Il viaggio più bello del mondo

di

Walter Brasolin


Walter Brasolin - Il viaggio più bello del mondo
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa
15x21 - pp. 92 - Euro 9,20
ISBN 978-88-6037-9993

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In copertina e all’interno fotografie dell’autore


Prefazione

L’altra sera sono andato a vedere i fuochi d’artificio e c’era anche Nick, il nipotino di un anno e mezzo di nonno Walter. Erano i primi fuochi d’artificio della sua vita e al primo botto si è spaventato, proprio come mi aspettavo. Poi si è guardato attorno curioso, e rassicurato dal suo papà e da noi che rendevamo tutto normale ha alzato le braccia al cielo e ha gridato 2 o 3 volte “pum!”, in un’esplosione di emozioni.
Iniziato lo spettacolo poi ha fissato tutti quei colori con un’espressione sorpresa che solo un bambino può avere. Passati i primi 15 minuti però ha cambiato atteggiamento, forse perché il sonno lo ha sopraffatto o semplicemente perché si è abituato.
Cosa c’entra tutto questo con la storia che avete tra le mani? Noi abbiamo visto più o meno foto di tutte le zone della Terra, grazie alla televisione siamo già “stati” in Australia, in Egitto, alle Hawaii, se non addirittura ci siamo realmente andati in vacanza. Siamo abituati a moltissime cose.
Mio padre ha affrontato questo viaggio con gli occhi di un bambino, senza avere nemmeno l’idea che potesse esistere quello che all’improvviso si ritrovava davanti. Era il dopoguerra, un mondo senza televisione, senza tecnologia, un mondo che sembrava più grande e imprevedibile di quanto non sembri oggi.
Sono cresciuto ascoltando di tanto in tanto i suoi racconti, di quando si immerso e ha visto davanti a sé una piovra gigante, o di quando hanno affrontato un mare forza 9, o di quando ha fatto non ricordo quanti giorni di galera sulla nave per essersi rifiutato di pulire il ponte sotto la pioggia, ordine che gli era stato dato da un superiore solo per far valere il proprio grado. In verità li ho ascoltati più volte, perché le nostre avventure più significative sono sempre lì pronte ad essere raccontate, soprattutto se possono servire ad insegnare qualcosa a tuo figlio. E per me sono state per molto tempo solo storie, semplici avventure.
Dopo aver messo insieme i pezzi e aver conosciuto tutta la storia mi rendo conto di come tutto quello che ha visto e vissuto durante questo viaggio gli abbia cambiato la vita una volta giù dalla nave.
Per te che stai per leggere la sua storia il mio consiglio è solo questo: per quanto possibile liberati dall’abitudine e affronta questo viaggio curioso e “pulito” come un bambino.

Moreno Brasolin


Il viaggio più bello del mondo


Il viaggio più bello del mondo
(intorno alla Terra)
con l’incrociatore “Raimondo Montecuccoli”

