Opere di

Vincenzo Ferro


Con questo racconto è risultato 6° classificato – Sezione narrativa alla XV Edizione del Premio Letterario Città di Melegnano 2010


Novello Joyce

Non si stanca mai. Non si ferma mai. Ti emoziona, ti confonde, ti fa piangere… non ti fa “crescere”.
Parlo della memoria e di tutto quello che ti permette di ricordare. Mi sembra di ritrovarmi davanti ad un Juke- box, abbastanza grande da poter contenere tutti i miei ricordi. Io pigio sulle lettere
corrispondenti a quel ricordo e lei è già pronta.
Non solo mi fa rivivere quelli da me richiesti ma, quasi in random, mi proietta all’improvviso altri e mi catapulta in quelle scene che mi abbrancano senza permettermi di uscirne.
A volte ricordo particolari che nemmeno immaginavo di avere, che mi stupiscono e dico con meraviglia: «Ma non può essere… ho fatto anche questo? Questo è successo a me?».
Ciò che mi turba è la tendenza a spingermi sempre verso la giovinezza e per quanto sia avanti negli anni e per la mia attuale condizione, mi raffiguro da eterno ragazzino o quantomeno giovane.
Se penso al mio volto, se mi chiedo come sono, difficilmente considero rughe, capelli bianchi o altro ma traccio l’identikit di un ragazzo o, al massimo, di un quarantenne se voglio proprio contenermi.
Ma in fondo quali ricordi ho della mia vecchiaia? Non la percepisco nemmeno! E allora come posso rappresentarla? È un luogo in cui non sono mai stato e vado, giorno dopo giorno, a scoprirlo
con il dovuto timore e tanta noia.
Per fortuna ho le mie ali memoriali che in un fiat mi conducono dove voglio io o dove il caso (la memoria)ha deciso di portarmi. E decide spesso senza alcun permesso e da maleducata.
Ieri, e altre volte come ieri, stavo ripercorrendo il mio primo goal quando giocavo a calcio da semiprofessionista, guadagnavo abbastanza per permettermi bisogni, capricci e restava ancora tanto e quel primo goal mi entusiasmava, mi faceva sentire un novello Baggio.
Rivedevo gli spalti gremiti fino all’inverosimile di appassionati spettatori e tifosi che accoglievano la mia rete con un boato di gioia fino allora repressa e…. sono a casa mentre mio padre, nero come la notte mi sballa a schiaffoni perché reo di aver fumato e un ragazzino di quindici anni non può, non deve! Capite perché dico che la memoria è maleducata?
Mio padre mi ha trovato dentro la tasca esterna della giacca tre sigarette dentro una bustina di carta. Quelle bustine che si usavano ai tempi in cui le sigarette si vendevano sfuse… bei tempi.
Ora stanco del rimprovero e delle mazzate si siede e si concede una sigaretta che lo possa calmare!
Lui fuma e mi rimprovera per lo stesso vizio. Anche Svevo ricorda lo stesso particolare!
E la memoria, ora mi proietta il film su mio padre: pregi e difetti! Un’ola si alza dallo scranno dei giurati e puntiamo tutto sui pregi.
Come mi ha colmato! Ero un vuoto contenitore e se oggi trovo qualcosa nel mio animo, nella mia testolina devo quasi tutto a lui e alle sue continue liti e discussioni.
La storia, la geografia, la musica, lo sport, i valori, l’onestà a costo di passare per fesso, il rispetto, la puntualità e quante e quante altre cose. Mi ricordo le continue gare sulle date, i luoghi, le capitali, i nomi e quella musica così antipatica, noiosa che mi propinava ogni giorno e dopo, sempre tardi, a non voler smettere di ascoltare, mentre studiavo o leggevo, Mozart, Respighi, Vivaldi e se non riuscivo a riprodurre i suoni mi estasiavo ad ascoltarli. Bisogna sempre educare ed essere di esempio. E come appresi da lui a fumare, amai allo stesso modo, il cielo, la terra,la musica e la lettura che ti portavano per il mondo senza scollarti dalla sedia. Ma questo dopo… molto dopo.
