Racconto premiato di Silvia Marini


Con questo racconto è risultata 3^ classificata – Sezione narrativa VII Edizione del Premio letterario Il Club dei Poeti 2012


Questa la motivazione della Giuria: «Il racconto di Silvia Marini riporta ad un dramma odierno che è nelle cronache quotidiane. Tutto ha inizio con l’arrivo di un barcone di disperati che porta con sé il “carico umano” di speranze e l’auspicio di una vita migliore. Giuseppe è un falegname che ama lavorare il legno ma può ben considerarsi un artista nel vero senso della parola: il giorno del primo sbarco decide di “rendere più umana la morte” di coloro che hanno scelto la sua terra come ultimo viaggio. Costruirà una croce per coloro che moriranno: una croce per ogni “anima addormentata”, per dare un senso alla loro esistenza. Silvia Marini accompagna con grande umanità nella drammaticità d’una condizione esistenziale che rappresenta una delle numerose tragedie dell’Uomo». Massimo Barile


Croci

Strano luogo l’isola. Strana gente gli isolani. Aria, acqua, terra… colori, odori… tutto si mescola, tutto si confonde… niente di netto, di definito. Il vento, signore del tempo, agita i pensieri, confonde le mutevoli sorti degli uomini… Mutevoli, come la linea di costa, sono gli umori di chi nasce e muore entro i confini tremuli disegnati dal mare. Poi, quando il vento si placa, gli elementi ritrovano il proprio posto e, in quell’universo cangiante, disegnano un equilibrio nuovo… Così gli uomini. Inventano il loro precario equilibrio, ridono, piangono, s’innamorano… mentre i giovani sognano di fuggire e i vecchi sognano di tornare.
La vita scorre lenta, laggiù, in mezzo al mare, il ritmo delle onde modula le ore, scandisce il tempo. Le idee nuove arrivano sbiadite e di seconda mano, ma talvolta, per uno strano scherzo del destino, il vento della storia soffia al contrario. Accade dunque che, quello scoglio perduto nel tempo, contro ogni logica e previsione, assuma improvvisamente il ruolo di protagonista, veda dipanarsi, dentro di sé, il cammino dei grandi eventi.
Fu così che un giorno, anche alla mia isola, la storia bussò.
All’inizio nessuno se ne accorse. La storia non dà il preavviso…
Apparve all’orizzonte, all’alba di una giornata tiepida e senza vento. Un punto che solo gli occhi esperti di chi, da generazioni, scruta confini incerti, sapeva interpretare. Un punto perso, che si avvicinava.
– Forse un pescatore che ha perso la rotta… spesso accade. Siamo gente di mare… comprendiamo, prestiamo soccorso, ci aiutiamo. Conosciamo il mare. Abbiamo imparato a difenderci.
Molti accorsero in spiaggia, quel mattino, per godere in pieno il diversivo che la nuova giornata porgeva.
Il punto diventava pian piano una strana figura geometrica, cui nessuno riusciva ad attribuire un’identità. Invano gli anziani cercavano di dare un nome a quell’oggetto vago. Niente di noto. L’ignoto attrae alcuni, spaventa i più. Così, mentre alcuni restavano in fiduciosa attesa, altri, sopraffatti dall’ansia, paventavano scenari oscuri, parlavano di minaccia incombente sull’isola.
Poi, di colpo, tutto fu chiaro.
Niente di ciò che avevamo pensato, sofferto, vissuto, ci aveva preparati all’orrore di quell’incontro. Una barca, anzi un barcone, pieno fino all’inverosimile, si avvicinava col proprio carico di disperazione.
Vedemmo prendere forma e consistenza corpi, volti, occhi… muti. Corpi instabili, sostenuti debolmente dalle gambe tremanti, appiccicati, quasi a prendere forza dal reciproco contatto, fragili… sporchi… sconfitti.
La barca scelse noi… il nostro scoglio… per iniziare una nuova vita, che affrontava con sguardo impaurito. La barca e il proprio contenuto umano.
Scesero in fila. Una processione senza Dio.
Molti uomini, alcune donne, qualche bambino. Sfilavano davanti ai nostri occhi increduli, esprimendo l’infinita varietà dell’umano sentire: rabbia, sofferenza, rassegnazione, impotenza, fiducia, speranza…
Cominciammo a contare.
«Uno, due, tre, quattro… dieci, venti, trenta… poi cento, centouno, centodue, centotré, centoquattro… centotré…» mentre un uomo, più magro e macilento degli altri, cadeva senza vita, ai piedi di Giuseppe, il falegname.
Restammo muti, mentre loro prendevano possesso del nostro territorio.
I nostri vecchi guardavano e ricordavano.
Poi lo stupore si trasformò in azione, impulsiva, irriflessa, caotica. Un turbinio di richieste, diverse e contrastanti, invase l’aria che, fino a poche ore prima, era quieta. Regnò il caos.
«Chiamate un medico. Un’ambulanza».
«La polizia. Il sindaco».
«Portate acqua, cibo, coperte».
«Saranno malati. Non vi avvicinate».
«Sono malati. Hanno fame, freddo, paura».
«Proviamo a parlare. Qualcuno saprà l’italiano».
«Quanti sono? Sono troppi! Dove li mettiamo? Che tornino a casa loro!».
«Prima i soccorsi. Poi decideremo. È la legge del mare. Parlò Nicola, il pescatore, dall’alto dei suoi ottantacinque anni, vissuti, per gran parte, in mare. Poche, essenziali, parole».

