Itinerario di un'anima

di

Stefano Tonelli


Stefano Tonelli - Itinerario di un'anima
Collana "Le Schegge d'Oro" - I libri dei Premi - Poesia
14x20,5 - pp. 52 - Euro 6,30
ISBN 88-6037-074-4

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Pubblicazione realizzata con il contributo de “Il Club degli autori in quanto l’autore con la poesia “L’eclissi” si è classificato 2° nel concorso letterario
Olympia – Città di Montegrotto Terme 2005


Prefazione di Massimo Barile

Vi sono uomini e donne che diventano lirici solo nei momenti cruciali della loro vita, e le esperienze si riversano nelle parole come un fiume in piena, sconquassano le aspettative, tracimano, abbattono gli ostacoli e allagano il terreno circostante. Le realtà profonde, e fino ad allora nascoste, vengono in superficie, strappate alla prigionia ritornano ad essere risorse vitali: l’infinità interiore spesso dimenticata ci conduce in una zona molto più complessa dove capita di agitarsi come in preda ad una nuova estenuante impresa. Provocare un incendio dentro di sé, mescolare nello stesso slancio la riscrittura di sé e il canto della propria sofferenza al fine di creare un ritmo intenso fino a diventare “ultimo superstite” di quella esperienza alla quale si credeva di non poter sopravvivere, al termine della quale più nulla sembrava avere senso dopo aver vissuto una sconfinata solitudine. La capacità di affrontare il nuovo processo che può condurre in zone segrete anche a noi stessi è l’atto di coraggio, è quella sorta di purificazione interiore perseguita e conquistata.
Ecco il percorso di Stefano Tonelli, l’itinerario di un’anima.
Il trauma della perdita e il conseguente senso di abbandono può pervadere la vita in ogni sua manifestazione, un insaziabile tormento che può impedire di vivere e l’uomo, con le sue fragilità, può non riuscire a svincolarsi dalla strettoia d’una morsa velenosa quasi a temere una ulteriore “perdita”, una nuova lancinante ferita, l’ennesimo tracollo interiore. Ecco allora che tutto pare dissolversi, ammantato di quel senso di solitudine cercata, voluta, assaporata nella sua silente condizione eppure la mente è rivolta al raggiungimento di una nuova condizione spirituale.
Appare evidente che sia necessaria una via d’uscita, la ricerca d’una valvola che dia sfogo all’universo emozionale d’un uomo, e quella profonda sensibilità si riversa in un mondo parallelo dove leggere, scrivere, poetare non sono altro che momenti vitali d’un vibrante tentativo di entrare in contatto con il “resto del mondo”. Quasi una confessione che vuole rendere partecipe il mondo circostante d’una presa d’atto, d’un inevitabile processo interiore che sta dispiegandosi a nuove pulsioni, e quel percorso così sofferto, umanamente comprensibile, diventa la vita stessa riportata in versi, quello che spesso indico come “atto liberatorio”, la via salvifica d’un uomo che erompe a nuova vita: e le parole sono medicina dell’anima, medicamento delle emozioni, elisir per le imprese future.
Dopo il limite delle occasioni, dopo la disperazione, dopo la temporanea salvezza, dopo la pericolosa negazione di sè, quando tutto pare liquidato, ci si rende conto che c‘è qualcosa che è ancora capace di emozionarci, di catapultarci nella vertigine immane, di rendere fuoco una consunzione interiore: non più cenere ma tizzone ardente che tenta disperatamente di insidiarsi nelle fiamme della vita, di guardarsi allo specchio non più muto o assurdamente dimesso.
Pare di assistere ad un privilegio per pochi, ad una paradossale esperienza che diventa fertile solo per chi ha “molto sofferto”: le ali una volta tarpate ora si dispiegano e fanno volare.
“Il male oscuro di vivere” con la miscela di lacrime, sangue e tormento ha lasciato un uomo chiuso nel suo segreto, nel suo rifugio: davanti ai suoi occhi le nuvole sono nere, la mattina è oscura, le fronde degli alberi paiono muoversi come in una “folle danza macabra” e lui, in un letto come un bambino impaurito che trema e piange, come una povera anima, quasi un involucro in balìa della bufera. L’unica richiesta è un gesto d’amore, un abbraccio caloroso d’un padre, d’un fratello e il desiderio di lasciarsi cullare al ritmo del respiro. La gioia quasi “inaridita nel limbo delle vane attese” mentre la vita svanisce tra le mani, nelle sabbie mobili della malinconia e non rimangono che “immagini fantastiche”, sogni evocati e dispersi nei “labirinti della mente”. A scrutare tra le pieghe della vita si può trovar di tutto anche un mondo di fantasie, desideri e sentimenti, coltivati solitariamente tra il dolce e l’amaro: il tempo pare sospeso tra una “eternità di ricordi di infinita malinconia” e la foschia del vivere quotidiano che conosce pochi bagliori. Si avverte l’annullamento in una perenne obliterazione del corpo e si conosce solo l’urlo del desiderio per la vita, per la bellezza, l’impulso per eliminare una dolorosa “amputazione dell’IO” quasi un fulmineo slancio tra la prigione di parole, in un flusso liberatorio che oltrepassa gli anni malinconici.
Stefano Tonelli ormai “naviga a vista”, le ferite sono profonde, il tempo necessario a cicatrizzare è lungo, nessun lamento, seppur stanco e sfiancato dagli urti della vita, dalle tempeste che provocano l’esame di coscienza: nella miscellanea dell’umano vivere deve esistere pure qualche raro divino incanto.
Senza veli, senza artificiosità, eliminando tutto ciò che può oscurare il vero e l’autentico intento delle sue parole così sofferte, quasi strappate dalle regioni più profonde d’un abisso interiore, Stefano Tonelli, con coraggio, mette sul piatto della sua esistenza la sua “materia umana”, la sua essenza, semplicemente se stesso, quasi a scandagliare la propria mente, a sezionare la più labile emozione, a scardinare, a incidere il suo “segno” sulle pagine pietrificate della vita per lasciare una traccia del suo passaggio.

