Pensce ”i… pa”olle - (Pensieri… parole)

di

Vincenzo Bolia


Vincenzo Bolia - Pensce ”i… pa”olle - (Pensieri… parole)
Collana "Le Schegge d'Oro" - I libri dei Premi - Poesia
14x20,5 - pp. 152 - Euro 11,00
ISBN 978-88-6037-9085

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II Edizione ampliata


In copertina: «Albenga, le torri» di Giuseppe Ferrando


Mi è parso significativo, per me stesso come nell’interesse del lettore, riunire in questa nuova e più completa versione del volume le due prefazioni, quella anteposta alla prima uscita e questa, incaricata di accompagnare l’edizione accresciuta di Pensieri… parole, poiché entrambe, consequenziali e integrative l’un l’altra, non soltanto favoriscono la comprensione del senso poetico (e affettivo) che sovrintende alle ragioni ispirative dell’opera, ma costituiscono, insieme, un esaustivo (se pur breve) intervento critico sullo spirito e sull’evoluzione dei miei ‘versi liguri’.

Vincenzo Bolia


Prefazione alla I Edizione

Quasi il verso possedesse una sua coreutica, una forma di percettibile fisicità, un suo andamento gestuale: la parola poetica di Vincenzo Bolia sembra in tal modo sporgersi da se stessa andando incontro alla lettura, mente si avvolge di persuasiva intonazione e crea un tessuto di carattere emozionale che arriva diretto al fruitore e lo coinvolge. “Un tenue fil di pianto / io sento dietro un monte / smarrirsi come un canto / laggiù all’orizzonte. / (…)”, si dice in un passo del libro: sono questi spazi sulla soglia di un’altra nozione di spazio già portatrice di una spazialità metafisica (riflessa, per esempio, in quel qualcosa di tenue, dolorosamente flebile, ma udibile, contro ogni logica del ‘reale’, da “dietro un monte”) a raccogliere gli apici di lirismo dell’autore, per il quale il vero non è che l’aspetto immediatamente riconoscibile del verosimile.
In un altro caso e contesto, avendo avuto l’occasione di considerare l’opera di Bolia, scrivevo con convinzione dell’“apertura dell’enunciato offerta a plaghe areate, a spazi paesaggistici ora giocati sul dettaglio o sullo scorcio e ora sconfinati, ora descrittivi e ora metaforici”, aggiungendo, inoltre, come tutto ciò, in una prospettiva etico/estetica, sapesse fornire un’attualizzata continuità al clima della ‘scuola ligure primo-Novecento’.
Resto, naturalmente, della stessa idea, anzi, la ribadisco, e sottolineo ulteriormente il legame affettivo e culturale che Bolia ha instaurato con la propria terra; tuttavia, basandomi ora su un più vasto repertorio testuale, sento quelle pur sottoscrivibili indicazioni limitative di fronte a una così vasta istanza poetica. Non vi è, infatti, spazialità di risonanza e d’immagine, nella scrittura di Bolia, che non abbia (anche nella pura referenza, talvolta finanche geografica, delle ampiezze ispirative) un rilievo di marca esistenziale. In altri termini, il poeta guarda e trasforma; il luogo reale si fa luogo della mente (d’altra parte, la Liguria – la sua Albenga – è, per lui, luogo reale e luogo della mente); la coscienza dell’hic et nunc si fa presupposto di linguaggio; e dunque, l’aria e l’immensità, il senso delle cose e l’universo, una montagna e il mare, l’acqua e le tenebre, si fanno infine respiro della parola e dinamica del codice poetico in divenire; e pure il sonno e il sogno, l’illusione e l’assenza, la memoria e la preghiera sono spazi in cui il macrocosmo è riverberato dal microcosmo e viceversa.
La totalità dell’essere in, dell’esistere per, è il progetto primario di questa scrittura in versi, dove niente va disperso e ogni elemento, dal gusto visuale alla seduzione acustica, trova ragione di sé e condensa espressiva nella peculiare accezione di intima cantabilità (tra l’altro, fisionomizzata dalla ‘sinuosità grafica’) che, mentre sovrintende al primo piacere della comunicazione, accompagna la conoscenza della poesia nei meandri nascosti dei significati profondi.
Del resto, Bolia non si accontenta – né si potrebbe mai accontentare – del ‘sentimento semplice’ o univoco. In Staffetta, poesia a un tempo diretta ed enigmatica, si legge: “(…) / Voi vivete in me / ed io in voi / e il testimone della vita / continuerà a passar / di mano in mano.” È un passo quasi biblico, ermetico e illuminante nel sostanziarsi all’interno dell’ineluttabile, di un dogma legato ai contenuti della vita. Eppure, alla constatazione si unisce l’accettazione, all’accettazione la scoperta dell’Io negli altri e nel mondo, con le sue implicazioni, i suoi sismi.
Non stupisce che l’illustre autore abbia scritto testi per musica: la musica può, potrà sempre, rivelare intenzionalmente quell’estensione di densità lessicale peraltro già viva sulla pagina; né stupisce che alcune poesie siano previste alla doppia versione, italiano e dialetto albenganese: anche il dialetto – o, forse, soprattutto il dialetto – è una forma di estensione, di ‘espressione radicale’; e poi, nella precisa contingenza, rispecchia appieno quel legame di cui parlavo poc’anzi, ossia afferma quell’unione viscerale e intellettuale, quell’identità assolutizzante tra regione e scrittore che è di nobile origine, di solido ceppo storico, e qui, in un libro come Parole… pensieri, si realizza con la forte incisività dell’appassionato afflato affettivo.
E questo autore, cosa cerca, se non, costantemente, l’espressione radicale del proprio slancio affettivo da trasfondere nell’essenza stessa dell’offrirsi alla poesia?