E intanto lui, il ricordo, non si ferma e mi porta alle mie paure…. per anni sono stato legato dalle mie paure. Da bambino ma anche oltre, la paura dell’Inferno fu una costante. Vedevo la spada dell’angelo sempre accanto ma non mi impediva di mentire per non buscarle, di sgraffignare qualche soldino per i miei acquisti (gelati, figurine, fumetti) e in seguito, quando mi smanettavo senza sosta per calmare,tentativo sempre vanificato, le mie insane voglie.
Ogni sera non appena spegnevo la luce il buio mi terrorizzava. Non c’era più la spada dell’angelo che temevo ma il ghigno del diavolo che echeggiava nelle orecchie e non mi permetteva di dormire. Chiedevo nelle mie preghiere come essere santo o almeno non dannato e man mano (cioè passando Il tempo) mi accorgevo che qualcosa non quadrava.
Veramente questo passaggio lo esprimerò in maniera molto rapida, ma passò parecchio tempo.
Non quadrava questa bontà infinità di Dio. Determinai la mia verità. La verità in fondo che faceva comodo per superare le mie paure. Se Dio è infinito amore, poteva, quest’infinito, farsi scalfire da peccatucci dozzinali. Non poteva e iniziai a quietare le mie paure che divennero però altre, più… gravi in quel momento.
Sentivo il matrimonio dei miei in crisi. Vedevo ogni giorno la loro noia, il loro disaccordo, le loro liti.
Spesso erano liti furibonde che terminavano con lo sbattere della porta . Mio padre usciva per non sentire i pianti di mia madre. Sarebbe ritornato? Ma se fosse ritornato quella sera, non significava che non sarebbe potuto andar via il giorno dopo, o l’altro… prima o poi poteva accadere e cosa sarebbe successo?
Non immaginavo la vita senza mio padre e se la immaginavo la vedevo nera e senza un soldo. Io non sapevo fare nulla e allora? Saremmo andati io e mia madre a chiedere l’elemosina agli angoli delle strade? Cercavo di ammansire mia mamma chiedendo timidamente cosa stesse succedendo ma lei mi rispondeva sempre allo stesso modo: «Tuo padre è un porco!» che bilanciava il pensiero
di mio padre: «Tua madre è fissata… è pazza!». Poi capii, un po’ più avanti, ma già avevo compreso che mio padre non sarebbe andato via, pur restando un porco per mia madre.
Avevo già intuito che per l’uomo essere porco era un pregio e io mi accodavo a questo emblema culturale. Avrei considerato col tempo“pazza” mia moglie? Intanto aspettavo di essere anch’io definito un porco!
Sempre con la forza delle mie verità, cercai di determinare altro. Il corpo era tabù?! Dovevo rispettarlo? Offrirlo e mantenerlo puro e casto fino al matrimonio? Ma scherziamo! Mi spiego.
Guardiamo gli animali. Loro non si innamorano ma per la continuazione della specie, periodicamente, la femmina entra in calore e il maschio, per possederla, attizzato da strani umori,
odori, deve superare la concorrenza di altri come lui, infoiati da morire e pronti alla lotta pur di non farsi scappare la femmina che vuole il forte per dar sicurezza alla sua prole. E resta gravida.
Ma la donna no! Ogni giorno ama e può essere amata. E non serve l’amore, basta la voglia. E basta un uomo anche di scarso peso, di misera forza, di misure minime e se con un buon portafogli carico di frusciante denaro, risulta il migliore. E allora perché queste fregnacce? Motivi religiosi zero!
Motivi sociali e culturali tanti! Non c’era nulla di sacrale, c’era soltanto il possesso.
È la stessa idea culturale che sottomette nella cultura araba-mussulmana, l’appartenenza dei figli all’uomo e solo a lui e il cognome che da sempre è stato appannaggio del maschietto, in questo mondo maschilista perfino nelle latrine ma poi in ogni casa, chissà perché, comanda una donna.
