Morafosca

di

Vittorio Toffanetti


Vittorio Toffanetti - Morafosca
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa
14x20,5 - pp. 204 - Euro 15,00
ISBN 9791259512338

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In copertina fotografia dell’autore


Fatti, personaggi e luoghi che appaiono in questo libro sono di pura fantasia. Ogni riferimento a persone
esistenti o esistite e a fatti reali è da ritenersi puramente casuale.


Premessa

Una volta abbozzata la trama, immaginati i personaggi e scelta l’ambientazione, l’autore che si accinge a scrivere un romanzo ben presto avverte la possibilità delle infinite varianti e soluzioni che egli può imprimere alla storia e, di fronte a questa infinità, prova come un senso di smarrimento e rischia di perdersi. Ma ad un certo punto, come per magia, mano a mano che l’autore procede nella narrazione vengono in suo soccorso i personaggi che egli stesso ha creato, i quali gli impongono la scelta tra gli infiniti sviluppi della loro storia e gliene dettano l’esito finale, trasformandolo da assoluto padrone, a semplice e docile strumento nelle loro mani. 
Questo romanzo è fratello gemello di un altro romanzo: “I segreti di Galeazza”, nel senso che entrambi i romanzi sono frutto dello stesso parto narrativo. Ne condividono la stessa ambientazione, hanno in comune l’incipit e alcuni temi paralleli rispetto alla vicenda principale. I nomi dei personaggi sono gli stessi ma si tratta di personaggi diversi e diverso è lo sviluppo della loro storia. Il protagonista principale de “I segreti di Galeazza” è un Marco Doni ventenne; quello di “Morafosca” è un Marco Doni cinquantenne ed entrambi hanno preteso e mi hanno dettato una propria storia, la quale trae comunque spunto da fatti realmente accaduti.


Prefazione

Finalmente un autore che non ammicca, per ragioni di cassetta, alla moda imperante dei thriller, degli horror e dei noir, serviti in dosi sempre più massicce di atrocità, di efferatezza e di sangue, specchio letterario di un mondo reale, realmente in preda alla violenza, come ci mostrano i mass media giorno dopo giorno, con dovizia di particolari.
In questo romanzo non manca la suspence, ma sulle trame delittuose hanno risalto piuttosto le trame segrete del cuore, dove affiorano le affinità profonde, dove sbocciano e maturano i sentimenti e le passioni.
Sotto questo  leitmotiv “romantico”, tuttavia, l’autore affronta e sviluppa, senza alcun cedimento moralistico o didascalico, quello che si può considerare il tema di fondo dell’opera, e cioè il rispetto della Natura e dei Sentimenti.
