L’illusione del tempo che fugge (romanzo)

di

Stefano Calesini


Stefano Calesini - L’illusione del tempo che fugge (romanzo)
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa
14x20,5 - pp. 172 - Euro 13,50
ISBN 978-88-6037-9467

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In copertina: «La mela» Stefano Calesini


Un uomo riconosce nella fotografia di un giornale un viso familiare ed incomincia ad indagare all’interno della propria coscienza. – Chi è quel tizio? – La mente lo trascina lontano, sempre più lontano, fino al 1986 quando aveva dodici anni. Rivive allora tutto ciò che provava allora, l’incontrollato desiderio di diventare adulto, i primi amori, le prime delusioni, insomma tutte le emozioni che a dodici anni si abbattono su di noi senza che possiamo renderci conto di ciò che accade. Il filo conduttore di tutto il racconto è il tempo, o meglio l’illusione del tempo che fugge, l’ironia con cui a volte ricordiamo noi stessi.


Introduzione

In una Romagna immersa negli anni Ottanta, quel controverso periodo dove le tradizioni millenarie vengono smentite dalla frivolezza di una nuova moda, Calesini si riappropria del mondo dell’adolescenza, di quel lasciapassare verso sogni e desideri, minacciato dalle prime competizioni tra ragazzi, dai primi amori traditi. Con un salto indietro nel tempo ripercorre il disincanto di quell’età e ritrova un mondo popolato da amici imbranati, compagni di classe spacconi e ragazze già padrone del proprio tempo. Il tutto in un racconto ricco di emozioni e di episodi incredibilmente comici, un incessante continuum dove l’imbarazzo e la derisione generale travolgono la sensibilità dei personaggi.
È senza dubbio un romanzo rievocativo, l’adolescenza viene descritta come quella terra di confine, primo ostacolo alla visione fiabesca della vita, dove i desideri e l’immaginazione si trovano ancora mescolati tra loro e dove l’infanzia incomincia ad apparire come uno scomodo ricordo. Fin dalle prime pagine però il lettore si accorge che la storia non è meramente volta alla narrazione svincolata e particolare, alla contemplazione riflessiva e nostalgica. Calesini sembra piuttosto interessato a rappresentare alcuni temi comuni all’universo adolescenziale umano ed in effetti il lettore è più di una volta portato ad esclamare: ‹‹ma guarda! Questo è capitato anche a me!›› Sfogliamo allora giorno dopo giorno i capitoli del libro e respiriamo i profumi del nostro passato, appoggiamo ogni sera il romanzo sul comodino di fianco al nostro letto e ci addormentiamo con i ricordi della nostra infanzia dinanzi ai nostri occhi. Alla fine del romanzo il lettore condividerà l’idea che il tempo nasconde i nostri ricordi ma non li annulla, piuttosto li sublima, li rende preziosi nelle lontane profondità della nostra anima. Sta a noi fermarci e rivivere di tanto in tanto il tesoro che tratteniamo nella memoria. L’illusione del tempo che fugge, allora, altro non è che un velato rimpianto, una nostalgia del tutto consapevole con cui a volte ripensiamo a noi stessi. Indubbiamente è un romanzo rievocativo, dove le storie dei ragazzi si mostrano come riflessi di luce che ogni lettore può ritrovare nella propria vita, un racconto volto a descrivere quell’età dimenticata e complessa, l’adolescenza, che con molta generosità l’autore ci offre nel nostro lontano presente.

Giulio Nannini


Fatti, personaggi e luoghi che appaiono in questo libro sono di pura fantasia. Ogni riferimento a persone
e fatti reali è da ritenersi puramente casuale.


L’illusione del tempo che fugge (romanzo)


