Opere di

Silvia Marini

Con questo racconto è risultata 5ˆ classificata ex aequo – Sezione narrativa alla VI Edizione del Premio di Scrittura Creativa dedicato a Lella Razza 2010

«Dai diamanti non nasce niente»

Olga veniva da lontano. Ogni mattina, con sole, pioggia o vento, percorreva, in sella alla sua bicicletta, i tre chilometri che la separavano dal posto di lavoro. Avrebbe potuto, forse, organizzarsi con una collega, o addirittura acquistare una macchinetta usata ma quella passeggiata mattutina, a contatto con gli elementi mutevoli della natura, la metteva di buon umore, la riconciliava con se stessa. Attraversava la pianura, osservava gli alberi in lontananza, studiava il volo degli uccelli e sempre tornava, con la mente, alla sua terra lontana, anch’essa bassa e placida, fiorita in primavera, candida in inverno. Pedalava, nella strada bassa, di campagna, pensando alla croce sull’enorme calendario, appeso alla parete della camera da letto che la sera prima, come ogni altra sera passata, aveva tracciato con mano ferma e decisa. Ancora trenta croci e avrebbe avuto un mese tutto per sé, lontano, ad Est, in Romania, da quel figlio che quasi non la riconosceva, da quel marito che già cominciava a guardarsi intorno…
Era sempre la stessa storia! Gli occhi cominciavano a farsi umidi, quando, provvidenziale, giungeva il rumore di camion, automobili, affaristi e vacanzieri, bambini capricciosi, belle signore, una varia umanità che quasi non vedeva più. Apriva il cancello posteriore, chiudeva saldamente la bicicletta, ed entrava, piccola e pulita, nella stazione di sosta dell’autostrada, in cui lavorava. Scendeva le scale che la conducevano all’ufficio, come malignamente ironizzavano le colleghe, un tavolo, un cestino colorato, un vasetto con un fiore… eh sì, lei al fiore non rinunciava mai. Portava sempre con sé un fiore, e con la grazia antica della sua gente, lo poneva nella posizione che meglio ne esaltasse lo splendore. Lo coglieva, o meglio lo rubava- unico neo nella sua specchiata onestà- durante il percorso mattutino, vario, come varia la vita ad ogni stagione.
Il tavolino si trovava nell’abitacolo che divide il bagno dei signori da quello delle signore, per poter vigilare entrambi gli ambienti, ricevere sorridendo, senza nulla chiedere, lo spicciolo che uomini o donne avevano la gentilezza di donare.
Quel posto di lavoro era stato un’autentica manna dal cielo, un colpo di fortuna, inatteso e insperato. Quando la signora era morta, le aveva lasciato un bel sorriso di riconoscenza e quegli orecchini d’oro che, immediatamente convertiti in moneta sonante, le avevano concesso un viaggio extra nell’amata Romania, ad abbracciare quel figlio che appena la riconosceva…
I parenti, inspiegabilmente colpiti dai sussulti della coscienza, le avevano segnalato quel posto di lavoro, l’avevano presentata al direttore, dichiarando le ottime referenze di cui disponeva; così era stata assunta e se lo teneva ben stretto quel lavoro che significava casa, scuola, un futuro migliore per suo figlio, laggiù in Romania… – Gli spiccioli puoi tenerli. Oltre alla paga, avrai la colazione ogni mattina, ma fa attenzione, tutto deve essere lindo, profumato, non voglio lamentele, i bagni del mio locale devono brillare.
E soprattutto non deve mancare niente. Ogni oggetto perduto: monete, portafogli, documenti, chiavi, gioielli, tutto! Alla fine della giornata voglio tutto qui, nel mio ufficio. Al primo sospetto te ne torni a casa, dritta come sei venuta.
Ogni giorno e ogni sera, Olga consegnava al suo capo una ricca mercanzia di oggetti perduti, gocce di superfluo, perse in un mare di inutilità. Lavorava, lucidava, sorrideva e curava i fiori. Aveva un vezzo, Olga. Ogni sera regalava il fiore che aveva colto al mattino a chi le avesse regalato il più bel sorriso, a chi, per qualche insondabile ragione, le pareva avesse bisogno di profumare la propria vita…