Rodolfo Tommasi


Prefazione alla II Edizione

Proporre una seconda edizione ampliata di un volume è atto d’amore; significa non aver ancora esaurito, sentire ancora pulsanti, gli effetti di un profondo afflato – emotivo quanto intellettuale – nei confronti della vitalità ispirativi di quel volume così come del contesto in cui è nato, delle ragioni palesi o segrete che gli hanno fornito genesi, humus e accento.
È stato così. Pensce”i.. pa”olle (Pensieri… parole), del resto, è un libro che nell’intimo dell’autore, nelle fibre più interne e vibranti del suo universo espressivo (e lessicale), non è destinato a finire, bensì a diramarsi, ad articolarsi e a riproporsi in nuovi – e pur sempre antichi – territori dell’animo, di quell’animo attivo, creativo, che si spande nella coscienza di essere natura e civiltà, storia e idioma.
E – aggiungerei – luce e ombra di una regione, di quella forse maggiormente dolce e inquietante della penisola, capace di generare gli assordanti sussurri di Camillo Sbarbaro e di ispirare e accogliere i versi altissimi del marradese Campana, ammaliato dallo scavante potere metaforico dei vicoli angusti e degli spazi luminosamente improvvisi: la Liguria.
Quegli spazi, quella luce screpolata e seduttiva, quegli angoli di stratificate memorie che non cesseranno mai di nutrire popolo e poesia, oggi, assai frammentata o finanche esaurita la ‘classicità’ esegeticamente codificata della novecentesca “Scuola ligure”, sopravvivono e si ricostituiscono nella parola poetica di Vincenzo Bolia, saldata alla radice di questa complessa, ardua, quasi iniziatica, ermetica, riservata e pur sempre maliosa e sbocciante regione incantatrice, non tanto come a una madre, quanto nel modo in cui si può restare compenetrati al lampo inatteso e decisivo di un’apparizione, di una rivelazione, spirituale e culturale.
Bolia dedica alla Liguria versi in lingua e in dialetto: ciò ha il valore – abbastanza inestimabile, a pensarci bene – di una doppia assolutizzazione terminologica (senza contare il contributo dato all’imprescindibile sopravvivenza del dialetto, ormai indicato dalla formulazione di “lingua locale”): da un lato, si conduce l’enunciato a un largo raggio comunicativo, se ne offre l’essenza, si continua a far entrare il respiro ligure nella storia letteraria nazionale; da altro lato, tale essenza viene ancora alimentata e intrisa, accresciuta e illuminata e dagli umori della propria genesi, dalla pulsazione del proprio accento caldo di terra marina fatta di vento e di odori. È tutto questo che fa percepire Bolia; è questo che il poeta restituisce all’autenticità della poesia e alla storia.
Nell’introdurre all’edizione precedente, del 2009, di Pensieri… parole, scrivevo (e mi preme ribadire qui): “quasi il verso possedesse una sua coreutica, una forma di percettibile fisicità, un suo andamento gestuale: la parola poetica di Vincenzo Bolia sembra in tal modo sporgersi da se stessa andando incontro alla lettura, mentre si avvolge di persuasiva intonazione e crea un tessuto di carattere emozionale che arriva diretto al fruitore e lo coinvolge.” E, poco dopo, aggiungevo che “il poeta guarda e trasforma; il luogo reale si fa luogo della mente (d’altra parte, la Liguria – la sua Albenga – è, per lui, luogo reale e della mente); la coscienza dell’hic et nunc si fa presupposto di linguaggio”.
Mi sembra evidente – e lo scrivo confermando la sostanza di quelle osservazioni – come l’indagine allora condotta sulla pregnanza di inconfutabili risultati espressivi possa ora assumere, alla luce di questa seconda e ulteriormente arricchita edizione, una valenza di ancor maggiore spicco. La ragione è semplice: Bolia ripubblica, sì, ma estende; estende il repertorio lirico, estende il campo dell’ispirazione meditata, estende la superficie culturale dell’evocazione, estende il suono di una lingua magicamente efficace e puntuale, estende l’amore per la terra dei “lunatici torrenti”, i quali sono anche figurativamente interpretabili come sentimenti, estende le peculiarità di un Io-lirico, le sue ondose o estatiche modulazioni, mirando alla scoperta della purezza prorompente, della parola nuda, dell’attimo fermato dallo stupore della lingua.
Tuttavia, mi sembra giusto chiudere questa nota dando un legittimato seguito alle parole conclusive della prefazione del 2009, quando ponevo a me e al lettore un interrogativo; certo, non scaduto e senza scadenza, poiché Bolia è poeta di sempre più ampi orizzonti, ma oggi invitante a un’affermazione. Dicevo: “E questo autore, cosa cerca, se non, costantemente, l’espressione radicale del proprio slancio affettivo da trasfondere nell’essenza stessa dell’offrirsi alla poesia?” Ora rispondo: l’assimilazione completa e assoluta dell’intenzione all’esito della poesia è avvenuta.