La prima, sempre più minacciata dall’inquinamento e dalle colate di cemento e di asfalto della speculazione edilizia; i secondi, sempre più calpestati nel nome di una avidità di guadagno, di un affarismo esasperato che travolge implacabilmente tutto e tutti (la vera violenza!?), del gretto materialismo di un mondo nichilista e senza poesia, che proprio per questo rischia di andare in rovina. 
Un mondo di fronte al quale i protagonisti del romanzo si sentono a disagio e nel quale essi rifiutano di riconoscersi, spinti come sono dal bisogno di vivere una dimensione più spirituale ed autentica della vita. 
Sia pure ai margini del racconto, l’autore tratta anche il tema scottante e attualissimo della immigrazione e della integrazione sociale degli immigrati. Un problema che investe non solo i grossi agglomerati urbani, ma anche le piccole borgate rurali come quella di Galeazza, dove si svolge la storia (e dove è nato l’autore), le quali si sono spopolate negli anni del boom economico e della fuga dalle campagne, e oggi si stanno ripopolando soprattutto proprio di famiglie di immigrati.
Un altro sottile fil rouge attraversa e colora di sé l’intera opera, ed è quello dell’Arte, intesa in tutte le sue forme espressive, come celebrazione della “Bellezza”; non solo l’arte poetico-letteraria, ma anche quella pittorica.
La trama e l’ordito del romanzo, infine, sono intessuti con il filo d’oro della poesia che, in ultima analisi, ne è la vera protagonista.
Creando l’effetto di una preziosa “filigrana” della scrittura, prosa e poesia si fondono mirabilmente in essa, sì che, a volte, il passaggio dall’una all’altra è quasi impercettibile; in particolar modo nei brani in cui l’autore scava in profondità e con tatto nella psicologia e nei segreti più intimi dei personaggi, ricavandone figure umane a tutto tondo che il lettore sente reali e vicine a sé, finendo per amarle; oppure quando, con identico trasporto passionale e con lo stesso lirismo, si sofferma a “dipingere con i colori della parola” gli scorci agresti, nei recessi più profondi e ancora incontaminati della sua campagna, là dove i protagonisti del romanzo amano rifugiarsi e dove si compie la loro storia.
La passione di Marco Doni per i classici greci e latini e l’incredibile approdo delle sue ricerche, condotte nel convento delle Serve di Maria della Galeazza insieme all’amico paleografo Giovanni Goretti, assumono il significato allegorico dell’auspicabile ritorno di un nuovo Umanesimo e, con esso, di un nuovo Rinascimento.
In conclusione, parafrasando Pablo Neruda, possiamo dire che “Amore, Arte e Natura”  sono i giacimenti da cui Toffanetti ha tratto la materia prima per questo suo felice esordio narrativo, che avvince il lettore fino all’inatteso epilogo, lasciandogli infine una piacevole sensazione di freschezza, corroborante come un sorso d’acqua pura.