Correva l’anno 1954 e abitavo a Pont Saint Martin in Valle D’Aosta. A quell’epoca avevo 18 anni, facevo l’operaio in una fabbrica di lamiere in acciaio inox e vivevo con mio fratello in una casa popolare nella periferia del paese. Ero orfano dall’età di sette anni a causa di un bombardamento durante la seconda guerra mondiale che rase quasi completamente al suolo il centro abitato, e che mi costrinse a trascorrere diversi anni in vari collegi fino ad aver terminato le scuole medie, dopodiché ritornai in Valle D’Aosta. Fin da bambino avevo nel sangue quel desiderio di andare in acqua, di curiosare nei fondali del torrente Lys che passava sotto il ponte romano in paese e che andava poi a sfociare nella Dora Baltea.
Nella stagione estiva trascorrevo molto tempo nel torrente andando su e giù, guardando sotto i macigni di roccia che formavano delle grosse buche piene di acqua fresca che veniva giù direttamente dalla Valle di Gressoney. Davanti alle porte della diga della centrale elettrica si era formato come un laghetto, abbastanza profondo, con il fondale pieno di sassi di diverse dimensioni.
Col passare del tempo venne affisso in comune un manifesto della Marina Italiana in cui si diceva che era possibile arruolarsi per girare il mondo ed imparare un mestiere. Lessi bene tutto il manifesto e preso dal desiderio andai avanti un po’ di tempo a sognare ad occhi aperti, finché un giorno mi decisi a fare la domanda. Presso il comune feci tutte le pratiche e spedii la lettera alle scuole C.E.M.M. di Taranto, e nel giro di una decina di giorni mi arrivò a casa un plico contenente diversi fogli, un biglietto della ferrovia pagato e l’indirizzo preciso dove mi dovevo recare: “Scuole C.E.M.M.”. Per curiosità presi una cartina geografica per vedere dove si trovava questa città di Taranto che non conoscevo, e mi resi conto che si trovava in fondo all’Italia sotto al “piede”, una distanza davvero molto lunga da percorrere, e pensai “Quando mai arriverò?”
Un mattino presto andai alla stazione di Pont Saint Martin, mi imbarcai sul treno e partii. Era la prima volta nella mia vita che salivo su un treno, e dovete considerare che a quei tempi erano fatti tutti in ferro e legno compresi i sedili per i passeggeri che non erano per niente comodi come quelli di oggi.
Viaggiando pensavo al mio paese un po’ carino e pittoresco, con il suo ponte romano sul torrente Lys ed i suoi due castelli, uno ancora bello e l’altro invece tutto distrutto fatto completamente di sassi che chissà quanti anni doveva avere per essere così conciato. Pensavo agli amici e ai conoscenti, e a quando sarei tornato. Le ore passavano lunghe e interminabili, e ogni tanto dovevo cambiare treno, sempre in 3a classe, in carrozze che lasciavano molto a desiderare. Dopo un calvario interminabile di 37 ore arrivai a Taranto, scesi e subito chiesi ai carabinieri il modo di raggiungere le scuole C.E.M.M.
Arrivato alle scuole, che si trovavano fuori città vicino al mare, mi ricevettero chiedendomi i documenti, mi ristorarono e poi mi unirono a degli altri ragazzi anche loro appena arruolati. Ci fecero fare la doccia, ci diedero dei vestiti e delle scarpe, facemmo una visita medica ed un esame psicotecnico per vedere le attitudini ed il carattere di ognuno, e così cominciò il corso di studio della durata di un anno: ero stato assegnato al corso di meccanico armarolo, e avrei dovuto studiare molte materie inerenti al mare, alle navi e alla storia della Marina. Fu un anno di intensa attività fisica: facevamo la voga a otto, giocavamo a calcio, facevo delle lunghe nuotate in mare, e quando non facevo sport mi mettevo sui libri per studiare. Trascorso l’anno ci furono gli esami finali nei quali mi classificai tra i primi tre. Una gran bella soddisfazione.
Dopo poco tempo mi dissero che per premio mi sarei imbarcato sull’incrociatore Montecuccoli e che avrei fatto una crociera lunghissima fino in Australia e ritorno, ma prima avrei dovuto firmare un documento per prolungare il periodo di ferma per altri due anni, perché il viaggio sarebbe durato sei mesi. Io firmai, e mi spedirono fino a La Spezia insieme ad altri due miei compagni di classe, premiati come me, e lì in porto vedemmo per la prima volta l’incrociatore.
Era di sicuro la nave più grossa che avessi mai visto, e guardandomi intorno le altre navi erano tutte di classe inferiore. Non conoscevo ancora nulla del Montecuccoli, ma sarebbe stato la mia casa per i prossimi mesi. Salimmo a bordo tutti e tre emozionati, e fummo guidati da un sottufficiale che ci mostrò il posto dove avremmo dormito, ci consegnò subito il rotolo che avvolgeva un’amaca che sarebbe stata il nostro letto per tutto il viaggio, ci fece vedere l’armadietto dove lasciare i nostri effetti personali e poi ci lasciò liberi di curiosare per la nave per renderci conto di com’era strutturata e di quali fossero le aree con accesso consentito ai marinai, e quali no. Dopo qualche ora la nave partì per Livorno, dove all’arrivo caricammo gli allievi ufficiali dell’Accademia Navale di Livorno, l’otto di voga della Marina, ed il personale della RAI che doveva filmare le Olimpiadi che si sarebbero svolte quell’anno a Melbourne.
