Goccia di mare

di

Virginia Rizzo


Virginia Rizzo - Goccia di mare
Collana "Le Schegge d'Oro" - I libri dei Premi - Narrativa
14x20,5 - pp. 80 - Euro 7,80
ISBN 978-88-6037-9160

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In copertina: acrilico su tela, 50×70 di Virginia Rizzo


Pubblicazione realizzata con il contributo de Il Club degli autori per il conseguimento del 2° posto nel Concorso letterario Marguerite Yourcenar 2008


“Una donna che non sfrutta appieno le sue facoltà intellettive, nell’impossibilità di farlo, diventa una donna diversa da sé, tanto più insoddisfatta e incapace di amare quanto più la si priva della sua essenza. E così si crea una donna robot, abile nei lavori di cura, ma pessimo modello nell’educazione e nella formazione dei figli, compagna noiosa o depressa di un marito che volge gli occhi altrove, che in maniera viscida e subdola si allontana, umiliando la donna non meno di quanto vecchie generazioni di uomini abbiano fatto segregando e condannando alla non-vita mogli, figlie e sorelle. (…)”

dal racconto “Nel paese delle donne”


Goccia di mare


Alla mia Mamma.


So long as you write what you wish to write,
that is all that matters; and whether it matters
for ages or only for hours, nobody can say.

VIRGINIA WOOLF, A Room of One’s Own

Finché scrivete quello che desiderate scrivere,
è tutto ciò che conta; e se conta per lungo
tempo o solo per ore, nessuno può dirlo.