V. F.


Morafosca


Capitolo I

Chiara montò in groppa al suo amato Bucefalo, uno splendido baio di tre anni cui aveva dato il nome del mitico cavallo di Alessandro Magno, per le sue ancora fresche reminiscenze liceali. Lungo il solito sentiero si diresse verso il fiume, salì sull’argine e proseguì al passo, lentamente, costeggiando un folto pioppeto che occupava in quel tratto la golena.
Di lassù, sotto un cielo completamente terso, si apriva a perdita d’occhio la distesa dei campi appena arati, dei campi coltivati a sorgo, a soia, a girasole, dei campi di granturco dalle foglie dorate, ormai maturo e pronto al raccolto.
A quell’ora di primo mattino la campagna era avvolta in una cappa di silenzio. Chiara udiva solo il leggero stormire del vento nel pioppeto e, di tanto in tanto, il cinguettio di uno scricciolo che volteggiava, alto e invisibile, sopra la sua testa.
Provenienti dall’altra parte del fiume, dove passavano l’autostrada e la ferrovia, le giungevano invece all’orecchio, ovattati e lontani, quasi impercettibili, il rombo dei motori, lo stridore delle gomme sull’asfalto, lo sferragliare dei treni, confusi insieme in un sottofondo sordo e incessante che saliva dall’argine, simile a un triste, continuo lamento.
L’aria era fresca e pungente sul viso, in gradevole contrasto con i tiepidi raggi di un sole aranciato, ancora basso all’orizzonte. Chiara socchiuse gli occhi per meglio sentire sulla pelle quelle carezze di luce e d’aria. Inspirò profondamente e un brivido di eccitazione la scosse.
“Vai Bucefalo!” gridò al cavallo, allentando le briglie e con un leggero colpo di speroni lo lanciò al galoppo.
Erano divenute ormai un’abitudine irrinunciabile, per lei, quelle corse sull’argine del fiume, che davano libero sfogo al suo temperamento irrequieto e le riempivano il cuore di una gioia fanciullesca.
Per Chiara, quelle galoppate significavano sostanzialmente una evasione, una vera e propria fuga dal suo mondo, da quel mondo che sentiva mugugnare tristemente alle sue spalle, dall’altra parte del fiume, e da tutto ciò che più detestava di esso; l’avidità insaziabile di ricchezza e di guadagno, l’arrivismo, la falsità, la meschinità, l’ipocrisia, la sciocca vanità degli uomini.
Fuggendo da tutto questo, Chiara cercava rifugio nella natura, nella sua pace, nella sua armonia e purezza, alla ricerca delle cose semplici e vere della vita, autentiche come il suo fido Bucefalo, generosamente impegnato nella corsa.
Assorta nei suoi pensieri, si avvide troppo tardi di aver raggiunto dappresso un gregge che procedeva pigramente sull’argine, nella sua stessa direzione e, prima ancora di riuscire a tendere le briglie, Bucefalo si arrestò di colpo di fronte al cane pastore ringhiante. Si levò sulle zampe posteriori ruotando su sé stesso, ma il fragile bordo dell’argine franò sotto il peso del cavallo, facendolo precipitare rovinosamente con la sua amazzone. Chiara fu sbalzata di sella, rotolò sul fianco scosceso dell’argine e, battendo violentemente il capo contro una grande zolla rinsecchita, perse i sensi.
Si risvegliò con un acre odore caprino che le pungeva le narici e si ritrovò distesa all’ombra di una quercia, la testa ancora dolente, adagiata su una giacca sdrucita di velluto verde marcio, ripiegata su un morbido cuscino d’erba. Sentiva le braccia e le gambe intorpidite. Sollevò leggermente il capo guardandosi attorno e scorse, accucciato ai suoi piedi, un vecchio cane pastore abruzzese che la stava fissando dolcemente e che, vedendola rianimarsi, emise un leggero guaito, scodinzolando. Poco più in là, alcune pecore brucavano tranquillamente il prato, e sùbito comprese la fonte di quel puzzo bestiale. Il pensiero corse al suo Bucefalo ma, pur girando lo sguardo tutto intorno, non lo vide. Un senso improvviso di vertigine la sconsigliò di alzarsi, come avrebbe voluto e di attendere pazientemente il ritorno delle forze. Nel reclinare il capo si avvide che da una tasca interna della giacca fuoriuscivano appena alcuni foglietti di carta a righe, stropicciati.
Non seppe resistere alla sua curiosità di femmina e, concedendosi la scusa di dover ingannare il tempo, estrasse uno dei fogli che riportava un breve scritto a matita, pieno di correzioni e lesse a fatica:

fugge al vedermi l’airone cinerino
e solcando l’aria con battito d’ala
poderoso e lento
a volo radente
sullo specchio del fiume
si allontana
poi vira d’improvviso
e s’alza verso un sole di fuoco
sopra questo mare di terra bruna
appena arata
cercando invano le sue antiche paludi
e l’eco di un grido primordiale
si spegne piano piano
nell’azzurro

