Opere di

Stefano Paolo Giussani

Con questo racconto è risultato 9° classificato – Sezione narrativa alla XVIII Edizione del Premio Letterario Internazionale Marguerite Yourcenar 2010


«Il tiratore»

29 ottobre 1935: alla presenza delle autorità civili, del vescovo e di una folla gioiosa è stata inaugurata la camionale Genova-Serravalle. La prima autostrada di montagna italiana collega ora il principale porto della nostra nazione con la Val Padana.

Nove anni e qualche mese dopo.
Andrea Valsecchi era un ottimo tiratore e quel mattino si preparava a segnare dei colpi che in molti avrebbero ricordato. Per parecchio tempo.
La visuale era perfetta dal poggio dove si erano arrampicati prima ancora che nascesse il giorno: il rettifilo proveniente da Genova, il più lungo da lì al mare, sarebbe riuscito a far sfilare le prede verso la traiettoria dei loro proiettili senza nessun ostacolo.
Ottima luce sui bersagli, ottima prospettiva di mira, ottima corsia di tiro. La collina alle loro spalle li proteggeva con un cono d’ombra in cui sarebbe stato difficile individuarli per la colonna tedesca che da lì a poco avrebbe imboccato il nastro d’asfalto.
Sdraiato, respirava il profumo della terra che gli premeva sullo stomaco. Il pesante giubbotto di tela cerata e le due maglie non bastavano a evitare che ogni sassolino si trasformasse in un macigno incuneato nelle sue carni.
Poco male, pensava, di lì poco avrebbe avuto altro a cui badare.

Davanti al tratto di autostrada in quel momento deserta gli tornò in mente il giorno dell’inaugurazione. Era stato un avvenimento indimenticabile per il paese. Era poco più di un bambino ma ricordava di esserci andato con la classe. Erano tutti vestiti uguali e orgogliosi nell’uniforme da balilla. Una compagnia di piccoli mascalzoni tirati a lucido per l’arrivo del duce e del ministro. Prima di tagliare un nastro sentì raccontare che la loro vita non sarebbe stata più la stessa e che quella enorme strada era “il” progresso e altre cose ancora che ora non ricordava più. Arrivarono anche tanti uomini in uniforme, molti con le cineprese e le macchine fotografiche. La folla riempiva tutta la carreggiata e una serie di veicoli imbandierati si avviò tra gli applausi sull’asfalto vergine in direzione del mare.

Oggi quella autostrada era lì davanti a lui e da quella posizione se ne sentiva un po’ il padrone. Un muro in pietra e cemento a sinistra tagliava netta la montagna, la scarpata sul lato opposto digradava verso il fiume. La riga bianca intermittente nel centro della striscia scura era precisa come un esercizio di geometria che si perdeva in un puntino alla fine della corsia.
Nel centro della valle le acque dello Scrivia erano un sottile nastro argenteo in un greto di sassi grigi. Sulle colline circostanti la vegetazione non più invernale ma non ancora fiorita lasciava intravedere il sottobosco e le onde sinuose del crinale. Tutte le linee del paesaggio sembravano fluire morbidamente dalla gola dove si perdeva la prospettiva. Anche la ferrovia e la statale dei Giovi si fondevano in quel punto buio in fondo alla piana, come quando svuoti l’acqua di una vasca e il foro nero sul fondo diventa l’inghiottitoio di tutto quel che il recipiente contiene.
Lo sperone sul quale si trovava era un buon punto di osservazione anche sul paese. Distingueva bene la casa dei suoi e il cortile della scuola elementare. In primavera era ombreggiato da un grande olmo che ora si levava come un enorme scheletro con le mani al cielo. Le case si succedevano lungo la strada assecondandone il movimento. Le colline erano punteggiate dalle grosse ville di qualche commerciante che veniva dalla città a far vacanza. Il ponte sul fiume era delimitato da quattro fasci in pietra che ricordava essere un inno al regime. Nella memoria da bambino, il giorno della festa erano fasci pieni di fiori e colore. Oggi vedeva quattro colonne spente contro il cielo.
La spianata al margine della chiesa era quella da cui ogni estate si diffondeva la musica della balera. Pensò alle persone che la affollavano, al suono dell’allegria, al profumo del vino nell’aria, ai balli veloci che trovava buffi per come costringevano a muoversi. Ricordava i seni delle ragazze pigiati al suo torace durante le danze lente. Vedeva anche il prato oltre il boschetto dove una di loro lo aveva accompagnato la notte che segnò la fine della sua adolescenza. Gli tornò in mente quando lei si era chinata e lo aveva sciolto in un fluido di piacere. Poi si sdraiarono e godettero nel cielo stellato appoggiato sulle cime degli alberi. Al momento gli piacque ma si rese conto che era solo uno sfogo. Non era quello il genere di emozione che cercava. Non in quel momento.
Spostando di poco lo sguardo intravide la stazione ferroviaria con il grosso piazzale alla sua destra e ricordò quel lontano sollievo di fronte alla infilata di binari quando lasciò il paese alla volta di Genova. Anche se lo mandava in guerra, nel carabiniere che chiamava all’appello i coscritti vedeva una specie di liberatore che gli apriva le porte della gabbia per mandarlo a scoprire il mondo.
Solo tornando, allo sbando dopo l’armistizio, nell’avvicinarsi a casa si era reso conto di quel che gli era capitato e di quanto diverso dalla sua immaginazione fosse il mondo che sognava di conoscere.
Aveva ucciso e visto uccidere.
Aveva assistito alla morte dei suoi compagni senza poter far nulla, nemmeno per quelli a cui era più affezionato. Lo avevano abituato a vivere la giornata e non fare piani. A raggiungere la sera come fosse un successo essere lì, vivo. Per ricominciare daccapo il giorno dopo.
Tornato, il profumo dei boschi dell’Appennino, anche se in clandestinità, gli aveva riempito i polmoni di una sensazione familiare. L’incontro con i partigiani che parlavano il suo dialetto gli aveva restituito un obbiettivo, dei compagni e la certezza di un posto che poteva chiamare «casa». Solo ora, in quell’istante, sentiva di meritarselo. Era il suo mondo, plasmato tutto attorno sui rilievi, sugli alberi che stavano germogliando, nei ciuffi d’erba che con decisione bucavano la coperta grigia della stagione fredda. Era nel fruscio della brezza che in certi giorni si sentiva arrivare dal mare, nelle cascate del torrente che rinfrescavano le domeniche estive, nei cinguettii che arrivavano dai nidi.
Era anche nei fischi sottili del richiamo della compagnia partigiana schierata attorno a lui, sparpagliata nel bosco. E pronta a sventagliare piombo sul nemico.