Massimo Barile


Prefazione di Manuela Pompas

Questo libro potrebbe chiamarsi (se non ci avesse già pensato Giuseppe Berto) “Il male oscuro”, come è stato già detto in altre pagine. È l’estrinsecazione della fatica di vivere, di una disperazione sottile, di fondo, niente affatto plateale, ma presente in ogni attimo della vita, che non dà tregua, e colora di grigio le ore e i giorni, impedendo all’anima di vedere la luce e di gioire, ma anche di uscire allo scoperto e di gridare il suo bisogno di essere amata. E se la depressione è, da un punto di vista spirituale, l’incapacità di ascoltare ciò che il nostro Sé ci chiede per assolvere il compito per il quale siamo scesi sulla Terra, nel caso di Stefano la sofferenza prima di tutto viene da una ferita profonda, mai rimarginata – che lui si coccola senza lasciarsela mai del tutto alle spalle, come se lo riempisse e desse significato al suo agire – un abbandono al momento della nascita che l’ha tormentato impedendogli di vivere una vita normale, nonostante sia stato accolto e amato da quando era in fasce.
Anche se ha studiato (adesso lo fa di nuovo, per una seconda laurea) e lavora, da un punto di vista affettivo Stefano è rimasto un bimbo spaurito, si è isolato dal mondo, temendo inconsciamente di essere ferito ancora una volta, più e più volte. Questo l’ha portato a cercare le sue risposte nella cultura, nei libri e nella musica, che ha molto amato e di cui ha riempito il suo tempo libero, contribuendo a sviluppare in lui una notevole sensibilità. E ha anche aperto uno spiraglio sul mondo dello spirito, intuendone le sue leggi senza però ricavarne ancora conforto.
E un giorno – stabilito forse dall’invisibile, un appuntamento a cui non poteva mancare – questi suoi interessi hanno preso corpo e l’hanno spinto a scrivere, prima timidamente, poi con fervore, direi quasi con fede, le sue liriche, nelle quali rivela tutto se stesso, le sfumature della sua essenza, il suo dolore, la passione, le speranze, i timori, cosa che non si permette di fare a voce, se non in analisi.
E se le sue poesie all’inizio richiamavano i classici da lui tanto amati – come non riconoscere in certi scritti echi delle atmosfere bucoliche del Pascoli o dell’amarezza di Leopardi – ora, via via, acquistano una forza stilistica sempre più personale, inseriti in un percorso narrativo che diventa la sua storia ma anche la storia di tutti coloro che sono passati dal dolore e dalla disperazione. Così la manifestazione di sé, che ha per lui una funzione liberatoria, terapeutica, acquisisce un valore anche universale.

