L’Erede Perduto - Quattro regni… Una sola guerra… Un’antica profezia…

di

Silvia Mangiardi


Silvia Mangiardi - L’Erede Perduto - Quattro regni… Una sola guerra… Un’antica profezia…
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa
15x21 - pp. 430 - Euro 18,00
ISBN 978-88-6037-7647

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In copertina: «Return of the warrior» fotografia di Pavel Kann © Fotolia.com


A mio padre e a mia madre,
che mi sanno ascoltare e capire;
A Stefania, la mia confidente;
A Domenico, il mio eroe.


Ringraziamenti

È così che finisce la storia. Così si conclude la vicenda, o almeno ciò che ci è concesso conoscere. Ogni Erede ha raggiunto il traguardo prefissato. Ogni personaggio il suo posto nel mondo. Spero di non averli troppo maltrattati, i miei eroi. Proprio per questo il primo doveroso grazie va a loro che hanno recitato ottimamente la loro parte, con coraggio e perseveranza, a volte superiore ai miei. E al mio fedele computer che mi attendeva trepidante ogni qualvolta mi sentivo particolarmente ispirata e subiva con pazienza ogni correzione e ripensamento.
Ma non solo. Ringrazio i miei genitori, che hanno sopportato i miei sproloqui sullo sviluppo della storia e hanno contribuito alla realizzazione di questo sogno, incoraggiandomi sempre e credendo in me. Mia sorella, la mia “manager”, che con ogni sua frase mi regala un sorriso; spero mi scuserà se a volte ho scaricato su di lei le mie insicurezze. Grazie a mio fratello, che mi ha dato preziosi consigli supportandomi anche da lontano. A Walter e Barbara, per la loro affettuosa presenza. E naturalmente non posso dimenticare tutte le mie amiche, che hanno sempre fatto il tifo per me: ragazze siete uniche! Ma un grazie particolare va alla mia prima lettrice, Emanuela, che con le sue interminabili conferenze su questo romanzo mi ha fatto credere sin dall’inizio che tutto questo fosse possibile. Infine, come non citare la leggendaria I D e i miei professori, sia quelli del Ginnasio che del Liceo.
Grazie a tutti. Perché siete fantastici.