Un suono lontano di un cigolio. Amplificato dall’eco della gola al capo opposto dell’autostrada. Pungolò i suoi pensieri cancellando tutte le immagini come una spugna sulla lavagna.
Il fischio sommesso della vedetta in cima al crinale confermava: l’autocolonna nazista era in avvicinamento.
Fissava l’imbocco della stretta forra con uno sguardo ossessivo, pieno di impazienza per dover ascoltare nell’aria quella minaccia strisciante senza distinguerne l’origine. Avvertiva anche il peso degli occhi dei compagni appoggiati lì, con i suoi, su quella ultima curva. Tutti concentrati e pesanti sul tratto d’asfalto che con una svolta improvvisa scompariva dietro il pendio.

Essendo il più capace a sparare al bersaglio aveva la posizione migliore. Per il gruppo non aveva più neanche un nome se non “il tiratore”.
Ce l’aveva nel sangue. Mirava col cuore.
Tutta la compagnia era mimetizzata tra gli arbusti, un mortale ventaglio invisibile attorno al “tiratore”.
Al suo fianco distingueva solamente uno dei ragazzi, Mauro Stucchi. Veniva da Alessandria. Non era altrettanto abile col fucile ma sui tiri lunghi aveva quella buona combinazione tra pazienza, precisione e velocità che sono gli ingredienti di un buon cecchino. Poi era uno che gli piaceva. Forse troppo cittadino, ma nelle notti di fronte al fuoco gli aveva passato certi libri. Avevano discusso animatamente su alcune pagine.
C’erano scritte cose su cui non aveva mai riflettuto prima.
Non trovava in lui quella superficialità che il paese a volte lo obbligava a vivere. Riusciva a parlare di tutto ed era intenerito da quella sua innocua immagine da scolaretto cresciuto. La corporatura minuta lo faceva sembrare piccolo tra i partigiani delle valli, come un tronco novello nel bosco delle querce centenarie. Eppure aveva lasciato la città ed era salito lì per dare il suo contributo.
Quando leggeva portava gli occhiali, quando tirava al bersaglio no e Andrea non capiva quell’inspiegabile contrasto. Ci pensava ogni volta che, la sera, le lenti riflettevano la fiamma della candela nel buio assoluto del capanno. Come un ragazzino, quando gli occhiali scendevano verso la punta del naso li riportava in su con l’indice. E quando si accorgeva che Andrea lo stava fissando, allora lo guardava e gli sorrideva.

Una sera il fuoco stava spegnendosi per riportare nelle tenebre il piccolo tavolo. Erano soli. Il fiasco vuoto di vino, gli occhiali e due libri erano rimasti a estinguere le loro ombre sul piano in legno. Venne il momento di andare a dormire, si sdraiarono avvertendo un reciproco senso di benessere e tepore. La notte appenninica li cullò con i suoi fruscii nella unica branda dove in silenzio stavano aspettando di addormentarsi. Fu allora che Mauro prese un’iniziativa che da giorni meditava. Quello scapestrato di paese un po’ selvaggio nei modi gli piaceva. Alzò la testa e appoggiandosi al gomito avvicinò la faccia alla fronte di Andrea e la baciò.
Nessuna reazione. Solo il rumore del suo cuore che, era sicuro, si sentiva anche fuori dal capanno.
Lo sentiva battere in gola ma aveva deciso che non sarebbe tornato indietro. Usò quel briciolo di coraggio rimasto dopo il primo gesto impulsivo per scendere alla bocca e ripetere il gesto. Assaporò il morbido delle sue labbra un attimo prima che si aprissero.
Lo stava ricambiando. Il gioco umido delle lingue che si avvolgevano l’una all’altra come liane era diventato il cuore della foresta buia e silenziosa.

