioni in quella realtà dura e senza lacrime.
Il giorno dopo comunicai la mia decisione di rimanere, e da allora do un valore al presente sminuzzato, senza infanzia, di questi bambini che hanno un nome, perché nel mondo, che ci crediate o no, ci sono molti Monehin. In questo luogo diverso, di una bellezza così difficile e genuina, posso alzare le ali avvolte da teneri colori madreperla con riflessi azzurri come il cielo, perché ogni piccola conquista mi fa sentire un angelo. Finalmente ritrovo un significato nell’intreccio di giorni della mia vita, riesco per contrasto ad assaporare le piccole gioie, che purtroppo qui durano lo spazio di un attimo. Ma è talmente folgorante il sole di un sorriso, che sento che penetra dentro il mio spirito, lo fende e lo ricopre di gioia, più preziosa della polvere d’oro, perché capisco finalmente la vera essenza della vita. Vedo crescere i boccioli, con steli che si ergono dignitosi, e senza capire tutto, capisco semplicemente che è qui il mio posto.
La polvere del cammino sembra innalzarsi per vagabondare nel cielo e spinge i miei pensieri a passioni non espresse che saltano fuori all’improvviso. Amo questo popolo portatore di un’alba che fa cadere in frantumi la crosta ruvida dei cuori insensibili. I bambini africani sembrano delle farfalle con le ali aperte, si aggrappano ai petali per evitare che la povertà polverizzi la loro fantasia.
Ogni giorno abbraccio un bambino e faccio mia quella realtà, respirando a pieni polmoni un’aria diversa, così pura. La mia missione si compie quotidianamente con una semplicità nuda e forte come i piedi di questi bambini. Il mistero si svela a ogni momento quando comprendo che sotto quel cielo insondabile tutto brulica di gioia e di volontà di vivere. Molto spesso mi sono sentita sola e mi è sembrato di affogare in questa esperienza, ho vissuto il dolore di qualche Monehin innocente, che esaurisce la vita in un breve vibrato di suono, ma la forza di volontà mi prosciuga le lacrime; un istante prima sopporto un enorme peso incombente e l’istante dopo tutto mi sembra leggero.

P. S.: Grazie a tutti i bambini con un volto vero, che si chiamino Monehin o meno; grazie per il sorriso di ogni mattino.



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