Alcuni dicono che è il suo mondo e i maschi, eterni Peter Pan, le fanno comandare per sentirsi meglio e fare anche poco.
Non mi sono mai occupato della mia stanza. Mai fatto il letto e reputo, anzi ora ne sono sicuro, non
lo farò mai. Non ho cercato di imparare ad essere un buon massaio e tranne due uova in padella o una bistecca o due spaghetti burro e parmigiano, ma che non risultarono mai due, o controllare la cottura di una cotoletta. Il mio essere “ donna” finiva lì. Ero pigro, polemico e porco.
Non mi affannavo a cercare le mie donne e se le trovavo ero già pronto a trovare ogni piccolo difetto nella mia compagna che veniva in poco tempo tradita, soprattutto con la sua migliore amica.
Era il mio hobby preferito. E, una volta, in assenza di amiche mi feci la sorella più grande, zitella e un tantino racchia ma era il mio sentirmi vivo.
Essere vivo! Cosa vuol dire! Era sentirsi vivi quando ci buttavamo sulle bottiglie fino a ubriacarci e non capire nemmeno quale fosse la mia mano? Era sentirsi vivi quando andavamo in giro, la notte, a dar fastidio e basta, solo per il gusto di farlo? Se incontravi un extracomunitario o straniero in genere era un divertimento, o un barbone o una puttana… quante legnate, abbiamo dato per sentirci vivi e forti, perché da solo non lo avrei fatto mai, non avevo il coraggio e… non mi piaceva!
Questo lo capì dopo,parecchio dopo e tutte le stronzate che avevo fatto mi sembrarono orrori da gestapo, da campi di sterminio.
Quando cambiai? Non c’è mai una data ma la memoria mi presenta il momento, con una esattezza millimetrica.
Sono davanti ad una tomba. C’è chi piange e non si dà pace e chi è muto, senza più lacrime.
Avevamo deciso di sfidare ogni legge, ogni probabilità, la fortuna. “Bucare! la tangenziale!
La cosa più difficile al mondo. Entrare senza fermarsi allo stop significava incidente sicuro e noi avremmo rischiato.
Scegliemmo di “bucare” un sabato alle undici, sicuri che avremmo trovato una tangenziale affollata quanto bastava ma non intasata… le macchine dovevano poter camminare, correre. Entrare in tangenziale nell’ora di punta saresti stato tamponato a dieci all’ora… che pericolo
correvi! Quando stabilimmo di entrare, andavano anche a centotrenta.
Com’era bello sentire il prurito dell’adrenalina e “sparapacchiato” sulla tipo, fumando il mio spinello, aspettavo che Andrea prendesse velocità, prima di bucare.
Aveva in mano l’ennesima birra e ora correva e superando un lento trabiccolo sulla rampa d’accesso, mentre la macchina strusciava il paracarro, entrammo senza che nessuno ci avesse annunciato tra la sorpresa e la paura di parecchi guidatori che non sapendo come evitare i due pazzi su quella macchina assassina, si affidavano all’istinto e alla fortuna.
Accadde di tutto e non ricordo quasi nulla, tranne le nostre stronze risate iniziali. Sta di fatto che carambolando noi e gli altri alla fine molti ammaccati, io con una gamba fratturata in più punti e
Andrea che non avrebbe potuto ricordare più nulla, che non avrebbe potuto bere un’altra birra, che non avrebbe potuto ridere ancora come un bambino come gli capitava sempre…. Morto!
Io ero vivo ma per parecchio tempo fui morto dentro. Mi sentivo colpevole di tutte quelle lacrime, del dolore di due genitori che avevano scommesso tutto sul quel fanciullo mai cresciuto.
Io non ero stato capace di fermare la nostra stupidità! L’avevo invece alimentata sulle ali della vita spericolata.