VIRGINIA WOOLF, Una stanza tutta per sé


LETIZIA

Si sedette in silenzio. Mentre si sistemava il tovagliolo sulle gambe, guardò i presenti, che non la guardavano. Si sentì invisibile. Fece il segno della Croce tra l’indifferenza di tutti e prese a mangiare.
Chissà se Luca aveva lavato le mani? Inutile chiederlo, con eleganza le avrebbero fatto notare che c’era già la sua mamma a preoccuparsene. Avrebbe anche voluto sapere da suo figlio Alberto come era andata quella giornata, ma la risposta sarebbe stata: “Non ho voglia di parlarne, non ora, mamma.” Giulia era cresciuta e quei capelli raccolti in una coda la facevano apparire più alta. Da qualche giorno metteva la matita sugli occhi, cominciava a sentirsi grande. Guarda, guarda, oggi aveva anche ricoperto le unghie con uno smalto leggero. Nadia, sua nuora, era consapevole di quel cambiamento o stava lasciando che attimi tanto preziosi dell’adolescenza di Giulia si polverizzassero? La guardò mentre offriva il secondo al marito, ai figli, velocemente, senza grazia e quando fu a lei, forse senza amore. Doveva sentirla come un’intrusa in quella casa, come una povera vecchia capace di niente. Qualche volta avrebbe avuto voglia di gridare: “Sono stata giovane anch’io, ho dato tanto, ho corso, ho amato, ho pianto, ho vinto, ho perso, non ho mai smesso di lottare. Perché fingete tutti di non saperlo, perché avete deciso di dimenticare?”
Ancora una volta il pranzo si sarebbe concluso senza che i suoi cari, sangue del suo sangue, le avessero chiesto qualcosa che non fosse stato solo: “Mi passi il pane, l’acqua, il sale…?”
Si sarebbe ritirata nel suo angolo, quello assegnatole da ormai cinque mesi, da quando Pietro non c’era più. Non avevano colpa, nessuno aveva colpa, erano sempre tutti troppo presi. Non potevano fermarsi con lei o per lei. Erano già stati cortesi a invitarla a stare da loro, cosa si aspettava? In quella casa non c’era la sua vita e non ci sarebbe mai potuta entrare. In quella casa c’era solo spazio per il suo corpo, in una confortevole camera per gli ospiti. Non le sarebbe mancato nulla e avrebbe avuto il privilegio di sorvegliare in silenzio il loro andirivieni di ogni giorno, di tutti i giorni. Si sarebbe dovuta accontentare di guardarli, di sentirli. Era quello il gancio concessole per restare appesa al filo della vita. Un giorno forse Giulia avrebbe avuto meno da studiare, Luca si sarebbe stancato di guardare i soliti cartoni, Alberto sarebbe rientrato prima dalla banca e Nadia non sarebbe stata tanto indaffarata. Quel giorno forse lo avrebbero dedicato a lei, l’avrebbero ascoltata, le avrebbero parlato e tutti insieme avrebbero ritrovato l’armonia, la forza di un tempo, quando lei li riuniva e c’era. Per il momento, doveva starsene tranquilla e zitta, e con quel silenzio esprimere tutta la sua riconoscenza per essere stata accolta in famiglia invece di vedersi spedita in una di quelle gabbie per anziani. Se poi non si accorgevano che lei non era rimbambita e per comodità si sostituivano a lei in tutto, non doveva lamentarsi, c’era al mondo chi stava peggio. Il fatto era che lei non si sentiva per niente vecchia, erano gli altri a restituirle quell’immagine, che a lei non garbava. Si sentiva paralizzata nei loro pregiudizi, come se una persona, per il solo motivo di essere avanti negli anni, non dovesse più avanzare richieste o esprimere pareri, ma limitarsi a ringraziare chiunque si fosse preso cura di lei. Quello era per lei un tarlo, proprio non riusciva a spiegarsi perché e come, a partire da un momento indefinito e non collocabile nel tempo, improvvisamente un anziano diventasse vecchio e tutti, intorno, si arrogassero il diritto di decidere e di scegliere al suo posto. Lei aveva lasciato fare per non essere causa di disappunto, ma era fermamente convinta che fosse ingiusto negare a una persona matura come lei il diritto di continuare a usare la propria testa.
Alberto si alzò. Avrebbe bevuto il caffè nello studio, doveva rivedere degli appunti prima di tornare in banca. Erano stati mesi duri per lui: la morte del padre e ora la mamma da accudire come una bambina che resta male se non le si presta attenzione. Sapeva bene che per sua moglie Nadia tutto si era fatto più complicato, l’aveva sentita sfogarsi al telefono con Rita, la sua amica. Non ce la faceva a occuparsi del lavoro, dei figli, della casa e ora anche della suocera che non le era mai andata a genio, questione di pelle, niente di personale, tutto sommato una brava donna, ma trovarsela in casa, così, all’improvviso – era stato un infarto quello del suocero – le aveva dato l’impressione di essere lei stessa ospite e non più padrona. Lei, grande amante della sua