Un cambio di rumore si diffuse nell’aria rarefatta.
Come quando si sintonizzava la frequenza della radio, il cigolio si trasformò d’improvviso in un rombo di una prima moto, poi duplicato da una seconda e infine di nuovo nel rumore insistente dei cingoli.
Lo scricchiolio metallico senza fine si materializzò in un autoblindo, seguito da una macchina, poi i camion.
Apparivano lentamente durante la svolta, per sgasare la marcia e imboccare con un ruggito deciso il rettilineo.
Uno, due, tre…la curva non smetteva di snocciolare grossi veicoli grigi, come la merda delle capre, che non capisci quando finisce finch… la capra non smette, pensò… sei, sette.
Nove in tutto. Tre di merci, una cisterna e gli altri di soldati. A venti militari a camion più la macchina e l’autoblindo facevano un centinaio di uomini. Forse meno.
Loro erano in ventuno. Tesi, tesissimi. Anche se effetto sorpresa e posizione di tiro erano a favore.
La vicinanza di Mauro lo faceva sentire sicuro. Come gli spartani di cui gli aveva fatto leggere. In gruppo erano invincibili.
Le moto erano più veloci e dal fondo dell’autostrada si lanciarono in avanscoperta distanziando la colonna. Affiancate dal sidecar scivolarono indisturbate sotto le mire silenziose delle ventuno canne partigiane.
L’ordine era chiaro. Sarebbe stato di Andrea il primo colpo, sul segnale di un fischio del tenente. Obbiettivo: il primo camion. Avrebbe bloccato la strada e dato inizio alla festa.
L’autocolonna continuava ad avvicinarsi, ormai tutta vulnerabile. Precisa, come un treno sulle sue rotaie.

L’occhio incollava il mirino al bersaglio.
Un fischio.
Uno sparo.
Dopo il dito premuto sul grilletto e il colpo sulla carica, Andrea sentì il proiettile abbandonare la canna, sorvolare leggero il bosco, sfrecciare nel vento sopra l’asfalto dell’autostrada, puntare al parabrezza del veicolo, attraversarlo con un piccolo foro rotondo, sbriciolare l’osso della fronte dell’autista e fermarsi morbidamente al caldo del suo cervello.
Lo sbandamento improvviso del mezzo e la grandinata di colpi che partì in quell’istante scompigliò l’incolonnamento portando il caos nella valle. I camion vomitavano soldati come un formicaio impazzito mentre il tiro partigiano iniziava a schiacciarli al suolo. I tedeschi cercavano riparo scavalcando i corpi dei compagni, chi tra i camion, chi lanciandosi nel pendio a lato dell’autostrada.
La torretta del mezzo corazzato iniziò intanto a ruotare e cercare nel bosco un obbiettivo. Gli ricordava un animale sbandato che fiuta nell’aria una preda invisibile. Partì il fuoco di risposta ma contro luce e verso la collina in ombra era uno sparare a caso.
Andrea fece partire il secondo colpo questa volta verso la cisterna.
Centrata.
Nessun effetto.
Forse era gasolio e non benzina.
Un nuovo colpo, poi un altro.
Poi un boato e una torre di fiamme spumeggianti si alzò dal centro dell’asfalto eruttando nel cielo una colonna di fumo nero buia come la più buia delle notti. Al ritiro della bolla incandescente i soldati più vicini erano diventati schegge di fuoco che correvano verso ogni direzione. I disperati provavano a spegnersi, sotto le voci impotenti dei loro compagni. Non capiva quel che dicevano ma le urla non avevano bisogno di traduzione.
Per un breve istante provò pietà per quei poveracci. Non erano più uomini ma torce.
Scambiò un’occhiata con Mauro in cui si dissero tutto.
Poi Mauro riprese a sparare, il lavoro andava finito.

Si volse anche lui agli obbiettivi quando sentì un boato sordo partire dalla testa della colonna.
Il cannone dell’autoblindo aveva cominciato a sparare.
Se ne rese conto appena prima che tutto si trasformasse in un lampo bianco. Una sola frazione di secondo. Accecante. Un boato, poi il nulla. Avvertì all’improvviso un tepore mai provato prima. Leggero, avvolgente. Lo aveva sospeso in una pozza di liquido deliziosamente caldo. Se lo sentiva ovunque.

Poi solo una voce, di Mauro.
Il suo nome, chiamato.
Sempre più lontano.
Urlato, disperato.
Poi più nulla.

Stefano Paolo Giussani


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