Opere di

Willy Piccini


Con questo racconto è risultato 2° classificato – Sezione narrativa nella VIII Edizione del Premio di Scrittura Creativa Lella Razza «Frammenti di memoria: una donna straordinaria»


La memoria come attesa. Donne che non dimenticano, e noi non dimenticheremo

“The times they are a-changin’” anticipava già nel ’64 Bob Dylan. E tutti dietro, con i no alla cultura nozionistica ed alla vecchia scuola; no alla famiglia con le sue castrazioni; no al consumismo ed agli inganni di una società fondata sul capitale. Si volevano buttare a mare quelli tradizionali per far posto a nuovi miti quali il Vietnam, la rivoluzione culturale cinese, Che Guevara, la primavera cecoslovacca, la rivolta afro-americana negli States. E si credeva anche a Shel Shapiro che affermava: “ Quante volte ci hanno detto sorridendo tristemente/ le speranze dei ragazzi sono fumo./ Sono stanchi di lottare e non credono più a niente/ proprio adesso che la meta è qui vicina./ Ma noi che stiamo correndo/ avanzeremo di più./ Ma non vedete che il cielo/ ogni giorno diventa più blu./ È la pioggia che va, e ritorna il sereno”.
Sogni di gioventù di cui ci è rimasto molto poco. Siamo cambiati noi, è cambiato il mondo, entrambe le cose probabilmente. Diciamo pure che non riusciamo a comprendere un mondo che sembra non avere avvenire perché non ha proposte per i giovani. Non ha memoria perché mette i vecchi nella spazzatura. Non ha attenzione perché schiaccia distrattamente bambini, handicappati e tutti i deboli. Non ha spazio perché invade e distrugge la natura. Non ha tempo perché è tutto appiattito nel presente, senza speranza. Ed a noi rimane la memoria di quello che abbiamo vissuto, ma ci sembra che non potrà servirci per il futuro, forse ci sentiamo sconfitti anche se ci piace citare Marx. Non Karl, naturalmente, ma Groucho, quando dice: “Ricordare il passato serve per il futuro, così non ripeterai gli stessi errori; ne inventerai di nuovi”. Eppure c’è qualcuno, lontano da noi, che non dimentica, che vive la memoria come attesa…
Siamo stati a Buenos Aires un paio d’anni fa. A lato del cimitero dov’è sepolta Evita Peron, che un buon musical continua a rievocare, c’era una mostra che ricordava i trentamila desaparecidos. Maria Teresa che quegli anni li aveva vissuti, non volle nemmeno entrare, era troppo straziante. Tantissime gigantografie ci facevano vedere immagini di giovani, due, tre, quattro amici sorridenti, spensierati, in un campo di calcio, un prato, alcuni in cucina, in famiglia, immagini di trenta e più anni prima. Accanto ad ognuna, una foto recente, scattata oggigiorno nel medesimo posto, un campo di calcio, un prato, una cucina ed in ognuna c’era uno o più di un soggetto naturalmente invecchiato, ma ne mancava sempre qualcuno, spesso più di uno. I giovani mancanti, quelli che rimarranno per sempre giovani, erano i desaparecidos, persino ragazzini di 14-15 anni, arrestati perché contestavano lo spropositato aumento del prezzo degli autobus e fatti sparire per sempre. Non ho potuto fare a meno di pensare alla nostra gioventù sognante, con Ciano e Fulvio, quando vagheggiavamo una società più giusta, una rivoluzione, di quelle con i fiori nei cannoni però, perché sempre lontana ci era stata l’idea di violenza. Cercavamo Macondo ed al massimo saremmo stati come Aureliano Buendìa che promosse trentadue rivoluzioni e le perse tutte. Ed ho pensato alle nostre fotografie, magari a quelle fatte a Torviscosa quando vi arrivammo con la millecento prestatami da mio papà per una partita precampionato della Triestina nel settembre del ’67. All’ultimo minuto Pedroni segnò il gol del pareggio e noi, unici triestini in trasferta per una partita che non interessava a nessuno, improvvisammo un carosello di festa con bandiere sventolanti per un pareggio contro una squadra di dilettanti, in un’amichevole! C’era e probabilmente ci sarà ancora un bel parco accanto allo stadio con diverse statue e noi c’immortalammo cavalcandole od abbracciandole mettendo in testa a qualcuna il tamburello del nostro scalcinato, mai decollato complessino, che ci portavamo sempre dietro per fare un po’ di confusione. Ho pensato a quelle foto paragonandole a quelle che mi stavano davanti in quella mostra ed immaginando il grande dolore di chi ha vissuto i bei momenti in cui erano state scattate ed ora si trovava a vedere immortalato solo chi è rimasto, soprattutto se quello rimasto era lui stesso.