indipendenza, del suo spazio, aveva perso la libertà, si sentiva osservata, quasi spiata, a disagio con la suocera in casa. Finiva per trattare male anche Alberto e i figli, senza motivo, senza volerlo. Ma non la si poteva lasciare sola nel suo appartamento: era la madre di Alberto, la nonna dei suoi bambini, doveva avere pazienza. Ciò che più la infastidiva era quella sua aria di sufficienza anche quando lei si sforzava di essere gentile e affettuosa nei suoi confronti. Ma cosa pretendeva in fondo? Quando però la sera, prima di andare a letto, passava davanti alla camera della suocera, non poteva fare a meno di cacciarci dentro la testa, le bastava sentire il suo respiro per andare a dormire tranquilla, quello era il momento più dolce della loro convivenza.
Alberto era sicuro che Nadia le voleva bene. I suoi toni a volte potevano risultare bruschi, ma era il suo modo di fare, sempre divisa tra mille impegni per tenere in vita tutto e non far mancare niente a nessuno, loro erano abituati a quei ritmi, la mamma no. “Mamma”, ricordò quanto per lui quella parola fosse stata misteriosa, sin da quando era bambino, perché in quei suoni sentiva racchiuso il segreto della vita. Era cresciuto gridando a gran voce: “Mamma!” tutti i giorni della sua vita, fino a quando aveva poi lasciato la casa dei suoi. Ma l’eco di quel suono lo aveva accompagnato, confortato, sorretto nei momenti duri, perché da quel suono aveva sempre attinto ogni energia. Vederla ora inerme, silenziosa, senza più progetti, lo rattristava. Dopo la morte di suo padre lei era diventata introversa, insieme al marito doveva essersi spenta anche una parte di lei e ora gli sembrava che la mamma non avesse più sogni. Povera mamma, aveva finito di correre e di penare. Ora doveva essere lasciata in pace.
Dopo solo pochi minuti la porta dello studio si aprì e Giulia fece capolino con un sorriso energico.
“Papà, questa sera ceno da Luciana, mi accompagna la mamma, puoi venire poi a prendermi? Ti faccio uno squillo.”
“Va bene, a stasera.”
“Grazie, papi.”
Gli mandò un bacio e richiuse in fretta, sapeva che quando si ritirava nello studio, non gradiva essere disturbato. Quella sera a casa di Luciana ci sarebbe stato anche Marco, si sentì una rosa vanitosa, si promise che avrebbe trovato il modo per non passare inosservata. Non doveva lasciarsi sfuggire quell’occasione. Marco le piaceva troppo! Volteggiò e saltellò intorno al tavolo, accarezzando l’idea che anche lui potesse trovarla interessante.
Chissà se la nonna alla sua età era già stata innamorata? La guardò mentre piano sorseggiava il suo caffè. Avrebbe voluto chiederglielo, ma preferì non farlo, la nonna avrebbe cominciato a raccontare e lei non sarebbe più riuscita a contenere quel fiume in piena, troppi compiti, non poteva rischiare, magari un’altra volta. Povera nonnina, anche se non lo diceva, si vedeva che nonno Pietro le mancava tanto. Ma lì con loro doveva stare bene, almeno non si sarebbe sentita sola. Le diede un bacio sulla guancia.
“Vai a studiare?”
“Sì, nonna, a dopo.”
Luca aveva intanto rovesciato il suo cesto di giochi sul tappeto. La nonna lo osservava. Sarebbe rimasta lì, ancora per un po’, ad assistere alle sue proiezioni di fantasia come a uno spettacolo. Quelle pistole giocattolo sul pavimento però non le piacevano. Lei le avrebbe volentieri portate via, trovava che fossero un silenzioso invito alla violenza. No, a suo figlio lei non aveva mai messo in mano oggetti simili. Strano che Alberto lo permettesse, ammesso che avesse mai avuto il tempo di rovistare tra i giochi dei suoi figli. Ricordò che una volta gli avevano regalato una mitraglietta, lui ne era rimasto affascinato. Lei gli aveva dato il tempo di osservarla, di capire come fosse fatta, gli aveva anche spiegato come purtroppo venisse utilizzata, sebbene l’idea di guerra non fosse un concetto tanto facile da comprendere per un bambino. Poi, con pazienza, lo aveva invitato a disfarsene, buttandola via, ed erano corsi a comperare un altro gioco. “Perché zia Laura mi ha regalato un gioco che non posso usare?” le aveva chiesto lui teneramente mentre camminavano per strada. “Voleva che tu imparassi a riconoscere i pericoli del mondo,” gli aveva risposto.