Di fronte a certi destini, mi chiedo se le malattie, i traumi, le difficoltà che si incontrano nel corso della vita, oltre ad avere una duplice funzione karmica (dato che riguardano sia l’individuo sia le persone a lui collegate, permettendo a entrambi di evolvere risolvendo i problemi e gli errori di altre vite), siano anche lo strumento per sviluppare capacità che ci mettono a contatto con la nostra anima, in un cammino certo a volte doloroso e impervio, ma anche più autentico. E poi, se Leopardi fosse stato un ragazzo bellissimo, se fosse cresciuto in un altro contesto sociale, per esempio in una Corte europea, se si fosse sentito amato e compreso, ci avrebbe mai lasciato il suo “Infinito” o “A Silvia”?

Però il dolore, come dicono i maestri tibetani, è solo un momento, più o meno lungo, legato all’ignoranza della mente. E quindi prima o poi va sanato, superato e risolto, per camminare più leggeri sulle strade della vita. Per questo auguro a Stefano di trovare la chiave del giardino dell’Eden, che è solo nascosta, e di trasformare la sua esperienza personale in un tesoro da distribuire a piene mani.

Manuela Pompas


Introduzione

Fatti non foste a vivere come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza…
Dante, Inferno Canto XXVI, versi 119-120
...questo miro e angelico templo, che solo amore e luce ha per confine…

Dante, Paradiso, Canto XXVIII, versi 53-54
La bellezza è lo splendore del Vero.
Platone

Ho cominciato fin dall’adolescenza a scrivere un diario, ove annotavo i miei pensieri e sentimenti, ma già da allora mi rendevo conto che l’affidare tutto ciò alla pagina in prosa non mi era sufficiente. Volevo cercare di fermare attimi, ricordi, fantasie, persone in una “fotografia istantanea”, per poter poi immergermi nuovamente in atmosfere, sensazioni, sentimenti vissuti realmente o solo immaginati. Per questo mi rivolgevo ai classici della lirica: gli autori greci e latini e gli epigrammisti (l’Antologia Palatina in primis). Ispirato ai loro versi cercavo di scrivere un po’ con parole loro un po’ con parole mie dei brevi componimenti, quasi dei “calchi”. E poi quanto ho “ruminato” Chiare fresche dolci acque, Erano i capei d’oro a l’aura sparsi, Movesi il vecchierel canuto e bianco del massimo lirico italiano: Francesco Petrarca. Infine la scoperta dei moderni (il trittico degli ermetici: Montale, Quasimodo e Ungaretti) e dei contemporanei (Alda Merini), senza dimenticare però gli amati Leopardi e Pascoli.

Ho continuato a scrivere durante i miei anni universitari qualche poesia qua e là senza darvi peso, perché la mia attenzione e le mie energie erano assorbite dalla preparazione degli esami e da altri interessi paralleli, tra cui la musica classica e operistica. Nel 2003 ho ripreso la penna in mano e come un fiume carsico, è nuovamente sgorgata in età adulta la voglia e il piacere di fare poesia in prima persona.
In questo modo ho avuto la possibilità di dare forma poetica anche al nodo per me cruciale dell’abbandono. Già qualche anno prima avevo scritto un intervento – un articolo per una rivista a diffusione locale – sulla mia esperienza di bambino abbandonato e adottato (riporto questo contributo al termine del libro). Una ferita profonda sulla quale ho riflettuto non solo con la scrittura, ma anche con un lungo lavoro di analisi che mi ha permesso di prendere coscienza di quell’antico dolore. Una ferita aggravata da altri problemi psicologici ed esistenziali che di certo non mi hanno fatto conoscere la gioia di vivere, ma la riflessione critica e la rielaborazione psicologica degli avvenimenti interiori, mi hanno reso sempre più consapevole e più forte. Ho anche compreso, insomma, che noi non impariamo dall’esperienza “nuda e cruda”, ma dalla riflessione su di essa: chi non elabora il proprio passato è destinato a riviverlo. Ovviamente a caro prezzo in termini di sofferenza, ma senz’altro ne è valsa la pena.