Rodolfo Tommasi


Pensce ”i… pa”olle - (Pensieri… parole)


GIULIETTA

Giulietta,
a tò vìtta
a l’è stèta in rumanzu
che in t’in lìbbru
u nu ghe pure”ea
proppiu stà,
ina vitta sacrificà
sènpre ai âtri,
sénsa mai
in müméntu pé ti.

Me Giulietta,
mi e nu treuvu
âtre pa”olle,
pe”ò ina cösa
e te a veuïu ancù dì:
grassie de tùttu
quéllu che ti l’èi fètu,
anche pé mi.


LIGURIA

Coronata di monti
e abbracciata al tuo mare,
scavata qua e là
da lunatici torrenti,
patria dell’ulivo
e cielo ventoso,
Liguria, terra mia,
con te l’inverno
è come primavera.


LIGURIA

Curunà de munti
e abbràssa au tò mà,
scavà de sa e de là
da caprissiusi rièi,
patria de l’u”ivu
e du sé vèntusu,
Liguria, mé tèra,
cun ti l’invèrnu
l’è cumme primave”a.


ALBENGA

Com’è bella Albenga
città antica
vista dall’alto,
la torre di Palazzo Oddo
in primo piano,
più lontani
il campanile della cattedrale
e poi le torri
di Palazzo Vecchio e dei Malasemenza,
che da secoli abbracciate,
si fanno compagnia.
E tetti dappertutto
sulle rugose case ingaune.
Spero di rivederti presto,
Albenga,
mia città turrita,
affacciata sul Centa
e con l’isola Gallinara
che ti guarda da lontano.