Lei aveva sempre pensato che per costruire un mondo migliore sarebbe stato necessario cominciare dalle piccole cose, da semplici gesti, dalla quotidianità. E sapeva di non sbagliarsi. Ora che della sua vita poteva cominciare a tirare le somme, doveva riconoscere di non aver fatto niente di speciale, niente per cui meritasse di essere ricordata oltre il tempo della sua prole, ma di una cosa era certa e orgogliosa, e cioè di non aver mai incitato al disaccordo, di aver tentato sempre di costruire pace intorno a sé, anche a costo di sacrifici, di rinunce. In quel modo lei sentiva di aver contribuito alla pace universale e, ancora adesso, da quella poltroncina accostata alla finestra che dava sulla strada, continuava a prestare la propria opera per la pace di tutti, con la preghiera. Chi non la conosceva poteva pensare che lo facesse perchè ormai anziana e preoccupata di salvarsi l’anima nel caso Dio esistesse davvero, ma in realtà lei aveva sempre creduto nella forza della fede e della preghiera. Sin da bambina, pregare per lei non era mai stata un’abitudine, ma un dolce bisogno, un grande desiderio che non era mai riuscita a placare, e nella misura in cui quella fede era cresciuta, lei si era scoperta sempre più libera, leggera persino nella fatica.
Ora si guardava intorno e cercava di capire quale fosse davvero il suo posto. In quella casa, pur circondata da ogni agio, lei si sentiva in imbarazzo. Si alzò. Si guardò le gambe, poi le braccia. Non era disabile, lenta forse, ma non disabile. Ebbe improvvisamente voglia di tornarsene a casa, nella sua casa. Come aveva fatto a pensare che lì, senza Pietro, si sarebbe sentita sola? No, in effetti lei non lo aveva mai pensato, erano stati gli altri a farglielo credere. Sì, doveva andare via, tornare nel suo mondo, non era tipo da rintanarsi in un cantuccio in attesa che la morte arrivasse a liberare tutti dal fardello di un impegno morale. Dove erano i suoi libri? Anche quella casa ne era piena, ma non erano i suoi, non li riconosceva, aveva provato qualche volta, in quei cinque mesi, a sfogliarne qualcuno, ma le era sembrato di non capirci niente, di non riuscire a orizzontarsi. Nei suoi, tra asterischi, sottolineature, punti esclamativi e di domanda, si era costruita il proprio mondo e adesso lo rivoleva. Erano andati i tempi in cui lei aveva camminato sicura tra i muri alti della vita con la curiosità e la voglia di abbatterli uno per uno, lei adesso aveva bisogno di muretti bassi, su cui adagiarsi e riposare.
Nadia stava intanto riordinando in cucina. Il tintinnio delle stoviglie si sovrapponeva alle animazioni giocose di Luca. Si sollevò dalla poltroncina e lentamente cercò di raggiungere Nadia.
“Hai bisogno di qualcosa?” chiese gentilmente Nadia, vedendola comparire sull’uscio.
“Sì, ho bisogno che qualcuno mi riaccompagni a casa.”
“Perché? Cosa devi prendere?”
“Quello che ho lasciato.”
“Mamma, non puoi portarti dietro tutto, nella tua camera non c’è tanto spazio!”
“Appunto! Riportatemi a casa.”
Nadia la guardò senza proferire parola. Sapeva bene che per tutti gli anziani prima o poi arriva il momento in cui cominciano a sentirsi confusi, disorientati e non c’è niente da fare per cambiare quella realtà. Per lei poi, che adorava suo marito, restare senza di lui doveva essere stato un vero trauma. Ma adesso, cosa poteva dirle? Sentì intanto Alberto che si preparava a uscire. Si mosse verso di lui.
“Tua madre dice di voler tornare a casa.”
“Perché mai, mamma, non stai bene con noi?” chiese lui meravigliato, cercando intanto tra i momenti più recenti qualcosa che potesse averla turbata o infastidita.
“Sto bene, ma devo tornare a casa.”
“Sì, ma come faremo? Tu non puoi stare tutto il tempo da sola!”
“Chiama Stefania, dille di tornare a prendersi cura della mia casa, del mio giardino. In sua assenza, ci sarà il telefono, non preoccuparti. Starò attenta a non cadere, a non farmi male, non aprirò agli sconosciuti.”
Alberto ebbe l’impressione di riascoltarsi quando da piccolo le prometteva di non combinare guai. Povera mamma, non poteva deluderla, così come lei non lo aveva fatto mai con lui. Lui aveva dato per scontato che insieme a loro sarebbe stata meglio, ma doveva riconoscere di non averle mai chiesto il permesso di portarla via con sé.
“Va bene, mamma, ti riaccompagno io, dammi il tempo di avvertire in banca che questo pomeriggio non ci sarò.”
“Sapevo che avresti capito.”
Alberto la abbracciò e la baciò, non lo faceva dal giorno in cui era morto il padre.
Nadia si allontanò un attimo per fare una telefonata. La sentirono avvisare in ufficio che aveva bisogno di un pomeriggio libero. Giulia era intanto uscita dalla sua tana, aveva avvertito qualcosa di strano nell’aria, troppe voci quando invece ci sarebbero dovuti essere solo i rumori di Luca. Nel frattempo lui aveva riposto i giochi ed era corso ad aiutare la nonna che raccoglieva la sua roba sorridente, serena. Erano lì, intorno a lei. L’avrebbero accompagnata tutti insieme. Quel momento da lei tanto atteso era finalmente arrivato.
I loro pensieri si incrociarono.
Sarebbe mancata a tutti, ne era certa.
Non potevano sbagliarsi, avrebbe sentito la loro assenza.