I

Mi accorsi che tenevo ancora in mano la tazzina di caffè, stavo camminando lungo il marciapiede bagnato dal sole di giugno ma i miei pensieri erano ormai lontani dalla realtà presente. Mi fermai e guardai quella tazzina bianca all’interno della quale lo zucchero si era ormai rappreso, – sono uscito dal bar senza restituirla, – dissi tra me e me, – e il conto l’ho pagato? – Sì, ricordavo di avere consegnato al barista una moneta che tenevo in tasca, non mi ero dimenticato di pagare ma forse avevo assolto a quel dovere in modo meccanico, istintivo e probabilmente non avevo nemmeno atteso di ricevere il resto, se ve n’era. Non mi era mai capitato prima di smarrirmi in quel modo, stavo sorseggiando il mio caffè e scorrevo lo sguardo sul quotidiano di cronaca locale. Era stato proprio lui, il barista, ad invitarmi a leggere l’articolo, un tizio era stato arrestato per una faccenda di droga, c’era la sua fotografia, era il primo piano di un uomo il cui viso mi era in qualche modo familiare ma che non riuscivo a rintracciare nella memoria.
– Forse mi sto sbagliando, – avevo inizialmente pensato, – forse non conosco affatto questa persona.
Poi però avevo concentrato nuovamente lo sguardo sul suo ritratto, la carta porosa e grossolana del giornale nascondeva molti dettagli, eppure quel volto butterato e spigoloso non mi era estraneo.
– Un delinquente, già, non mi stupisce che qualcuno con una faccia così sia stato arrestato, – avevo commentato.
– Ma come, non ti ricordi di lui? Leggi un po’ qual è il suo nome, – aveva esortato il barista, – leggi, dai! – aveva incalzato subito dopo, enfatizzando con le mani tutto ciò che diceva.
Il mio sguardo intanto si era soffermato sulle prime righe dell’articolo, Alfonso Ricci, così si chiamava quell’uomo, il quale apparentemente aveva solo un anno più di me.
No, quel nome non mi diceva proprio nulla. Avevo continuato ad osservare la fotografia, certo il suo volto non lasciava intendere nulla di piacevole ma i suoi occhi erano buoni, differenti da tutto il resto, sembravano celare un lontano dolore, un’agonia nascosta e appena rivelata, occhi chiari, socchiusi, quella persona aveva un’espressione triste, quasi supplichevole.
Poco dopo qualcosa aveva distratto la mia attenzione e per un momento avevo alzato lo sguardo dal giornale, poi, inaspettatamente, si era aperta una finestra lontana e mi ero rammentato di chi egli fosse, – ora ricordo! – avevo esclamato. Erano stati proprio quegli occhi ad inondare di luce il mio passato, liberando il ricordo di quel tale da quell’opprimente strato di polvere che il tempo aveva depositato sulla mia anima. In effetti si trattava di qualcuno che non avevo più incontrato per tanti anni, fin dai tempi dell’infanzia.
– Pensa un po’, è stato arrestato, – avevo sussurrato mentre il barista lasciava intendere, con un malizioso cenno del capo, tutto il suo compiacimento.
Lo conoscevo bene, molto bene, Alfonso Ricci, certo non avevo collegato le sue attuali sembianze al ricordo che avevo di lui e non mi era sembrato di riconoscerne il nome ma se al posto di quest’ultimo ci fosse stato scritto il soprannome lo avrei identificato subito, avevamo infatti frequentato le stesse scuole medie, anche se lui era più grande di me.
Per qualche minuto avevo pensato a lui e mi ero sentito invaso da quella lieve, piacevole soddisfazione che si prova quando la memoria non viene vanificata da un fallimento, ritenevo tuttavia che la cosa fosse finita lì, invece i ricordi di quei lontani anni, senza che da parte mia vi fosse alcun particolare desiderio di reminescenza, non si erano arrestati e continuavano ad apparire l’uno dopo l’altro. Forse il ritratto di quel tale, Alfonso Ricci, aveva semplicemente trascinato ai miei occhi tante altre memorie a lui associate, ritrovavo parole, sguardi, profumi ed ogni volta che si scopriva un lembo, un tassello di quel tempo abbandonato in qualche angolo della mia anima e non più vagheggiato, a poco a poco l’oblio che lo rivestiva svaniva ed esso riassumeva tutta la sua originaria lucentezza, appariva una luce e ne seguiva un’altra, poi una nuova e un’altra ancora, al punto che la distanza tra il momento presente e quello passato pareva quasi dissolversi.
Dopo qualche minuto ero uscito dal bar ed ora stavo camminando sul marciapiede con la tazzina in mano, il sole del pomeriggio scottava sulla mia camicia e la mia anima, trascinata dal ricordo ispirato dalla fotografia che avevo visto poco prima, era precipitata dentro quel mondo screziato, come una valle alla luce del tramonto, del purpureo colore della nostalgia, dove anche il profumo, a volte, assume una forma definita. Era caldo, la strada era deserta e le cicale, nascoste tra le chiome degli alberi, frinivano incessantemente. Mi fermai ad ascoltare il lontano rumore provocato dal passaggio di un’automobile, un cane abbaiò, le foglie di un pioppo proiettavano ombre violette sulla ghiaia del marciapiede, poi mi voltai per tornare al bar e restituire la tazzina che tenevo ancora in mano ma, proprio mentre camminavo, affiorò alla mia mente un’altra immagine, il viso di una fanciulla, e quel tempo passato, come in un sogno, ritornò a vivere per un breve, evanescente momento.