Parallelamente all’esperienza psicoterapeutica, ho cercato conforto nel trascendente, non nella fede cristiana o di altre religioni, ma in ciò che oggi viene sbrigativamente etichettato come “new age”. Ero dapprima affascinato dalla figura della medium inglese Rosemary Altea che, attraverso i suoi libri, mi ha insegnato tra l’altro che “la vita è una scuola che talvolta impartisce dure lezioni”. Questo concetto si è poi evoluto e arricchito in me nel comprendere l’esperienza umana come una serie di vite necessarie per apprendere ed evolversi spiritualmente. In tale senso mi sono stati maestri i libri di Brian Weiss e Manuela Pompas. Tutto ciò che accade ha un senso, anche se a noi, nell’“Aldiquà” tale senso sfugge. Non solo, i passaggi più importanti di ogni vita terrena sono stati predisposti per ciascuno di noi da anime più evolute – gli Spiriti Guida, o Maestri del Kharma (gli Angeli Custodi, nella tradizione cattolica), per darci la possibilità con l’esperienza diretta in questa dimensione corporea di capire (e superare) i nostri limiti. Questo già lo dicevano Pitagora e Platone, per limitarci alla cultura occidentale…altro che “new age”! è tutto “old”, vecchio e antico come l’Umanità.

Ho capito, fin quasi a toccare con mano, che la vita è un percorso necessario per capire e per amare meglio noi stessi e gli altri, ecco perché è così faticosa e dolorosa. Tutti noi dobbiamo passare attraverso alcuni avvenimenti – interiori ed esteriori spesso davvero strazianti e angosciosi – da cui non possiamo prescindere: anche quando due sentieri sembrano divergere, spesso si incontrano dietro una collina che nasconde i loro itinerari. Il corpo per sua natura giustamente tende al piacere e alla felicità, questa però è una prospettiva non sufficiente e soprattutto non esauriente. Chi misura la vita soltanto con questo metro, non riuscirà a cogliere che un aspetto sì “legittimo” ma parziale e minoritario dell’esistere umano. E quel che è ancora peggio, andrà incontro a enormi frustrazioni, senza riuscire a dare ai momenti di dolore (ma neppure a quelli piacevoli) il loro giusto significato.

Ancora oggi, dopo tanti anni, continuo a scrivere il mio diario cui ho stabilmente affiancato la creazione poetica, e continuo a scontrarmi e a soffrire a causa dei miei limiti e incontro spesso il Male Oscuro di vivere. Però alla fine ciò che conta è quanto riesco a capire e ad amare con compassione e altruismo, in una prospettiva evolutiva che un giorno porterà me come tutti laddove Conoscenza, Amore, Bellezza e Verità splendono assieme. Sono qui per questo. Siamo tutti qui per questo.

L’Autore


Itinerario di un'anima

Toby

Dittico

Chi ha potuto perderti o lasciarti,
caro Toby? Forse chi non ha ben guardato
il tuo lucido pelo nero,
le mille inflessioni dei tuoi occhi nocciola,
la perfetta architettura delle tue zampe,
il grazioso punto di domanda
che ti fa da coda.

Ma non hanno visto neppure la gioia
che porta la tua cara esistenza,
l’amicizia e l’affetto
che insegni anche ai duri di cuore…
Cosa vogliono sapere d’amore
quelli che non hanno mai guardato
negli occhi il loro cane?

Ti sono negati la parola e il riso,
ma col fragile timore
che ti invade di essere abbandonato,
con le gioie e le ire che ti animano
e la fedeltà che dimostri,
sei creatura di umanità
fin troppo nobile.

§ § § § §

Sparissero nella morte la madre e il padre,
si eclissassero nell’oblio gli amici cari,
tacessero per sempre tutti i miei maestri,
si smarrissero interi la mia ragione e il sentimento
nel duro sasso dell’avarizia e
nelle sabbie immobili della malinconia,
tu sarai sempre volto verso i miei occhi,
in attesa di un cenno, di un biscotto,
di una carezza, di un gioco.

A te basta poco: sono nel tuo DNA
Amore e dedizione cieche.
Sarà dunque un cane – che alcuni stolti pretendono senz’anima – ad insegnarmi l’amicizia?


Ottobre

Il sole colora l’aria
di foglie rosso-oro
e vibra l’atmosfera
di tiepidi bagliori – carezze di raggi
non ancora stanchi.