In quel momento avvertì un rumore di passi e ripose in fretta il foglio nella tasca, richiudendo gli occhi istintivamente per fingersi ancora svenuta, come aveva fatto tante volte da bambina per spaventare a morte la tata.
Era curiosa di vedere in faccia questo insolito e ingenuo pastore-poeta. Ora avvertiva, anche olfattivamente, la vicinanza di qualcuno che si era chinato su di lei e la stava osservando. Sentì posarsi sulla fronte un fazzoletto bagnato e provò una piacevole sensazione di frescura, mentre una mano ruvida le prese il polso.
A quel punto dischiuse impercettibilmente le ciglia per guardare in faccia il pastore, di sottecchi, senza che lui se ne potesse accorgere e rimase come allibita nel vedere che si trattava di un uomo di colore. Un africano di aspetto ancora giovanile, con una espressione bonaria stampata su un viso illuminato da occhi rotondi e neri; neri come i capelli arricciati sulla fronte.
“Oh finalmente, ben tornata tra noi signora” disse con uno strano accento il pastore, che aveva colto il leggero movimento delle ciglia.
Non avendo più alcun motivo di fingere, Chiara aprì gli occhi del tutto e con somma gioia, oltre le spalle del pastore, vide il suo Bucefalo legato a un ramo della quercia, brucare tranquillamente l’erba accanto alle pecore e sorrise.
“Abbiamo dovuto correrci dietro per un bel pezzo, povero animale; aveva tanta paura, ma non si è fatto niente. Ma tu come stai?”
“Ho solo un gran mal di testa” rispose Chiara passandosi una mano tra i capelli e soltanto allora avvertì sulla nuca un enorme bernoccolo.
“Il padrone è andato a chiamare ambulanza e poi arriva” disse il pastore. “Tu stai tranquilla, non devi muovere.”
“Il padrone del gregge, del cane e… della giacca?” chiese la ragazza.
“Sì, padrone anche di tutta questa terra della tenuta Morafosca” rispose il negretto, lungi dal poter immaginare che a lei interessava principalmente sapere chi era il proprietario della giacca. “Io, veramente, lo chiamo dottore, perché a lui non ci piace essere chiamato padrone ma è tutta sua questa terra. Io sto con mia moglie Zahia e mio figlio Ouael in una delle case della tenuta, vicino alla villa del dottore, che sta dall’altra parte vicino al convento delle suore. Io sono il suo fattore e faccio il pastore, come facevo da bambino al mio paese. Lui vive da solo in villa, quando non è in città. Mia moglie gli sbriga le faccende di casa. È il nostro dottore e assiste anche le suore del convento. Legge molto e scrive. Io non ci chiedo mai cosa scrive; aspetto che è lui che me ne parla. Ma io parlo troppo come vedi.”
“Come ti chiami?” chiese Chiara.
“Mi chiamo Youness Ben Aissa e sono tunisino. Quando tu eri svenuta, il dottore ti ha guardato la ferita alla testa, ti ha ascoltato il cuore, e ha detto che hai avuto un trauma cranico forte e che bisognava trasportarti all’ospedale per esami.”
Proprio in quell’istante un breve urlo di sirena annunciò di lontano l’arrivo di un’autolettiga, e le tranquille pecorelle, interrotto bruscamente il loro pascolo, sciamarono terrorizzate verso l’argine del fiume, inseguite dal cane pastore.
“Non ti preoccupa, per il cavallo” disse il pastore “lo porto io alla stalla, se mi dici dove sta.”
Mentre Chiara gli indicava l’ubicazione del maneggio alla periferia del paese, dove teneva a pensione Bucefalo, due robusti barellieri, scesi dall’ambulanza, la caricarono con cautela molto professionale e ripartirono alla volta dell’Ospedale cittadino.
Qui, nella stanza dove veniva riportata dopo essere stata sottoposta ad una serie accuratissima di esami clinici e radiografie, trovò ad attenderla Anna, l’anziana madre, le mani congiunte davanti alla bocca, come in preghiera, con stampata sul volto un’aria di preoccupazione, mista ad amorevole rimprovero.
“Come ti senti, birichina mia?” le chiese non appena fu sistemata sul letto.
“Ho provato solo un grande spavento quando Bucefalo mi ha disarcionata, e vedrai che tutto si risolverà in questo enorme bernoccolo che ho qui dietro alla nuca” la tranquillizzò Chiara, prendendole la mano per farglielo toccare.