II

Vicino a me c’erano Pivo e Ciccio. Sedevamo nella stessa fila di banchi in fondo all’aula e mentre l’insegnante parlava e parlava senza che nessuno l’ascoltasse, noi contemplavamo con le mani nascoste sotto il banco le figurine vinte alle scommesse durante l’intervallo. Cabrini, Laudrup, Scirea, ormai avevo completato la mia squadra del cuore, mi mancava solo il figurino di Platini ma questo era introvabile.
Era il 1985 ed io, Pivo e Ciccio frequentavamo la seconda media. Per loro io mi chiamavo Cale, il mio vero nome, Stefano, lo utilizzavano solamente i miei genitori, i miei nonni e qualche volta mia sorella. Tutti gli altri, con qualche rara eccezione, si rivolgevano a me semplicemente esclamando – ohi! – oppure chiamandomi per cognome, di cui Cale era la più immediata abbreviazione. Per quelli come me il nome di battesimo fungeva da orpello del tutto irrilevante all’esistenza e se non fosse stato per il fatto che in famiglia qualcuno continuava ad usarlo, esso sarebbe servito solamente a riempire lo spazio di un documento di identità personale.
Anche i miei amici, ricordo, avevano subito la stessa sorte, alcuni conservavano dalla nascita un soprannome comune ad ogni membro della loro famiglia, c’erano i Fumìga, i Palòta, i Ghiandòn e così via, altri invece, per dileggio o per qualche circostanza del tutto casuale, erano stati insigniti di un soprannome esclusivo. C’era così un Pane, un Sansone ed anche un Pivo, il quale per chi non lo conosceva si chiamava Alberto. Ricordo come se fosse oggi l’esatto momento in cui tutti incominciarono a chiamarlo in questo modo, un giorno qualcuno si mise a cantare la filastrocca “Pivo, Pivo l’olio d’olivo” e lui, che ancora non aveva un nome, domandò – ma chi è Pivo? – Fu così che quello stesso individuo, quello che cantava, gli puntò il dito addosso e gli rispose – sei tu! – e da quel momento tutti lo chiamarono Pivo. In effetti quel soprannome, Pivo, pur non significando alcunché sembrava straordinariamente adatto a lui e con il trascorrere del tempo si rivelò perfettamente idoneo a descrivere in due sole sillabe l’intera personalità del mio amico.
Il vero nome di Ciccio invece era Salvatore Cuomo ma né Salvo, né Totò, che pur avevamo usato per un certo periodo, gli si addicevano. Era un ragazzino dalla pelle scura, sembrava abbronzato anche d’inverno ed aveva i capelli così neri e dritti da ricordare una spazzola per lucidare le scarpe. I suoi genitori erano entrambi siciliani e lo nutrivano ad ogni ora del giorno con arancini, dolci alla mandorla e con tante altre prelibatezze alle quali lui non si negava mai. – Mangia, Totò, mangia, – ripeteva continuamente sua madre, la quale con tutte queste premure aveva finito per ridurlo ad un insaziabile ingordo.
Il nome Ciccio pertanto gli stava a pennello, lui del resto non obiettava, anzi generalmente se ne faceva un motivo di vanto, immaginando che quell’appellativo, Ciccio, in qualche modo potesse significare anche grande, forte, cattivo.
Avevamo dodici anni allora e il nostro unico divertimento era quello di andare a scuola. No, non eravamo dei ripugnanti secchioni ed anzi i libri non ci interessavano proprio per niente, ricordo che quando a Natale mia zia mi regalò la piccola enciclopedia in tre volumi, io scoppiai a piangere. La scuola in effetti ci piaceva per tutt’altra ragione, lì si poteva ridere e scherzare per mezza giornata senza che nessuno ce lo impedisse, del resto a quell’età non esistevano tante altre occasioni per incontrare i propri amici, a parte il catechismo e la messa di domenica rimaneva per l’appunto solo la scuola. Naturalmente c’era anche la famiglia, la mamma, il babbo, ma con i propri compagni di classe ci si divertiva di più e proprio questo aspetto, il divertimento, incominciava ad assumere sempre maggiore importanza nella ricerca delle persone da frequentare. Devo dire che allora bastava veramente poco per divertirsi, in effetti ogni fatto che accadeva sembrava tremendamente buffo e più esso si presentava stupido, patetico o demenziale, più esso risultava adatto ad innescare una interminabile risata. Del resto le situazioni più esilaranti, quelle che inevitabilmente provocavano intensi sforzi facciali e addominali, quelle che per intenderci facevano piangere dal ridere, avvenivano quando qualcosa di estremamente sciocco accadeva durante una circostanza solenne o quando una persona con un ruolo autorevole si copriva, suo malgrado, di ridicolo. In circostanze di questo tipo ridere era ovviamente proibito ma proprio questo fatto, la negazione della possibilità di esplodere in una fragorosa risata, diventava il pretesto per uno sghignazzo tanto intrattenibile quanto continuo.