La nave partì il giorno 01-09-1956 da Livorno passando per lo stretto di Messina in direzione Porto Said (Egitto), navigazione cinque giorni e stop. Da lì, dopo poche ore di fermo, la nave avrebbe avuto l’ok per partire ed entrare nel Canale di Suez direzione Aden (Arabia).
Grazie all’entusiasmo di essere finalmente in mare aperto e vista la mia inesperienza nella vita in mare, questi primi giorni passarono in fretta, cercando di conoscere gli altri marinai e fare conoscenza con il personale di bordo, ma soprattutto godendomi la sensazione di libertà e di spensieratezza che mi dava il viaggiare in silenzio, senza vedere nulla intorno e senza nemmeno sapere i porti che avremmo visto nelle varie tappe. Solo dopo qualche giorno ci fu un’assemblea in mensa, durante la quale ci misero a conoscenza del percorso dandoci una mappa con il tracciato dettagliato fino a destinazione.
Durante la sosta in Egitto ci fu possibile ammirare la grandezza del porto e numerose navi gigantesche per trasporto merci, e petroliere con delle gru enormi per muovere containers con facilità. Passarono altri quattro giorni di navigazione percorrendo 87 miglia marine, pari a 160 km di mare e cielo, ammirando il firmamento, le albe ed i tramonti, e arrivammo ad Aden dove restammo ormeggiati in rada per due giorni. Una volta terminati i nostri compiti a bordo, a noi marinai era concessa la libera uscita per poter visitare i luoghi in cui ci fermavamo e svagarci un po’. Con la scialuppa arrivammo alla banchina, e lì presi un taxi con altri tre miei amici per andare in centro città, e ricordo che passando per una strettoia di roccia guardai verso l’alto e vidi un ponte fatto come quello dei Sospiri di Venezia. Trovai un ambiente del tutto diverso dal nostro, anche l’odore nell’aria, e addosso alle persone. Qui la gente aveva certe macchine grosse e di lusso, e le donne non ne vedevi una in faccia, tutte coperte fino ai piedi, con soltanto dei “finestrini” che lasciavano scoperti solo gli occhi. Non conoscendo nulla di quella cultura ma preso dal desiderio mi avvicinai a due donne e feci segno di scoprire il viso, ma ad un tratto mi si avvicinarono due omaccioni che me lo impedirono facendomi chiaramente capire che non era possibile. Dispiaciuto mi allontanai con quei due uomini che mi portarono in una bancarella di frutta e mi fecero mangiare un frutto tutto peloso grande come una patata di medie dimensioni. Lo tagliarono e mangiai la polpa dentro, restando meravigliato dalla sua dolcezza. Ancora oggi non ho idea di che frutto fosse, ma ricordo che cercavano di spiegarmi che aveva un forte potere afrodisiaco. E così lasciai quella città avendo goduto solo il paesaggio, ma senza la soddisfazione di aver visto in viso una di quelle donne. Al terzo giorno lasciammo Aden e partimmo per Karachi (Pakistan) con davanti 1470 miglia da percorrere, pari a 2700 km, e impiegando cinque giorni (giorno e notte) per giungere a destinazione.
Entrammo in porto guidati dal pilota, ormeggiammo alla banchina, e durante la sosta mi persi a guardare la superficie dell’acqua. Si vedeva un piano tutto coperto di pesci scuri che si muovevamo, erano a milioni ma non riuscivo a vederne bene il corpo. Un cuoco della cucina, un toscano mio amico, disse che aveva una lenza per provare a prenderne uno, così la recuperò. Era una lenza con attaccato l’amo ed il piombo e la buttò nell’acqua aspettando che abboccassero, ma visto che non succedeva niente dopo un po’ la tirò su fino alla fine, e ci accorgemmo che l’amo non c’era più: avevano tranciato la lenza. Riattaccò un altro amo con il cibo e lo buttò ancora nell’acqua, e ancora non successe nulla, così tirò su la lenza e l’amo non c’era più. Stupiti tutti e due non riuscivamo a capire come facessero a tranciare la lenza, così pensammo di attaccare un’ancoretta grossa a tre punte e gettata in acqua la tirammo subito su con un pesce attaccato, e appoggiatolo a terra lo guardammo bene. Un pesce mai visto prima con il corpo color verde scuro, aveva il muso piatto ed una dentatura fitta, denti uniti sotto e sopra, che sviluppavano un forza notevole come fossero una tenaglia. Anche il mio amico cuoco non sapeva che razza di pesce fosse e nemmeno se sarebbe stato possibile cucinarlo, e lo ributtammo in mare.