“Il medico di turno mi ha assicurata che gli esami hanno dato esito negativo, ma ti terranno in osservazione almeno per ventiquattro ore, come è prassi”, riprese la madre. “C’era con lui un signore, un po’ strano, che mi ha rassicurata anch’egli, come se fosse un dottore, e mi ha dato per te questa busta” e così dicendo le consegnò una piccola busta bianca, formato biglietto da visita. Nell’aprire la busta Chiara domandò alla madre: “Perché dici che era un signore un po’ strano?”
”Beh… indossava una giacca di velluto verde marcio abbastanza logora e…”
“E cosa…?” sbuffò la ragazza spazientita dalla reticenza della madre; la quale, chinandosi verso di lei e assumendo una espressione ridanciana, le bisbigliò all’orecchio: “Beh… puzzava un po’ di capra!”
Chiara estrasse il biglietto incuriosita e lesse: “Cara signorina Chiara Bolognesi, mi rincresce dell’accaduto e, anche se i controlli clinici testé eseguiti fortunatamente lasciano prevedere che il trauma da Lei subito non avrà conseguenze per la Sua salute, sappia che per il risarcimento dei danni potrà rivolgersi alla mia Compagnia di assicurazione, di cui trascrivo gli estremi in calce, e alla quale denuncerò l’accaduto, per coprire ogni responsabilità che possa eventualmente farsi risalire al mio pastore e a me. Con i più sinceri auguri per una pronta e totale guarigione. F.to Marco Doni.”
“Ma dimmi; puzza a parte, che aspetto aveva quel signore?” domandò Chiara che aveva colto la somiglianza tra la grafia del biglietto e quella della poesia
“È un uomo sulla cinquantina, più o meno, già con parecchi fili d’argento tra i capelli, alto, robusto e asciutto. Devo ammettere che, nonostante fosse vestito e olezzasse da pastore, aveva uno sguardo fiero e un’aria distinta, piuttosto insolita per uno che condivide la propria esistenza con un gregge di pecore. Ripensandoci bene, quando mi ha consegnato il biglietto per te, ho notato che anche le mani non erano mani da pastore.”
Chiara sorrise divertita e disse: “Senti mammina, da come lo hai descritto, puzza a parte, hai finito per dirmi che si tratta di un bell’uomo.”
“Diciamo un uomo interessante” rispose la madre assumendo un’aria civettuola e complice, per poi riprendere subito un tono severo e ammonire la figlia: “Ma un vecchio pastore non fa certo al caso tuo.”
In quell’istante entrò nella stanza la dottoressa Lucia Terzi, l’amica del cuore di Chiara, ginecologa dell’ospedale, di turno in reparto proprio quella sera. Di tre anni più anziana di Chiara, aveva da poco compiuto i vent’otto ma, come lei, era ancora nubile, o meglio single. Non la si poteva definire propriamente una bellezza, ma suppliva alla mancanza di avvenenza con una spontaneità ed una cordialità di modi che le guadagnavano una immediata simpatia.
“Cara, come stai?” le domandò, chinandosi su di lei e stringendole le mani premurosamente. “Ho appena saputo in astanteria del tuo ricovero e ho preso uno spavento terribile.”
Dopo averla tranquillizzata sulle sue condizioni di salute Chiara le chiese se conosceva quel dottor Marco Doni che l’aveva soccorsa, che viveva nella tenuta vicino al convento delle suore.
“Me ne ha parlato il parroco Don Abele, che lo ha conosciuto al convento” rispose l’amica. “Dice che lavorava all’ospedale di città e circa due mesi fa, all’improvviso, ha mollato tutto e si è ritirato nella sua tenuta di Morafosca, che aveva acquistato alcuni anni prima. Io so di un dottor Doni, un cardiochirurgo molto apprezzato che opera anche presso la famosa clinica privata Villa Verde. Tuttavia non so se si tratta della stessa persona. Sono anni che non càpito da quelle parti e nel convento non sono più tornata dai tempi in cui d’estate, da ragazzine, con la parrocchia, andavamo a fare gli esercizi spirituali. Ti ricordi?”
“Il suo fattore mi ha detto che vive da solo nella tenuta, quindi suppongo che non sia sposato; o che sia separato o vedovo. Ne sai qualcosa?” domandò Chiara.
“Mi dispiace, ma di questo non ho sentito parlare” rispose l’amica.

[continua]


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