Racconto premiato di Tiziano Vecellio Mancini


Tiziano Vecellio Mancini con questo racconto si è classificato al 5° posto alla XV Edizione del Premio Letterario Internazionale Il Club dei Poeti 2011


Questa la motivazione della Giuria: «Racconto interessante e decisamente pungente. La fantasmagorica telefonata dell’Ufficio Memento con la terribile convocazione per pagare la colpa di “voler cercare la felicità”: una sorta di prevenzione contro la felicità che potrebbe provocare “insane pulsioni” in coloro che la raggiungono, la perdono o la difendono per non perderla. Tiziano Vecellio Mancini è abile nel destreggiarsi in tale contesto e, in un gioco tra reale e surreale, mette nelle mani del lettore l’ultimo sigillo: estirpare la felicità è un imperativo, l’assenza di dolore è il traguardo».

Massimo Barile


L’Ufficio Memento

Livio si alzò in piedi. Per una volta aveva messo da parte la sua discrezione e aveva riservato per sé il posto a capotavola, nella prospettiva di quel momento solenne. Andò alla finestra, la aprì, e come sempre il suo sguardo attraversò il buio, lanciandosi d’istinto verso le innumerevoli finestre del falansterio che aveva di fronte e che in passato erano state fonte di altrettante ansietà. Prese dal davanzale la bottiglia di Sauternes che aveva tenuto da parte per le occasioni speciali. Tornò con calma al suo posto, accompagnato dagli sguardi appena curiosi degli amici, fissi sul suo incedere insolitamente solenne. Impugnò l’apribottiglie restando in piedi, confermando così i loro sospetti. I suoi occhi erano fissi su Claudio, che da lì a poco avrebbe annunciato agli amici riuniti il loro fidanzamento.
Squillò il telefono, nel generale disappunto.
Livio dovette lasciare la bottiglia insoddisfatta, col tappo a metà, ma era deciso a liquidare la faccenda in due battute. Raggiunse il telefono e lo prese in mano con rabbia.
«Pronto?».
Gli amici lo videro ascoltare in silenzio e via via cambiare atteggiamento, con la muscolatura del corpo che pian piano si affievoliva. Era come se un farmaco anestetico stesse facendo rapidamente effetto su di lui. Quando rimise a posto il telefono le spalle gli erano scese all’altezza dei fianchi. Si rivolse agli amici e disse:
«Devo andare: era l’Ufficio Memento».
Nella sala, chiassosa di allegria fino a un minuto prima, scese un silenzio gelido e torpido.
Capitava infatti che in momenti simili, in qualche parte del mondo, arrivasse la chiamata di quell’ufficio. Non dava mai buone notizie. E quasi sempre si concludeva con la convocazione. Claudio però non ci stava e cercò di rianimare l’amico:
«Ma si sbagliano! In fondo non hai ancora detto nulla».
«Non importa, Claudio» fece Livio stancamente. «Avevo messo il Sauternes alla finestra perché oggi c’erano undici gradi, la temperatura perfetta. Sarà stato quello. Comunque lo sappiamo, che a questo punto le parole non contano. E neanche i gesti».
«Sì ma ha ragione Claudio: a volte si sbagliano» provò a ipotizzare sua cugina Carla.
«Mah, qualcuno lo dice ma nessuno per esperienza diretta. Credo che sia una leggenda consolatoria: la speranza gli rimane utile, evita gesti disperati».
Congedò gli amici con l’impegno reciproco a non perdersi di vista, poi preparò la valigia assieme a Claudio che per tutto il tempo non fece che ripetere “ma perché? Perché a te?”.
La risposta venne data al suo uomo mezz’ora dopo, dal funzionario seduto al tavolo dell’Ufficio Memento.
«Sicché, caro signor Lentini, lei questa sera aveva intenzione di compiere un bel passo verso la felicità, vero?».
«Certo, come negarlo? Ma penso anche che non ci sarebbe stato niente di male!» disse Livio ancora deciso a sostenere le sue ragioni.
«Peccato» scrollò la testa l’Ufficiale Registratore sollevando per un attimo lo sguardo dalle carte «sono queste affermazioni che rendono più difficile il nostro lavoro».
«Cercare la felicità, insomma. Questa sarebbe la mia colpa».
«Eh no, signor Lentini. Noi non pretendiamo di giudicare nessuno e tantomeno stabilire colpe o cosa sia giusto o sbagliato. Il nostro sistema giudiziario si basa semplicemente sulla prevenzione. E la felicità, ormai è stabilito, è sempre stata la causa scatenante dei crimini. Provocava insane pulsioni in chi avrebbe voluto raggiungerla, in chi l’aveva perduta o in quelli che la difendevano per non perderla. Il ladro rubava perché credeva di trovarla nella ricchezza, ma lo faceva anche perché ogni giorno si macerava di invidia nel guardare, o anche solo immaginare, il sorriso dei benestanti. L’immaginazione a volte fa male più della realtà, realizzando gli incubi peggiori. Gli innamorati impazzivano di gelosia nel pensare il loro amore tra le braccia di altri. Mariti e mogli si tradivano alla ricerca di qualcosa che neppure loro sapevano descrivere ma di cui subivano l’attrazione morbosa dell’incompiutezza platoniana. C’era un tempo insomma in cui si commettevano crimini ogni giorno, per raggiungerla, per difenderla, per ritrovarla, per non dividerla, per invidia. Eh già! La felicità attrae l’infelicità come un magnete potentissimo. Per questo fine l’infelice sacrificava a quel fine ogni pudore, ogni inibizione morale e materiale. E non lesinava il ricorso al male per raggiungere il bene. Ma ora ci siamo noi, l’organizzazione che ha estirpato la felicità dalla società. E non si creda come dice qualcuno, che questo abbia significato la vittoria dell’infelicità. Tutt’altro. Sapendo di non poterla raggiungere, gli uomini hanno dapprima scoperto l’atarassia, poi ne hanno apprezzato l’immenso valore. La riscoperta dei piccoli piaceri, oggi è il limite che è consentito raggiungere. Non è la felicità individuale che va eliminata, ma la sua socializzazione e i devastanti effetti che ne derivano. E quelli che non l’hanno ancora capito, li convinciamo noi».
«Ma ora che mi farete?».
«Lo sa benissimo. E vedrà che sarà proprio ciò che voleva. L’assenza di dolore, è il vero traguardo. Che tu abbia avuto una vita meravigliosa e ricca di gloria e fortune o che tu sia stato uno di quegli esseri grigi che passano in uffici grigi ogni giorno della loro vita, dal mattino alla sera, senza vedere mai il sole, con i capelli e le scarne illusioni che ti abbandonano in modo orribile e irregolare, quando arriva la chiamata siete tutti uguali, pieni di inutili rimpianti, rimorsi e ricordi struggenti di una vita di cui invariabilmente rimpiangerete la perdita».
Lo rimandarono casa pochi giorni dopo. Una degenza rapida. Ora poteva confermarlo. Non sentiva più niente. Non avrebbe più fatto male a nessuno.
Neppure a se stesso.

Tiziano Vecellio Mancini



Torna alla homepage dell'autore

Il Club degli Autori - Concorsi Letterari - Montedit - Consigli Editoriali - Il Club dei Poeti
Chi siamo
La Rivista
La voce degli Autori
Tutti i nostri Autori
Per iscriversi
ClubNews
Il notiziario gratuito
Ultimi inserimenti
Homepage
Avvenimenti
Novità & Dintorni
i Concorsi
Letterari
Le Antologie
dei Concorsi
Tutti i nostri
Autori
La tua
Homepage
su Club.it