Trenta croci alla partenza. Era allegra Olga quella mattina, il sole le carezzava i capelli biondi e lucenti. Arrivò puntuale, come sempre, poi, piccoli gesti meccanici, indossò il grembiule, i guanti e le scarpe da lavoro, prese scope, secchi, detersivi e pulì accuratamente i dodici bagni, sei per i signori e sei per le signore, che le erano affidati, lucidò lavandini e specchi, infine si concesse una pausa. Accomodò la rosa rossa, colta la mattina, in un bel vaso di vetro colorato che le colleghe le avevano regalato.
Cominciò un’altra giornata di sorrisi, uomini indaffarati, signore eleganti, signore un po’ pacchiane, ingioiellate come la Madonna di Pompei, lei non ci faceva più caso… era assorta nei suoi pensieri anche quando, con la coda dell’occhio, vide una mano, con un brillante grande come una ciliegia, depositare dieci centesimi nel cestino delle offerte. Alzò lo sguardo, incontrò due occhi freddi e muti, belli e lontani, la sfiorarono appena… poi se ne scordò.
Fu alla sera, quando iniziò l’ultimo giro di pulizie, nel bagno delle signore, precisa e attenta come sempre, notò un bagliore nell’angolo più nascosto… quasi non si vedeva, sarebbe sfuggito a chiunque, ma non ai suoi occhi esperti. Il diamante, di ghiaccio come gli occhi della bella signora che, sprezzante e altera, le aveva concesso uno sguardo sfuggente…
Lo raccolse e, automaticamente, senza pensare, si diresse ai gradini che la conducevano da quel capo, cui ogni sera consegnava una ricca mercanzia. Ma il diavolo, ogni tanto, si mette nel mezzo, lei rimase impietrita, folgorata da un pensiero. La sua onestà cristallina era confermata dalle tasche piene, che ogni sera rovesciava al cospetto di colui che, alla fine, le aveva concesso: – Tieni pure gli spiccioli, portami solo gli oggetti e il denaro di carta. E così aveva fatto, da quel momento in poi.
Ma quel diamante era troppo, era il passaporto per la libertà, il ritorno a casa, da quel marito che cominciava a guardarsi intorno, da quel figlio che tanto amava… era la vita perduta di cui poteva riprendere la chiave. Non l’aveva rubato, si era offerto a lei perché sapesse coglierlo, trasformarlo in vita pulsante, in amore che palpita e brucia, ma chiede tempo, vicinanza, cura…
Che fare?
Lo nascose, Olga, per poter pensare. Aveva imparato, fin da bambina a non prendere decisioni impulsive, a riflettere bene prima di agire. Aspettò che il bagno fosse deserto e, schivando l’occhiuta sorveglianza delle telecamere, amorevolmente aprì il bocciolo di rosa che aveva posto accanto al cestino, vi depose l’anello che si adagiò perfettamente, come un bambino nella culla.
Trascorsero trenta, forse quaranta minuti, una signora sulla quarantina, altera, sprezzante, dura come l’acciaio, rabbiosa come una cagna feroce, entrò come una furia, accompagnata dal direttore, mansueto come non mai. – Deve essere qui. Lo avevo prima di entrare, sono sicura. Questo è il bagno in cui sono entrata, deve essere qui. Sperate che lo ritrovi, altrimenti vi denuncio… vi faccio togliere la licenza, farete la fame, banda di ladri! – Signora, la prego, mantenga la calma… forse in macchina, lei non sa quanti oggetti si perdono in macchina… pensi che una volta cercai un paio di occhiali per una settimana e, lo crederebbe mai, erano… – Basta! Il mio diamante vale più di quanto potete guadagnare in una vita intera, lo voglio qui e subito. – Signora, cerchi di capire… non possiamo controllare i bagni, c’è la privacy, chissà quante persone sono entrate dopo di lei… – E quella straniera, che prende i soldi per stare a sedere. Lei può entrare nei bagni. – Sì, certo, ma è persona fidata… Le sarà caduto mentre versava qualche spicciolo, guardiamo in terra.
Esausta e rabbiosa, dopo un’ora di inutile ispezione, la signora puntò gli occhi di ghiaccio nel vuoto e disse: – Non finisce qui.

Olga aveva imparato, da piccola, a riflettere molto prima di agire, a non compiere scelte impulsive, ma quella volta le parole le uscirono di bocca contro ogni logica e ogni volontà. – Signora, la prego, accetti questa rosa, simbolo della mia amicizia e della mia lealtà. Ne abbia cura.
La signora se ne andò, in una nuvola di rabbia e follia, furiosa come era venuta, con una rosa rossa vicino al cuore, curioso contrasto con il nero che la rivestiva.

Olga terminò il turno, si tolse i guanti, e lentamente tornò a casa. Con mesta soddisfazione, tracciò un’altra croce sull’immenso calendario che occupava quasi tutta la parete.
Con voce tremante, disse a se stessa: – Meno ventinove.
Poi si addormentò.

Silvia Marini


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