Dalla morte dentro si esce o con un suicidio di un momento o di ogni giorno oppure cambiando radicalmente e vivendo un’altra vita.
Avevo vissuto per me e per niente, ora volevo vivere per gli altri e sentirmi parte del tutto.
Lasciai l’università dove da più anni avevo parcheggiato il mio corpo e i soldi di mio padre, frequentai un corso infermieristico e per la prima volta studiai e seguii con attenzione e dopo
aver lavorato un anno in un ospedale, mi offrii ad una organizzazione onlus che operava in vario modo tra il Sudan e la Palestina. Per sei anni, tra guerre, pericoli e miracoli. Io ero un miracolo e non perché mi sentissi un eroe ma perché scoprivo la vita e riuscivo ad amare, a lottare, a ridere senza bisogno di droghe, di alcool o di puttane. Non significa essere un uomo, significa non essere animale o un pupazzo in mano ad acidi o bottiglie.
E conobbi anche l’amore, quello di una splendida ragazza che lottava ogni giorno per la propria patria, per il proprio popolo, per la propria famiglia e rischiava la vita all’interno dei campi profughi.
Nadiria era di Gaza e mi amò con la forza di chi sa quanto possa essere precaria la vita, la felicità.
Lei si era abituata a godere dell’attimo. Ogni giorno che viveva era una vittoria. Esisteva il passato e il presente. Guai a vivere per il futuro. Il futuro non esisteva. E noi non pensavamo a formarci una famiglia, a mettere al mondo figli… era così precaria la nostra vita, così difficile tirare fino all’alba, al nuovo sole. Lo sapevamo! Ma non si immagina quanto possa essere doloroso non rivedere più chi ami e non perché tu sia lontano ma perché una pallottola te l’ha portata via, una pallottola che ha voluto uccidere una ragazza che con una borraccia cercava di dare da bere a una bimba dilaniata da una mina. Non la trovai più! Non vidi più i suoi occhi, non strinsi più il suo corpo e non bastò che la memoria mi proiettasse minuto per minuto, con metodico sadismo, il suo volto, i suoi baci.
Qualcuno mi disse: “si paga sempre!” Cosa dovevo pagare? E pagavo con la vita degli altri?
Che balle!
Sono su un prato e corro, corro, sembro una lepre con una muta di cani che mi viene dietro… ma è solo la campestre che mi vedeva, a quindici anni, anche se fumavo e mi smanettavo, campione regionale.
Com’ero bravo a correre e come non riuscivo a stare fermo. Come potevo studiare e come potevo stare attento.. «Signor Enrico… è sveglio?… come va?… ha dormito?… è pronto per il nuovo giorno?
Ora ci laviamo e poi facciamo colazione. Ho comperato i giornali… mi sa che ci sono belle notizie…».
Mariangela è la mia infermiera! Una ragazza di ventisette anni bella come il sole che fa del mio corpo tutto quello che vuole… ma non quello che state pensando. «Se è pronto mi faccia un cenno».Chiudo due volte gli occhi e lei, in un niente, mi gira su un fianco, poi su l’altro il tempo di lavarmi, asciugarmi, incipriarmi e robe varie, poi davanti…. e pensare che all’inizio mi vergognavo di questa bellissima ragazza… magari potevo eccitarmi, sono sempre nudo a causa dei mille tubicini, ma dimenticavo d’essere quasi un vegetale, anzi, un masso con una faccia che ha qualche piccolo movimento, occhi vivi e una testa che galoppa senza sosta, senza sentire alcuna fatica. Cos’è successo? Una scivolata, una stupida scivolata e una tremenda botta alla spina dorsale. La morte del corpo. Sono solo cervello e tubicini. Kevin Kostner, uno degli intoccabili dell’omonimo film era solo tessera e distintivo, per il mafioso De Niro, io solo cervello e tubicini.
La cosa strana, sulla scorta dei miei consueti pensieri da “vivo”, è che non ho mai invocato la morte.