Passarono le ore… e poi i giorni… dopo i giorni, altri giorni… dopo la barca, altre barche…
Gli uomini si divisero. La comunità si spaccò. Gli opposti divennero sempre più opposti. Mentre gli uni davano da mangiare agli affamati e da bere agli assetati, gli altri raccoglievano firme, scrivevano petizioni per cacciare gli invasori, liberare il territorio dalla minaccia forestiera. Ogni azione degli uni produceva negli altri una reazione uguale e contraria, cosicché gli sforzi si vanificavano, si annullavano reciprocamente.

Coloro che avevano deciso di prestare soccorso, lo facevano alla propria maniera. Ognuno aveva ritagliato il proprio compito personale. C’era lavoro per tutti. Chi si occupava del cibo, chi dei vestiti, chi della pulizia degli ambienti, chi curava il corpo, chi lo spirito, chi si dedicava agli adulti, chi ai bambini.
Fu così che, in quell’ondata di zelo umanitario che aveva conquistato parte dell’isola, anche Giuseppe, falegname da sempre, aveva ritagliato la propria personalissima maniera per alleviare il dolore.
«Sono figlio d’arte» si schermiva quando qualcuno lodava la sua maestria- Discendo da una nobile stirpe di falegnami. Il destino è nel nome. Concludeva, un po’ per scherzo, un po’ sul serio.
Giuseppe parlava poco e lavorava molto. Mani abili, cuore grande. Conosceva i trucchi del mestiere. Pareva parlare con il legno. Carezzava tronchi inerti, li lisciava con le sue mani ruvide, osservava, annusava, pensava, poi, con un guizzo di fantasia sceglieva, forgiava con sapienza quel pezzo di legno inanimato, lo trasformava, infondendogli nuova vita. Artigiano, artista, maestro, le definizioni si sprecavano.
«Amo il mio lavoro. Niente di più» commentava.
Iniziò il giorno del primo sbarco, quando quell’uomo magro, macilento, era caduto ai suoi piedi… quasi ad affidarsi a lui per le estreme cure. Lo interpretò come un segno, lui, anima semplice, credeva ai segni. Aveva sempre lavorato per migliorare la vita: sedie, tavoli, culle, mobili di ogni tipo e fattura. Ora capiva che il suo destino sarebbe stato un altro. Decise che avrebbe reso più umana la morte di chi aveva scelto la sua terra per esalare l’ultimo respiro.
Costruì una bara, e, a dispetto di tutto, volle pensarla un oggetto vivo. Raccolse la storia di chi, in eterno, avrebbe riposato tra le sue pareti …per lavorare meglio. Diceva…
Seppe, così, che quel primo uomo, Abdul, cercava una risposta al male che lo consumava che lo aveva reso magro e fragile. Una risposta alla nuova peste, al nuovo flagello di Dio, che la sua terra, l’Africa, non poteva offrire.
Giuseppe incise il nome e la storia, scelse un posto, sulla collina, per seppellire Abdul… e quanti lo seguiranno. Pensò. E aveva ragione
Un mese dopo depose Fatima, con il suo carico di vita sconfitta… Fatima e il suo bambino, che doveva nascere nel mondo dei ricchi, che non avrebbe sofferto fame e malattia… Fatima coraggiosa, intrepida, luce negli occhi… luce spezzata.
Depose Paul, invasore di cinque anni, affidato dalla madre alle cure poco amorevoli degli zii, che avrebbero dovuto proteggerlo, avviarlo alla nuova vita, che riuscirono, a fatica, a proteggere se stessi.
Depose quelli che seguirono, che ora dormono sulla collina, in un angolo solo per loro. Benedetto dal sole, dalla pioggia, dal vento e da una croce.
Sì, una croce. Giuseppe non voleva lasciarli così, senza un segno…
Forgiò con le sue mani esperte una croce per ogni anima addormentata. Vi pose il nome e la storia… la vita e la morte.

«Non puoi. È un abuso» dicevano alcuni.
«È inutile. Pensa alla tua gente» dicevano altri.
«Non puoi, Giuseppe. E se sono musulmani? Se non hanno fede?»
«Gesù non si cura di queste cose» rispondeva.
…E nemmeno Giuseppe se ne curava. Continuava a costruire croci, instancabile e generoso, affinché almeno la morte restituisse, a quelle vite perdute, il senso della loro esistenza.

Silvia Marini



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