La sosta durò quattro giorni, durante i quali ebbi la possibilità di visitare la città e osservare quel territorio straniero, con tutte quelle case intorno. Presi un calesse col cavallo guidato da un uomo del posto che mi portò a spasso per ore e ore, e più vedevo e più restavo meravigliato dallo stile dei palazzi e delle case, dal modo di vestire differente, davvero un mondo del tutto diverso dal nostro italiano.
Un giorno mi misero di ronda in città, con la divisa adeguata con il manganello e in compagnia di altri due soldati del posto che mi fecero vedere tanti bei luoghi e mi portarono pure nella casba dove c’è la malavita, avvertendomi però di stare all’erta. Quel giorno andammo in un quartiere fatto di vicoli molto stretti, salimmo su per le scale di una casa al secondo piano, e arrivammo davanti ad una porta. Loro si tolsero le scarpe ed io li imitai, poi entrammo in una camera tutta coperta di tappeti, per terra ed anche sui muri per un’altezza di almeno un metro, e sull’angolo tra pavimento e muro c’erano dei bellissimi guanciali in velluto tutti colorati dove ci si poteva sedere. Dentro c’erano già quattro uomini seduti, e in un angolo c’era uno che suonava uno strumento ad aria con una tastiera come una fisarmonica, e faceva quelle musiche caratteristiche loro. Ad un certo punto spuntarono fuori da una porta di fronte, due donne bellissime vestite con veli colorati che si fermarono davanti a due uomini “clienti” facendo una serie di movimenti e moine con dolcezza, prendendo le loro mani, e dopo un po’ li portarono in camera a fare l’amore. Io guardavo attentamente queste scene rendendomi conto di come avvenivano dolcemente questi incontri, e in quali ambienti lussuosi e puliti, cose che in Italia era impossibile trovare. Sarebbe stato molto utile avere una cinepresa per riprendere quelle situazioni.
Terminati i quattro giorni di sosta la nave riprese a navigare verso Bombay (India), con altre 500 miglia da percorrere giorno e notte, sempre tra cielo e mare, vedendo sorgere e tramontare il sole ogni giorno. Certo che la vita a bordo di una nave da guerra è monotona e le giornate sono lunghe e noiose. Ogni tanto la pace e la monotonia erano interrotte da simulazioni di attacchi aerei, da chiamate di emergenza ai posti di combattimento, o ai posti di vedetta. In quei momenti ciascun marinaio correva al suo posto di combattimento e aveva un compito ben preciso. Tutto il personale marinai, sottoufficiali e ufficiali, con perfetto sincronismo si disponevano in maniera perfetta in modo che la nave fosse totalmente sotto controllo. Il mio posto era insieme al personale (eravamo in sei) di una torre di un cannone da 150 mm, in qualità di meccanico armarolo, compito a cui ero stato preparato durante la scuola studiando proprio mastodontici impianti come quello.
Dopo quasi due giorni e notti arrivammo a Bombay, e anche qui la nave attraccò alla banchina per una sosta che durò cinque giorni. Ogni pomeriggio si andava fuori in libera uscita in centro città, in compagnia di amici a vedere e curiosare in tutti i posti, osservando tutte le botteghe ed i prodotti di vario genere. In questa città si potevano vedere le donne in faccia, e ammirare come si vestivano.
Scaduto il termine di sosta partimmo per destinazione Singapore (Malacca Br.), e questa volta ci mangiammo interminabili giornate e nottate tra cielo e mare: 2465 miglia, pari a 4560 km circa. Armati di passione e buona volontà affrontammo questo lungo viaggio di 7 giorni e notti, con aurore e tramonti spettacolari, e notti stellate meravigliose, sempre immersi in un silenzio eterno. Una volta in mare aperto avevamo parecchie ore libere, e sarà che il tempo passa lento nelle situazioni di monotonia, ma davvero sembrava non finire mai. Così l’occupazione principale era proprio il paesaggio, la stessa cosa che sembrava sempre uguale, sempre e solo cielo e mare, ci regalava degli spettacoli che sono rimasti impressi per sempre nella memoria, almeno nella mia. Navigando con bellissime giornate di sole se andavo a poppa e mi sporgevo un po’ fuori dal bordo della nave potevo vedere benissimo le eliche che giravano, tanto era la limpidezza dell’acqua. E se poi andavo a prora, restavo a guardare la prua della nave che tagliava l’acqua e faceva due baffi di schiuma laterali. C’erano poi spesso i delfini che ci seguivano lateralmente alla chiglia e ogni tanto facevano degli scatti velocissimi verso la prua fuoriuscendo dall’acqua anche di 2 o 3 metri di altezza e poi rituffandosi, erano uno spettacolo di abilità e velocità.