Silvia Mangiardi


L’Erede Perduto - Quattro regni… Una sola guerra… Un’antica profezia…


Prologo

Siamo ormai alle ultime propaggini del Mondo Antico, gli Elfi stanno sbiadendo in un lento declino, ma Zam’ahr risplende ancora viva nella nostra memoria, nella magnificenza delle undici torri, mentre una nuova alba sorgeva alle sue spalle e noi Elfi la abbandonavamo, per non tornarvi mai più. I Nani sorvegliano i deserti, operosi nelle loro città di pietra, lontani da tutto ciò che sta incrinando la pace di queste terre. Noi Elfi ci stiamo sempre più ritirando nella parte centrale di Krynden, accerchiati da queste nuove dinastie che con prepotenza richiedono il loro posto nel mondo. Saranno trascorsi due secoli da quando gli Elfi e le Ninfe suggellarono la loro alleanza con tre matrimoni e stabilirono le Nobili Stirpi nei punti sacri di Krynden, decretando un vincolo vitale: ad Est, o della Nascita, a Nord, o della Crescita e a Sud, o della Rigenerazione. Solo l’Ovest, o della Morte, rimase deserto, come buon auspicio per un legame duraturo. Tuttavia con il cambiare delle generazioni, il sangue elfico si mescolò con quello umano, e la brama di potere e l’indolenza di quella razza presero il sopravvento. Iniziarono a scoppiare sanguinose guerre civili tra il Regno di Ephrendil e le Amazzoni finché il Re di Ephrendil non fu costretto a restringere i confini del regno, liberando le donne guerriere dal suo giogo.
Ma qualcosa di ben più grave covava ad est. Un nuovo re dal sangue Elfico decise di stringere alleanza con le mostruose creature provenienti dai deserti: le Arpie. Forte di questo vincolo di fedeltà, Enyo di Haven fondò il regno di Kerejek ad Ovest e lo portò all’apice dello splendore. Enyo era un uomo ambizioso e superbo, figlio maggiore del re di Haven, che mal tollerò che il padre avesse lasciato il suo regno al figlio minore, meno valoroso, ma dall’animo più mite. Grazie all’abilità politica e oratoria di Enyo, Kerejek divenne presto una grande potenza, sia economicamente sia militarmente. Ma l’ormai anziano Enyo fu spodestato e per quarant’anni il regno languì tra attentati e colpi di stato. Tuttavia al di fuori dei confini della nera terra di Kerejek quello era un tempo di pace, in cui le storie che rievocavano battaglie e assedi parevano solo gli scoloriti ricordi di un incubo ormai lontano. Finché non si iniziò a vociferare di qualche oscura potenza che si accresceva a ovest e perfino nelle ammantate contrade di Lybris iniziarono a giungere notizie inquietanti. Si narrava che nei grandi cancelli di bronzo, che si stagliano davanti al sole che tramonta, scuri drappelli di uomini armati entravano silenti e urla disumane si alzavano strazianti dalle profondità della fortezza. Le foreste venivano abbattute, i fiumi deviati, tutti i fabbri del regno trascinati via e condotti nella roccaforte. Le grandi opere di costruzione non avevano mai fine nell’inquieta terra dell’ovest. Nuove fucine venivano costruite, le prigioni ampliate, i campi militari ingranditi per far spazio agli eserciti senza fine che attraversavano le porte di Ghizlin. E mentre ad Ovest un nuovo Re sedeva sul trono, il suo nome già iniziava ad incutere terrore nelle pacifiche contrade di Krynden. Dalik.
Ma le voci e le notizie bisbigliate dai forestieri rimanevano nella mente delle donne amazzoni solo le stranezze che si udivano al di fuori del loro regno, protetto dai rami dell’invalicabile Foresta Nera, mentre occupava i loro pensieri la costante contesa con i Centauri, anche loro abitanti della selva e perennemente in guerra. Non potevano mai immaginare che le parvenze di un regno che si preparava alla battaglia sarebbero diventate realtà, così presto e in modo così terribile. Alleatosi con i Centauri, Dalik attaccò le amazzoni, assediò la loro capitale, Kalhana, e le costrinse alla difesa. Solo l’intervento degli uomini di Ephrendil, decisivo quanto inaspettato, salvò le Amazzoni della disfatta.