ARBENGA

Cumme a l’è bèlla Arbenga
sittè antiga
vista da l’âtu,
a tûre de Palassu Oddu
in prìmmu ciàn,
ciü´ luntàn
u canpanìn de San Miché
e peui e tûri
de Palassu Veggìu e di Malasemènsa
che da seculi abbrassèi
i se fan cunpagnia.
E teiti dappertüttu
in scè rüguse cà ingaune.
Mi e spe”u de rivegghite prestu
Arbenga,
mé sittè da-e sèntu tûri,
affacciâ in scià Sènta
e cun l’isu”a Gallinara
ch’a te mi”a da luntan.


TERRA DI LIGURIA

Amabili colline,
ripidi pendii
disegnati ad arte,
labirinti di pietra a secco
che s’intrecciano,
dimora di olivi secolari
piegati dal vento.
Antica terra,
terrazzata,
incontro tra la natura e l’uomo,
affacciata sul ligustico mare.


TÈRA DE LIGURIA

Amabili colle
ripidi pendii
disegnèi a arte,
labirinti de pria a seccu
che i se intressàn,
cà de u”ivi seculari
ceghèi da u vèntu.
Antiga tèra,
tèrassà,
incuntru tra a natü”a e l’ommu,
affaccià in scé u ligusticu mà.


MARE TEMPESTOSO

Onde violente
s’infrangono
contro la scogliera
e il vento di libeccio
non risparmia
una bandiera dimenticata.
Barche a vela
al largo
sembrano in difficoltà,
più vicini
gabbiani affamati
volano rabbiosi
alla ricerca di qualcosa
da mangiare.
E nel mare tempestoso
della vita
l’Uomo ha fame
di Verità.


MÀ TÈNPÈSTUSU

Unde viulènte
i se franzen
cuntra a scœugge”a
e u vèntu de libecciu
u nu risparmia
ina bande”a scurdà.
Barche a vé”a
au làrgu
i pàn in difficultè,
ciü´ da vijin
uchin de mà afamèi
vo”an raggièi
a-a riçèrca de quarcôsa
da mangià.
E in tu mà tènpèstusu
da vitta
l’Ommu u l’ha famme
de Ve”itè.


FOCE DEL CENTA

Si specchia superba la luna
nell’acqua tua,
uccelli migratori
nei tuoi canneti
si danno appuntamento
e sai essere palcoscenico
per le verdi rane
che sonoramente concertano
con le cicale sugli alberi.

Acque del Centa,
l’isola Gallinara vi fa l’occhiolino
e il mare vi aspetta,
ma c’è tempo…


BUCCA DA SÈNTA

A se speggia supèrba a lüna
in ta tò ègua,
ujèlli migratori
in ti toi canèi
i se dan appuntamèntu
e ti sèi esse palcuscenicu
pe-e vèrdi rène
che sunoramènte i cuncertan
cun e siga”e in sci-i èrbe”i.

Ègue da Sènta
l’isu”a Gallinara a ve schissa l’euggiu
e u mà u ve spêta,
ma u ghè tenpu…


ISOLA GALLINARA

Vecchia tartaruga
acquattata tra le onde,
ferma e impavida
dai venti ti lasci sfidare.

Gabbiani reali
posati qua e là,
tra piante grasse e ginestre,
impassibili vigilano per te.

E verso il mare aperto
fianchi ripidi e scoscesi
con grotte aperte
dove San Martino
vi trovò rifugio.

Battezzata così
per le galline selvatiche
che un tempo ti popolavano,
amata isola, perché,
come tanti figli ingauni,
non ho mai potuto posarvi piè?


ISU”A

Veggia bisscia scrossu”a
acquattà tra e unde,
ferma e inpavida
da-i vènti ti te lassci sfiddà.

Uchin de mà reali
pussèi de lì e de là,
tra ciànte grasse e ginèstre,
inpassibili i vigilan per tì.

E vèrsu u mà avèrtu
fianchi ripidi e scuscesi
cun grotte avèrte
dunde San Martin
u gajeva truvau rifügiu.

Battesà cusscì
pe-e galine servèghe
che in tènpu i te populavan,
isu”a amà, perché,
cumme tanti fïi d’Arbenga,
nun ho mai pussciu mettighe pé?


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