Fruscianti tappeti di foglie morte,
il dolce tepore meridiano,
la umida foschia dell’alba
sospendono il mio tempo
in una eternità di ricordi
di infinita melanconia.

Esame di coscienza

Maestro,
accolgo triste il dono
del mio volgere terreno
e la mia anima si stampa
in veste umana.

Solitari anni malinconici e laboriosi
mi portarono all’età saggia e seria.
Ma tanta dottrina, tanto sapere
non mi potranno mai rassegnare
alla mia aspra perduta gioventù.

Non avrò mai dunque pace
per la mia vita non vissuta,
solo letta, sognata da lontano.

Ma il cammino della mia
anima prostrata è ancora lungo,
vero Maestro?

Noi sappiamo entrambi bene
che le mie cicatrici sanguineranno
abbondanti ancora a lungo,
che parteciperò nell’agone della vita
sempre fuori concorso.

Ho imparato, mio malgrado,
a non lamentarmi, a non sperare più
(è forse un bene?)

Navigo a vista, stanco e sfiatato
nel mio guscio di noce per forza d’inerzia,
nell’oceano di nebulose stagioni,
cariche di tempeste improvvise,
di lividi bagliori e di
cupe, interminabili bonacce.


Il Cristo della Musica

A Wolfgang Amadeus Mozart

Eri d’aspetto insignificante,
ma già da bimbo, insigne
per prodigi musicali e
carico di riconoscimenti ufficiali.

Sei disceso dalla dimensione
ove tutto è eterna armonia,
nel mondo, in cui ti sei aggirato
come un fanciullo talvolta incosciente,
forse un Papageno che ami – com‘é giusto – bere, cantare e la sua Papagena.

Sei stato un angelo inviato da Dio stesso, – certo ne sono – per ravvivare in noi
la scintilla divina, ottenebrata
dalla carne e dagli errori.

Ogni tua nota emana
il commovente fragrante
odore del Paradiso che aduna
il Bello, il Buono e il Giusto
immersi nella calda luce dell’Amore.

Noi aneliamo con gli occhi umidi
di indicibile struggimento e
col cuore pieno di nostalgia
a quell’Eden perduto.


L’eclissi

Volava alto e lontano il mio sguardo,
pur nelle quiete more dell’infanzia,
sitibondo di vita e di ebbrezze giovanili,
come un cavallo su un’altura, fremente
a sottomettere il vasto verde.

La tarda primavera schiudeva
dolci fragranze di fiori che
risvegliavano appetito ai miei sensi,
l’oscurità a me amica
non regalava però parole
ma solo fantasmi
per vivere i sogni di giovane adulto.

Vivevo sensazioni presenti e future,
certo che presto sarei entrato
nella foresta, assaporando ogni
suo frutto, fiore e foglia,
giocando a piedi nudi sul prato.

Poi un osceno pianeta maligno
irruppe spegnendo odori e sogni
e a testa bassa fui schiavo di paure
e infinite cure e timori.

Oppresso e gravato dal buio
e dalla nebbia ormai nemici,
procedevo blindato,
e la vita non sentiva più
il suo dolce ebbro sapore di prima.


Perché viviamo

Viviamo perché siamo obbligati
viviamo per comprendere
viviamo per imparare
viviamo per amare
viviamo per imparare ad amare.

Per tutto questo soffriamo,
nel corpo e nell’anima
una sofferenza che spesso
acceca, strazia, tortura
ogni nostra fibra
e ci fa talvolta maledire
la nostra esistenza e l’Esistente.

Ma proprio così dev’essere:
la vita è una scuola che
spesso impartisce dure lezioni,
e dai suoi insegnamenti
non ci possiamo sottrarre.

Non esiste il caso:
siamo fiammelle in un cosmo
immenso e perfetto e
infallibilmente e necessariamente siamo
CHI dobbiamo essere,
DOVE dobbiamo essere,
QUANDO dobbiamo essere,
COME dobbiamo essere,
CON CHI dobbiamo essere.

Come una spada che ha bisogno del fuoco
più rovente per essere ben temprata,
dobbiamo bruciare le scorie
dei nostri errori e delle nostre impurità,
per unirci a Dio e brillare
danzando nella sua mente.

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