Dalik non si lasciò scoraggiare e cambiò bersaglio. Non riuscendo a valicare i Monti Eburnei, sfruttò le grandi risorse militari ed economiche del suo regno riuscendo ad attaccare Fert e a mantenere su Tyrethor una morsa glaciale, deformandola con i suoi artigli di ghiaccio. Il numero dei morti e quello dei feriti nell’esercito di Fert fu incalcolabile e al termine della guerra il terreno rimase per più di tredici inverni tinto del cupo vermiglio del sangue: fu denominata la Battaglia Rossa. Saccheggiando e bruciando tutto ciò che trovava sul suo cammino, l’esercito di Kerejek si fece strada attraverso Fert e giunse a Lybris, il regno del Nord. Ma questa volta le distanze e l’artico inverno che sorprese la sua armata durante la battaglia, furono avversari troppo potenti per Dalik. L’assedio al Bianco Ellisse, in cui, protetta nella sua muraglia naturale, svettava bella e superba l’imprendibile Salv Rean, fallì miseramente e l’esercito dell’Ovest fu costretto a ritirarsi, ma portò con sé un bottino ben più nobile di quanto i biondi abitanti di Lybris potessero temere: la Regina era stata rapita. Le menti poco avvezze alla guerra dei sovrani di Nobile Stirpe non compresero il piano di Dalik e per l’indiscussa bellezza della sovrana, nota in tutte le Sei Regioni del mondo conosciuto, pensarono ingenuamente ad una questione amorosa, preparandosi a scatenare una nuova guerra di Troia, emulando le gesta del Mondo Equivalente. Tuttavia nella Guerra dei Sette Giorni, Kerejek sbaragliò Orais, ebbe così libero accesso a Haven e anche qui il re venne fatto prigioniero. Quando le Nobili Stirpi compresero l’obiettivo primario di Dalik, era troppo tardi per impedirgli di portarlo a compimento, infatti non ci volle molto che anche ad Ephrendil il regnante che portava sangue Elfico venisse rapito.
Rinchiusi nelle segrete della fortezza, i tre sovrani si trovarono in balia del fuoco dell’Ovest. E fu in quel momento che i Re cedettero, costretti a compiere un sortilegio, un incantesimo siglato col sangue. Esso avrebbe permesso a Dalik di ottenere ciò cui da sempre bramava e che gli avrebbe consentito di conquistare lentamente tutte le terre conosciute: l’immortalità.
Il sangue del nostro sangue scorreva nelle vene di quei nobili che nella reggia di Ghizlin aspettavano la loro condanna. Così, insieme alle Ninfe ci unimmo e andammo a liberarli. Nella Valle di Transizione si consumò un’acre battaglia, finché un piccolo contingente riuscì a penetrare fino alla capitale e a liberare i sovrani. Di nuovo memore della sua forza, l’Alleanza si batté con valore, sconfisse Dalik e lo relegò nell’Ombra. Era stato sconfitto, ma non annientato. E insieme a lui scomparve nell’oblio il Mondo Antico, mentre un Mondo Nuovo vedeva la luce.
L’ascesa di Dalik ha sconvolto le Nobili Stirpi, due di loro hanno lasciato queste terre, sono fuggite dal mondo selvaggio e imprevedibile che noi abitiamo, per rifugiarsi nel regno della logica e della civiltà: la Terra, il Mondo Equivalente, che conduce la sua esistenza ignorando la nostra. Prima che i sovrani del Nord e quelli dell’Est sparissero inghiottiti dalla luce, siamo riusciti a far proferire loro un giuramento, che garantirà la salvezza di Krynden, o la sua rovina. Abbiamo immesso nel loro sangue un legame forgiato con l’antica magia elfica, che giacerà silente e inattivo, finché i Servi di Krynden non debbano tornare ad aiutare il loro padrone.
Le famiglie Reali rimarranno vicine, i loro ricordi sono comuni, il loro un unico passato. Ma sarà difficile conservare la memoria di quello che Krynden è, in un nuovo mondo, in una terra senza la magia.
Dagli Annali della Confraternita,
Verbale del Secondo Consiglio.