Accadde ad esempio che una domenica il parroco si addormentò in chiesa durante la lettura del Vangelo ed un chierichetto pensò di destarlo con una forte scampanellata vicino al suo orecchio. Il sacerdote si svegliò di scatto ed emise un grido di spavento, aveva gli occhi fuori dalle orbite, perse l’equilibrio e quasi si ribaltò dal sedile del presbiterio sul quale si trovava.
In un’altra circostanza, questa volta a scuola, un gatto entrò in classe passando per la finestra e l’insegnante di educazione artistica, il quale forse in quel momento non sapeva come occupare la sua ora di lezione, ebbe la bella idea di farci prendere i pastelli per disegnarlo. Il fatto buffo fu che quel gatto non sapeva di essere stato eletto a modello per un’opera d’arte e così, invece di rimanere in posa per farsi ritrarre, incominciò a gironzolare per la stanza annusando tutte le cartelle. Io ero riuscito a disegnarne solamente la coda quando lo vidi infilarsi dentro la borsa del mio compagno Marzi ed agguantare subito dopo la sua merenda. Marzi in quel momento si trovava in bagno ed ognuno di noi sperava che tornasse prima che il gatto avesse finito di gustarsi la sua brioche. La sorte quel giorno fu dalla nostra parte e le cose andarono proprio in questo modo, lui entrò in classe, colse il gatto in flagrante mentre rovistava dentro la sua cartella e senza dire nulla rivolse lo sguardo all’insegnate in cerca di qualche spiegazione. Questi però era tutto preso a leggere il giornale e non sembrava essersi nemmeno accorto di ciò che stava accadendo. Marzi allora si voltò verso il gatto e senza troppo pensarci lo afferrò energicamente per la coda, aprì la finestra e lo lanciò fuori. Il professore, ricordo, non ebbe il tempo di impedire quel gesto ma si infuriò tremendamente, mise una nota sul registro al mio compagno e voltando lo sguardo verso qualcuno preso a caso nell’aula tuonò – non ridete! – rendendo in questo modo l’intera situazione ancora più esilarante.
Tutto questo accadeva quando avevo dodici anni e frequentavo il secondo anno di scuola media nel mio paese. Ricordo che l’aula era suddivisa in due parti speculari, in una, ammucchiati in file di tre vicino alle finestre, c’erano i banchi dei ragazzi, le ragazze invece se ne stavano tutte assieme dall’altra parte. Non era stata una decisione imposta, semplicemente noi ragazzi ritenevamo di non avere nulla da spartire con le ragazze, eravamo anzi convinti che farsi vedere vicino ad una “femmina”, così le chiamavamo, poteva diventare un pretesto di generale derisione nei propri confronti, era insomma un’infamia, un disonore e se la cosa si ripeteva, se qualche “maschio” ad esempio aveva un’amica “femmina”, questo lo condannava all’emarginazione, al disprezzo e al pubblico ludibrio.
Naturalmente Monica era bella, lo era perché lo dicevano tutti ed era bella anche Laura con i suoi capelli lisci e neri, ma che importava? A loro non piaceva giocare a figurine, né a pallone e soprattutto non si divertivano quando le si picchiava, invece di ridere come facevamo noi “maschi” loro scoppiavano a piangere e correvano a raccontare tutto alla persona che noi credevamo essere il diretto superiore gerarchico di tutti gli insegnanti, la bidella. Allora che differenza faceva se quelle femmine erano belle o brutte? Erano noiose e basta! Così, mentre loro passavano il tempo discutendo di argomenti che noi qualificavamo come tremendamente stupidi, noi ragazzi avevamo interessi di tutt’altro genere, i quali richiedevano abilità, coraggio ed alta