Mai! Questo poter ricordare mi inebria, mi esalta!
Prima non ricordavo con tanta precisione, facevo fatica a ripetere frasi, pensieri che magari avevo letto da poco tempo, ora invece ricordo poesie, racconti studiati nei lontani anni scolastici.
Mariangela ha aperto quasi tutta la serranda e la luce che entrava appena dalle tapparelle, ora inonda la stanza. Ora è un tripudio di luce e di miriadi di granellini di polvere che intravedo. Sembra la scia che nelle fiabe precede l’arrivo del principe azzurro. Quale principessa azzurra ci vorrebbe per liberarmi dalla malia? E lei mi appare subito! Non serve chiamarla. È sempre pronta al primo richiamo, alla prima associazione. Nadiria è vicino a me in tutto il suo splendore. Non tralascio nulla e il suo corpo è di nuovo mio, e le sue labbra e il ricordo si fa follia, si fa cocente delusione ma benedetta sofferenza, benedetta tristezza…. È questo che vuole l’amore e vorrei altre sofferenze ma non dimenticare mai i suoi occhi, i suoi baci e morirei cento volte se potessi scendere nell’Ade e riportarla in vita… il mio dolcissimo amore.
Esiste l’eternità! L’eternità è l’amore che mi sorregge. Pochi attimi della mia vita e non la dimenticherò mai. Lei non mi ha mai detto «Sono stanca… ho paura… mi ami» lei amava e non parlava mai di lei ma chiedeva solo e sempre di me o degli altri. Solo ora lo comprendo ora che nel silenzio comprendo e decifro la vita.
Un messaggio sul cellulare e Mariangela lo legge e col sorriso impercettibile ma troppo visibile degli occhi, risponde velocemente. Il seno si alza, si abbassa. È il suo ragazzo! Ora capisco con poco. Mi legge il giornale. È di oggi! Ma le notizie sono sempre le stesse. Sempre uguale la violenza, la miseria, l’arroganza, l’ipocrisia… non c’è traccia d’amore! Anche la Chiesa manifesta il degrado. Per troppo tempo lo ha nascosto, ma ora è esploso e non si sa se ne verrà fuori.
Ormai non mi curo di ciò che mi propina la mia infermiera. È già la terza fiala che scivola dai tubicini.
Perdo il conto e non conto.
Capisco, sempre tardi, quanto poco contavo quando ero gregge. Quando appartenevo a quel numero che avevo scelto col mio comportamento. Stessi capelli, stessi vestiti, stesso linguaggio, stessi interessi, stessa stronzaggine. Invano uno dei miei prof. ci diceva di mantenere la nostra identità e di non essere come tanti chiodi, tutti uguali, così anonimi. Si muoveva il gregge.
Uscivamo allo stesso orario e ci incamminavamo verso gli stessi posti che se cambiavano, inspiegabilmente, cambiavano per tutti senza che nessuno sapesse perché o chi lo avesse determinato.
Oggi quel locale, domani un altro. Tornavamo sempre allo stesso orario e con la faccia annoiata e macilenta di sempre e se ci chiedevano cosa avessimo fatto, ripetevamo che ci eravamo divertiti un sacco senza nemmeno sapere cosa avessimo fatto, tanto strafatti o ubriachi.
Non avevamo sentimenti e vivevamo di pulsioni dettate da altri o da altro.
Mi sento tanto uomo oggi, tanto individuo! Potrebbe sembrare strano ma bisognerebbe aver vissuto il nulla di prima. Nella mia condizione di vegetale rimpiango solo gli anni, pochi, vissuti per gli altri e che mi sorreggono al di là di ogni ragionevolezza. Amo la vita e voglio ancora vivere perché ho vissuto quegli anni e spero che la memoria sia ancora clemente con me e mi racconti, giorno dopo giorno, ciò che mi ha reso veramente felice. Sarò riconoscente per quello che mi dà a perdonarla anche quando si comporterà da perfetta maleducata.

Vincenzo Ferro



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