1

Il primogenito

Trascorsero cinquecento anni da quando Dalik si sedette sul trono di Ghizlin e iniziò la sua ascesa al potere assoluto, cinquecento anni da quando l’Alleanza trionfò ai confini di Kerejek e da cinquecento anni la Stirpe del Nord e quella del Sud avevano lasciato le Terre Originarie.
Ma all’ombra di oscuri antri nascosti nei deserti, quello stesso uomo, umiliato e sconfitto, urlava sussurri di un potere strappato, e a poco a poco prendeva forma la sua vendetta. I portoni del palazzo di bronzo nero si schiusero di nuovo, esponendo la sala del trono al turbinante vento del sud. Una figura ammantata di nero avanzò lentamente nel grigiore del palazzo, si appressò al trono e ne sfiorò il profilo con la punta delle dita, con la delicatezza di un amante. Assaporò ogni bassorilievo, osservò ogni ombra, ogni sfumatura del dragone che avvolgeva il seggio, poi gli diede le spalle e vi si sedette. Un sorriso ambiguo gli si dipinse sul viso e gli occhi gli si illuminarono di una nuova luce, di una nuova vita.
Nelle sperdute contrade di Vel Dyrel, una donna sedeva con le gambe incrociate su un promontorio, lunghi capelli castani le scendevano lungo le spalle, dipanandosi sul prato come un manto. Le mani sospese nel vuoto, gli occhi socchiusi, le palpebre scosse da un brivido. Lentamente si accigliò. Questo fu quello che vide:
“Gli eserciti neri procedevano senza tregua verso sud, gli emblemi sui loro petti risplendevano vermigli e il ruggito dell’idra si propagava in silenzio dalle sette bocche digrignate accompagnato dall’incalzante ritmo della marcia. Avanzavano scuri e silenti come la morte, incendiavano e razziavano tutto ciò che incontravano, riducendo la rigogliosa prateria di Ephrendil a steppa bruciata e le sue secolari foreste a campi di ceppi fumanti. Le spade avvelenate fendevano l’aria, il rumore liquido dei corpi squartati e i tonfi sordi dei cadaveri saturavano l’atmosfera, i lamenti dei feriti divennero la ninna nanna dei bambini e i pianti delle madri e delle mogli riempirono i giorni. Un paese prostrato.”
La donna lanciò un urlo disumano, che riempì la vallata scuotendo ogni sasso, ogni fiore, ogni filo d’erba. Dilaniata dal dolore iniziò a piangere di disperazione, si graffiò le guance fino a farle sanguinare, tirò i lunghi capelli, urlò e pianse senza riuscire a liberarsi della sua visione. Poi infine si distese, silente, a terra. Quando il sole di un nuovo giorno le solleticò il viso, si alzò. Si asciugò le lacrime, si sistemò le pieghe del lungo abito porpora e urlò alle distese deserte una profezia, prima un sussurro, lungo e impercettibile se non a se stessa, poi un grido possente: “Dal tramonto all’alba si consumerà la Grande Battaglia, sconosciuti guerrieri scriveranno la storia, e solo allora l’Erede infedele troverà la sua condanna!”
Ma le memorie dei monti e delle valli, rimasero troppo a lungo inascoltate e il ricordo dapprima vivo e ardente andò a sbiadire nelle nebbie del tempo e giacque per decine di anni nell’oblio dell’assenza.
Così, più di cento anni dopo, sotto le mura di Leysel si consumava l’assedio alla capitale. Come un’ondata di inchiostro che lambiva le mura, l’esercito di Kerejek asserragliava la città, ormai costretta alla difesa. Sulle balaustre i soldati esausti e feriti tagliavano le corde dei rampini, tentando di scoraggiare l’attacco alla cinta muraria. Il tonfo sordo e ritmico di un ariete che tentava di sfondare le porte della città risuonava nel petto dei soldati di Ephrendil come il macabro rintocco della morte. Sui parapetti i guerrieri combattevano con valore contro i soldati dell’Ovest riusciti a salire sulle mura, mentre dalle due possenti colonne che fiancheggiavano il portone venivano rovesciati due pentoloni di pece bollente. Le grida feroci degli uomini ustionati si levavano fino alle stelle splendenti e glaciali, disturbandone il riposo. Quando i cancelli si aprirono, uomini bardati d’oro si scontrarono cozzando contro l’oscuro esercito. I piumaggi color sabbia degli elmi si confusero presto nel risplendere delle armi alla luce delle fiaccole e degli incendi e volute di fumo grigio si alzavano nella volta celeste, solleticando le stelle. Il cielo notturno era terso e limpido, offuscato da nugoli sibilanti di frecce piumate di oro che disegnavano ampie parabole, sotto le loro punte le fila nemiche venivano decimate. Di rimando, una pioggia di dardi fiammeggianti scavalcava le mura appiccando fuoco ai padiglioni improvvisati che punteggiavano i grandi giardini.