sopportazione del dolore. Più precisamente, a parte il gioco d’azzardo con le figurine ed il “pallone”, termine quest’ultimo che raggruppava vari divertimenti, i nostri passatempi principali riguardavano la caccia alle lucertole e la lotta. Le lucertole però si potevano catturare solamente nei mesi caldi mentre d’inverno andavano in letargo, lo avevamo studiato con particolare interesse nel libro di scienze, pertanto, quando non si poteva fare altro che rimanere chiusi in casa, passavamo il nostro tempo inventando giochi sempre più crudeli e sadici. Per dirla tutta non si trattava di veri e propri giochi, qualcuno ti veniva incontro e diceva – ohi, facciamo a botte? – tu solitamente rispondevi – sì! – e subito dopo il compagno che ti aveva sfidato ti mollava un pugno nello stomaco o una gomitata nella schiena. Erano insomma le più immediate manifestazioni di quegli impulsi primordiali che ogni individuo civile impara presto a placare per differenziarsi dalle belve. Il fatto è che noi ancora non lo avevamo imparato.
Le ragazze, dicevo, non ne volevano sapere di prendere parte alle nostre violenze ma del resto a noi maschi non ce ne importava granché. Solamente un anno più tardi, in terza media, quando le loro forme iniziarono a causarci turbamenti di vario genere, incominciammo a pensare ad esse in modo differente e a coinvolgerle sempre più spesso nei nostri interessi. Anzi furono proprio quei giochi sfrenati a diventare il pretesto più efficace per allungate le mani su di loro con disinvoltura, legittimando il tutto con le regole precedentemente stabilite e trovando, in modo tutto sommato lecito, la possibilità di esplorare quelle parti del loro corpo tanto agognate dai nostri istinti.
Dunque a scuola c’erano i maschi, c’erano le femmine ma c’era anche un ragazzo che preferiva la compagnia di queste ultime a quella dei maschi. Ricordo che aveva uno stravagante taglio di capelli che lo faceva assomigliare a quelle statue tardogotiche osservate nei fregi marmorei di alcune chiese, le cui foto in bianco e nero riempivano il libro di storia. Era l’unico ragazzo ad avere un banco nella parte dell’aula riservata alle femmine, era l’unico maschio che, anziché amare la sporcizia, si lavava sempre le mani, era l’unico individuo che veniva chiamato con il nome di battesimo, utilizzando però, nella tipica accezione fonetica della nostra regione, la lettera “v” al posto della “u”, era Mavro.
Mavro aveva i piedi più grandi della norma per un ragazzino della sua età e quando correva essi, invece di rimanere dritti, sventolavano all’aria. Non che questo fatto rappresentasse un problema e del resto lui non correva mai, trascorreva piuttosto il suo tempo leggendo ogni libro pubblicato e, quasi per diretta conseguenza, indossava un paio di occhiali quadrati le cui lenti erano talmente grandi e convesse da assomigliare a due televisori. Lo ricordo bene ed ogni volta che penso a lui mi ritorna in mente il periodo di carnevale. Durante gli anni della mia infanzia, in occasione di questa festa, io mi ero sempre travestito da Zorro, il fatto strano è che anche gli altri miei compagni di classe si mascheravano da Zorro, in effetti tutti i ragazzi si vestivano da Zorro e tutte le ragazze si vestivano da fatina. La sola eccezione era Mavro, il quale, anno dopo anno, si presentava a scuola con la maschera di arlecchino.
E poi lui era il ragazzo che nessuno desiderava avere seduto al proprio fianco, ricordo che in occasione della gita scolastica i posti sul pullman non erano tutti uguali, la loro posizione in cima, in fondo o sui lati rivestiva un preciso valore simbolico. Il lungo sedile posteriore, ad esempio, era sempre occupato dai ragazzi più grandi, quelli di terza media. Dalla parte opposta, ossia in cima al pullman, sedevano gli insegnanti e i secchioni. Tuttavia non era né nell’uno, né nell’altro il luogo in cui Mavro trovava la sua sistemazione, c’era infatti un altro sedile al quale si accedeva non per scelta ma per occorrenza. Era il posto di fianco all’autista dove si trovava lo sfortunato di turno a cui faceva male la corriera. Ricordo che Mavro era sempre seduto lì e sopportava ogni anno il suo dolore con il viso pallido, sperando che arrivasse al più presto il momento della pausa all’autogrill.