Fu un sollievo per lei varcare la soglia di casa e camminare lungo il corridoio, facendo scorrere piano la mano sulle pareti come per sentirne i battiti. Il cappello di Pietro era sempre lì, dove lui lo aveva lasciato. Alberto lo prese per sistemarlo in qualche armadio, ma lei lo fermò, era su quella sedia che avrebbe voluto continuare a vederlo. Le diedero una mano ad aprire porte e finestre per far cambiare l’aria, poi a rimettere a posto la roba che lei tirava fuori dalla valigia in silenzio. E poi fu finalmente sola. Non aveva voluto che si fermassero a lungo. Aveva dato loro il tempo di assicurarsi che tutto potesse essere tenuto sotto controllo anche a distanza, poi li aveva salutati. Nadia, abbracciandola, aveva trattenuto per qualche istante la guancia contro la sua, lasciandole intendere con quel gesto il rammarico per non essere riuscita a dimostrarle affetto sincero. Lei l’aveva rassicurata con un sorriso. Dal balcone li aveva poi visti sbucare dal portone e tutti insieme alzare gli occhi verso di lei. Li aveva accompagnati ancora con lo sguardo sino a vederli allontanare in macchina e sparire dietro la linea dell’orizzonte.
Finalmente sola, nuovamente a casa. Le venne fame. Alberto le aveva riempito il frigorifero, ma a lei sarebbe bastato poco, molto poco. Si preparò un tè e se lo portò in sala sul tavolino tra le due poltroncine in cui lei e Pietro erano soliti sedersi. Non si sentiva sola, la sua era stata una vita matrimoniale intensa, ricca, Pietro le mancava, ma non le aveva lasciato il vuoto. “Chi ha saputo dare amore non lascia mai il vuoto,” si disse. “Ma tanta forza, quella che ora mi spinge ad avere ancora voglia di vivere e di fare. Cosa? Qualcosa mi inventerò, come ai vecchi tempi.”
Il giorno seguente avrebbe mandato Stefania a comprarle tele e colori. Intanto sentiva che Pietro era sempre con lei.
Sorseggiò il suo tè, che trovò delizioso. Ebbe la certezza di non essere invisibile, non tra quelle pareti rivestite di ricordi e di libri, avrebbe riletto le tante pagine dimenticate e si sarebbe procurata altri. Posò lo sguardo sul Vangelo, accanto alla teiera, su quel tavolo irrorato dalla luce che filtrava attraverso i vetri. Sentì l’anima rinvigorita. Sentì forte il palpito della vita, della sua vita. E fu Letizia.

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