Al giovedì pomeriggio siamo stati a Plaza de Mayo, di fronte alla Casa Rosada, residenza presidenziale. Lì, alle 15.30, ogni settimana, da oltre trent’anni in quel giorno si radunano le madri dei desaparecidos. Tutto ebbe inizio il 30 aprile 1977, un sabato, quando quattordici di queste donne decisero di consegnare una lettera al dittatore Videla chiedendo di essere ricevute per conoscere la sorte dei loro figli scomparsi. Effettuata la consegna, sul momento pensarono di rimanere in quella piazza per informare i passanti su quello che stava succedendo e poi decisero che ci sarebbero tornate ogni settimana. Scartarono il sabato perché qualcuna disse che non era giorno per andare in piazza: “la gente va a prendere il sole, portano i bambini a vedere le colombe” e così optarono per il venerdì. Il 6 maggio si ritrovarono più numerose a parlare sempre dei loro cari scomparsi sempre attente se qualcuna aveva qualche notizia più certa su quello che poteva essere successo. Confermarono di ritrovarsi ogni settimana anche se cambiarono ancora giorno perché qualcun’altra disse che il venerdì porta male, è giorno di streghe. Così fissarono per il giovedì e da quel giorno non mancarono mai più all’appuntamento ed il gruppo andò sempre più infoltendosi con il profondo impegno verso i loro figli: non abbandonarli mai. Ad ottobre decisero di partecipare ad una tradizionale processione religiosa che radunava un milione di giovani. C’era il problema di riconoscersi tra tanta gente, ancora non si conoscevano bene nemmeno tra loro che, da perfette sconosciute, accomunate da un identico dolore, avevano iniziato a ritrovarsi in piazza, e volevano altresì rendere visibile la loro presenza. Venne accolta la proposta di mettersi un fazzoletto in testa, uguale per tutte, sarebbe stato bianco. E non era un fazzoletto normale, era il pañal, il pannolino bianco dei loro figli che tutte avevano conservato a ricordo dei loro piccoli. La manifestazione fece molta impressione, per la prima volta si parlò pubblicamente dei sequestri, se ne accorse la stampa estera ed il mondo scoprì che in Argentina non andava tutto a meraviglia come il regime militare tentava di dimostrare. Il pannolino fu poi accantonato perché si sarebbe rovinato e le donne desideravano conservarlo; venne perciò sostituito da un fazzoletto bianco di batista, ancora oggi il simbolo di quelle che ogni giovedì marciano intorno alla piazza.
E intanto, per oltre trent’anni le madri hanno continuato le loro marce col fazzoletto bianco annodato in testa coraggiose e altere come le abbiamo viste noi quel giovedì pomeriggio. Non accettano di dare per morti i loro figli, credono che vivano in ogni persona che lotta, che lavora, che s’impegna per gli altri, un sentimento molto intimo, molto personale. Dicevano quel giorno che ogni volta che si ascolta una canzone di Victor Jara, Jara è vivo, ogni volta che si legge una poesia di Pablo Neruda, Neruda è vivo, perciò come si può dire che i loro figli sono persi, sono scomparsi? I loro figli continueranno a vivere in noi che le abbiamo viste in quel momento, ed in quelli che sarebbero venuti le settimane successive, in ogni persona disposta ad ascoltarle. Non hanno la forza di cambiare il mondo, ma hanno la forza di dare l’esempio, quello ricevuto dai loro figli: di onestà, di fermezza, di convinzione che idee e pensieri buoni possono essere messi in pratica. Le sorregge la promessa che hanno fatto di non abbandonarli. Non li ritroveranno, ma li portano dentro con tutta la forza, con tutto l’impegno ed è, dicono, una sensazione bellissima, che insegna loro a vivere. In molti le hanno chiamate pazze, ma la loro attesa è una follia dolce, che non fa male a nessuno. Chissà, magari un giorno il figlio potrebbe arrivare sulla porta di casa, sorridente, con un semplice “Ciao mamma, sono tornato!”
Noi le abbiamo osservate con commozione quel pomeriggio, sotto una lieve pioggerellina mentre facevano un paio di giri. Non una soltanto, ma tante donne realmente stra-ordinarie che da tanti tanti anni fanno sempre gli stessi giri intorno ad un monumento, di fronte alla Casa Rosada. Abbiamo acquistato qualche ricordino per dare un piccolo contributo e quando la manifestazione è terminata siamo entrati in un bar ai margini della piazza. Un bel bar, signorile, con camerieri ossequiosi e clientela elegante dove abbiamo ordinato due caffè cortitos y cargados, così bisogna chiedere se si vuol bere un buon espresso. Ed in quel bar, davanti a quei camerieri, a quei clienti, a quei caffè, abbiamo pianto. Con la memoria a quello che avevamo vissuto pochi minuti prima, silenziosamente, senza disturbare, abbiamo pianto. E ci siamo sfiorati la mano.

Willy Piccini



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