Probabilmente chiunque si fosse trovato nella sua condizione avrebbe voluto riscattarsi, Mavro tuttavia non se ne faceva un problema particolare ed anzi preferiva declinare ogni invito a prendere parte in qualsiasi gioco o in qualsiasi marachella, cosa che, per il solo fatto di accettare, gli avrebbe conferito da sé una sufficiente considerazione sociale. Così ad esempio non aveva voluto rubare gli attrezzi all’elettricista quando questi era venuto ad aggiustare la presa di corrente nella nostra aula, era scappato quando avevamo deciso di forare le gomme all’auto della professoressa di matematica ed un sabato pomeriggio non se l’era sentita di nascondersi nel confessionale della chiesa fingendosi il prete.
Il suo atteggiamento era interpretato da tutti come una sorta di vigliaccheria ma non gli sarebbe stato comunque precluso il rispetto se per lo meno non fosse stato anche uno spione. Ma ahimè lo era e quando veniva a conoscenza di qualche marachella ideata o messa in atto da un suo compagno, lui, per paura di essere incriminato e punito alla stregua del colpevole, si recava di sua iniziativa da qualche insegnante, dalla bidella o dal prete e spiattellava tutto.
Un giorno, ricordo, durante l’intervallo, scoppiò una tremenda discussione tra Mavro e Ciccio e, dopo qualche minuto, essa degenerò in urla e spintoni. A dividere i due intervenne l’insegnante di matematica, la quale però decise di punire solo Ciccio con una nota sul registro. Mavro allora tornò al suo posto e si mise a scrivere silenziosamente sul quaderno ma durante l’ora successiva, invece di continuare a starsene zitto, non fece altro che lamentarsi e raccontare alla professoressa di italiano ciò che gli era capitato, diceva che non aveva fatto nulla di male, che era stato aggredito ingiustamente, che Ciccio era sempre esagerato nelle sue reazioni e che bisognava avere paura di lui. Noi ascoltavamo in silenzio ed osservavamo il povero Ciccio, il quale, per timore di prendersi un’altra nota sul registro, non replicava. Quel giorno, a causa della sua linguaccia, Mavro si era reso davvero odioso e ad ogni modo Ciccio non si meritava una simile umiliazione. Decidemmo così di vendicare il nostro amico e punire il leccapiedi in modo esemplare. Il momento del regolamento dei conti non tardò a venire, dopo meno di una settimana, infatti, Marzi riuscì a prelevare dalla cartella di Mavro il quaderno a quadri e da questo strappò le pagine che contenevano i compiti svolti a casa. L’insegnante di matematica aveva l’abitudine di farsi consegnare tutti i quaderni all’inizio dell’ora per poi verificare che ognuno di noi avesse risolto le operazioni di algebra. Così avvenne anche quel giorno ma quando lei si mise a controllare i compiti di Mavro, dopo avere sfogliato ripetutamente le pagine, domandò – dove sono gli esercizi?
– Nell’ultima pagina, – rispose lui in modo molto tranquillo.
– Io qui non vedo nulla, – disse la professoressa, continuando a sfogliare il quaderno, – l’ultima pagina riporta gli esercizi della settimana passata.
– Non è possibile, – replicò Mavro.
L’insegnante lo invitò ad alzarsi per controllare, lui prese il quaderno in mano e dopo qualche secondo incominciò a gridare – ma qui mancano delle pagine! Mi hanno fatto un dispetto, è stato Cuomo, vede professoressa com’è cattivo? È stato lui, gli metta un’altra nota.
In effetti le cose erano andate pressappoco in quel modo, tranne per il fatto che il gesto era stato messo in atto da Marzi e che non si trattava di un dispetto ma di una sanzione. L’insegnante, però, forse rammaricandosi per la parzialità con cui aveva punito Ciccio qualche giorno prima, replicò – è sempre colpa di Cuomo, eh? Anche quando non fai i compiti a casa! – e senza aggiungere altro appose una nota sul quaderno di Mavro, il quale tornò al suo posto, incassò la testa tra le braccia e trascorse il resto della mattinata a piangere.

[continua]

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