In tempo di pace Leysel era una delle più belle città di tutto Krynden. Oltre le titaniche mura color miele si stendevano verdeggianti parchi. Labirinti di ginepro scoprivano angoli incantati con piante rare dagli odori suadenti. Colori incredibili dipingevano i prati, alberi imponenti disegnavano i viali e rampicanti di rose incorniciavano gli archi. Laghetti nascosti svelavano ninfee e giunchi i cui sospiri portati dal vento intonavano cori con timidi ranocchi. Fiori rossi si dipanavano sul terreno a raggiera creando rosoni e mosaici in continuo mutamento e le colonne del Palazzo del Cielo erano avvolte dall’abbraccio simbiotico del gelsomino. Era questo il nome della reggia di Leysel da quando erano state erette, molti anni prima, le quattro Torri che svettavano nel cielo come pugnali d’oro sbiadito. La Torre dell’Alba, ad Est, perché i primi tiepidi raggi luminosi del sole la riempivano con la sua luce; Torre del Tramonto, ad Ovest, perché il sole la accarezzava prima di salutare il mondo; la Torre dell’Aurora a nord, poiché da lì l’Aurora Artica, si narrava dipingesse ogni venticinque anni il cielo con colori sublimi e sfumature inesprimibili; e infine la Torre della Terra, a Sud, perché le leggende raccontavano che questo era il potere destinato a possedere colui che fosse il discendente di una Ninfa.
Ma, immerse nell’oscurità, adesso le Torri osservavano in silenzio la strage che si compiva ai loro piedi. Nel palazzo, intanto, un uomo camminava irrequieto in uno dei corridoi della reggia. Si torceva le mani fissando nel vuoto i penetranti occhi castani. Si voltava di scatto udendo passi affrettati di donne che percorrevano correndo le scale e gli ingressi e che echeggiavano amplificati negli ampi spazi. Poi rivolgeva loro qualche domanda ansiosa, ricevendo sempre risposte frettolose ed evasive. Si passò una mano nei capelli castani e ascoltò il battito accelerato del suo cuore risuonare assordante nel silenzio assoluto della notte, interrotto da isolate urla sofferenti e violenti singhiozzi di pianto che rimbombavano lontane. Il suono di risate e acclamazioni accennati lo ridestarono d’improvviso. Una donna si presentò a lui con un grande sorriso in volto, gli fece un inchino e si apprestò a parlare. Emihild non le diede il tempo di aprir bocca che si precipitò su per le scale. Percorse di corsa il grande atrio superiore popolato da sfarzosi affreschi che lui ormai conosceva a memoria. Raccontavano la storia di Loahsa, una Driade, che incontrò un principe elfico, Erich. Quando i loro occhi s’incrociarono, nessuna delle due creature immortali riuscì a sfuggire ad una magia più intensa di qualunque altro sortilegio, quell’estasi del cuore e dell’anima che gli umani chiamano Amore. Loahsa abbandonò i suoi poteri e l’eterna giovinezza, consapevole che, varcata la soglia del suo regno, non avrebbe potuto farvi più ritorno. La fanciulla sposò il principe e insieme diedero origine ad una delle stirpi più importanti nella storia di Krynden, quella che Dhele e suo marito Emihild rappresentavano.
Il re con grandi falcate attraversò il lungo corridoio, corse verso la porta socchiusa con una corona incisa sopra lo stipite e la spalancò. Vide Dhele, madida di sudore e pallida, con i lunghi capelli neri sciolti sulle spalle, gli occhi azzurri lucidi e commossi, che osservava per la prima volta il loro primogenito: il principe Sylen. Li strinse entrambi in un lungo abbraccio e capì subito si essersi innamorato perdutamente di quella nuova vita che gli pulsava scalciante tra le braccia, capì subito che per lui sarebbe stato disposto a morire.
Di sottofondo i rumori della battaglia si fecero più vicini e violenti e un pensiero incombente disturbò i pensieri felici degli sposi. Emihild li sciolse dall’abbraccio, socchiuse gli occhi e un nodo gli serrò la gola.
«Devo andare…» mormorò. Osservò il visino sorridente di suo figlio, diede un bacio sulla fronte di sua moglie e poi sparì oltre la soglia.
Corse nei suoi alloggi, indossò l’armatura e si fece consegnare la lunga spada d’argento, con un’elaborata impugnatura in oro e giada. Un occhio di tigre era incastonato sul pomolo. Imbracciò lo scudo che rappresentava un possente leone con le fauci spalancate incorniciato dalla sua fluente criniera. Scese per le scale e uscì dal palazzo. Urlò i suoi ordini, la cavalleria si schierò innanzi a lui e gli fu potato il suo baio dorato.
Gli accarezzò il muso. «Ce la faremo anche questa volta» gli mormorò all’orecchio. «Soldati!» chiamò. «Alla carica! Per Ephrendil! Per Leysel! Per il principe Sylen!» Un’ovazione si alzò dalla cavalleria, urla festose per la nascita del primogenito del re, nuovo vigore era stato dato ai soldati. I cavalieri si voltarono e presero a galoppare verso le porte della città, una nuvola di sabbia brillava alla luce dei fuochi sparsi per la città. I cancelli si aprirono ed Emihild in testa al suo esercito combatté contro Kerejek, con l’ira nell’animo, le lacrime sulle guance e il viso di suo figlio nel cuore.
Aiutata da un’ancella, Dhele si alzò in piedi. Dopo tanti anni si scorgeva, nell’amore materno della regina, un barlume di quel potere a cui molto tempo prima una ninfa aveva rinunciato negli antri di quel bosco, travolta dalla luce di Amore. E ora, forse, era il momento di far rifiorire quel potere, nell’ultimo sforzo per portare in salvo suo figlio.

[continua]

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