Certe notti le passavo in compagnia degli amici, sopra ad un carley che era posizionato sopra la torre del cannone (il carley è un salvagente grosso con tutti gli accessori per navigare, in caso ci sia un’emergenza e sia necessario abbandonare la nave), e stavamo sdraiati ad ammirare il cielo limpido stellato. Era meraviglioso navigare con quel silenzio che si sentiva soltanto il fruscio dell’acqua sulle fiancate della nave. Poi ognuno raccontava la sua storia di vita parlando del luogo da cui proveniva. Il marinaio più a nord ero io che venivo dalle Valle d’Aosta in mezzo alle montagne, e raccontavo ai miei amici che il mio paese era tanto carino, gli parlavo del torrente Lys che lo attraversava e del bellissimo ponte romano tutto fatto di sassi, alto dal fiume una ventina di metri che mi domandavo come avessero fatto a farlo, e così mi prendeva un senso di nostalgia.
Anche se stavamo vivendo una bellissima avventura eravamo lontani da dove eravamo cresciuti, e chi più chi meno sentivamo tutti la mancanza di casa.
Dopo tanta pazienza e lunga attesa arrivammo davanti a Singapore e la nave si fermò in rada con le dovute ancore a mare per tenerla ferma. A guardare dalla nave verso la città, sulla destra si vedevano molte barche di ogni misura, alcune con il tetto di stoffa e altri modelli strani. Sembrava una foresta di barche. Per andare in libera uscita in centro, si doveva quindi andare con la scialuppa. Appena toccata la banchina scesi con diversi marinai e sottoufficiali da una scalinata ed entrammo sotto una grandissima tettoia che serviva per lo sbarco della gente. Guardandoci intorno potevamo ammirare uno scenario mai visto. Proseguii la marcia verso il centro città con due miei amici, attraverso strade larghe con molto traffico. C’era gente da ogni parte, autobus di città con due piani a sedere, e spesso potevi vedere ai lati dei marciapiedi file di persone che stavano una dietro l’altra in attesa e all’arrivo dell’autobus salivano rapidamente uno ad uno, portando rispetto, cose che in Italia non si vedranno mai. Girai in diversi rioni, e tutto intorno c’erano dei bei palazzi alti con lo stile particolare di quelle zone. Alla sera rientrai a bordo verso la mezzanotte.
Il giorno dopo fu esposto sulla nave un avviso per tutto l’equipaggio, che ci informava che le autorità locali avrebbero dato una festa in onore ai marinai italiani. Presi l’indirizzo per bene, e assieme ad altri sei marinai uscimmo e domandando alla gente del posto diverse volte, arrivammo davanti ad un bel palazzo. Salimmo le scale, entrammo in un atrio dove c’era una grande porta e vedemmo un salone grandissimo, ben illuminato, con nell’angolo a destra un’orchestra sotto ad una tettoia fatta a conchiglia, e lì vicino una ventina di belle donne tutte in minigonna con lo spacco laterale. Ci guardammo in faccia meravigliati e poi ci avvicinammo all’orchestra per chiedere se si poteva ballare. Ci risposero di sì, che era tutto per i marinai italiani. Che gioia per noi. Dalla parte opposta all’orchestra c’erano molti tavoli preparati con dolci e spumanti, una vera pacchia. Andai dagli orchestrali a chiedere se davano inizio al ballo, e cominciarono a suonare tutti balli e musiche all’italiana. Che gioia, che divertimento, con quelle donne così vestite che in Italia non le sognavamo neanche.
Era il 1956, la guerra era finita da soli dieci anni e la normalità a cui eravamo abituati era di donne tutte vestite, con gonne che arrivavano al massimo all’altezza del ginocchio. Così andammo avanti fino a tardi a goderci la festa, e verso mezzanotte rientrammo a bordo della nave.
Il giorno dopo uscii ancora in compagnia dei miei amici, e girando in lungo e in largo trovammo un posto dove c’era un mercato di frutta e verdura, ci avvicinammo e guardammo bene tutte quelle qualità di verdure bellissime, e quei frutti che erano una meraviglia, certe mele grosse e profumate, pere, susine, e altre qualità bellissime, ma soprattutto c’erano tre o quattro qualità di banane di un profumo che mi stuzzicarono l’appetito più di ogni altra cosa. Me ne feci dare una per qualità e le mangiai subito: una cosa straordinaria in dolcezza, anche perché erano sicuramente maturate sulla pianta. Ne comprai così un casco intero per portarmele a bordo della nave. C’erano poi gli ananas che erano la fine del mondo come gusto, dolcezza, pieni di succo, una meraviglia, e alla fine ne presi tre. I giorni a seguire sulla nave, alla mattina mangiavo quattro o cinque banane, e a distanza di tre ore mi mangiavo un ananas. Feci una tale scorpacciata di quei frutti in quei quattro giorni di sosta che mi tolsi per sempre la voglia di banane, anche se la voglia d’ananas mi rimase. Città bella e misteriosa già a quei tempi Singapore, chissà come sarà adesso.

[continua]

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