Evoluzione del concetto di Stato dal XIX al XXI secolo

di

Sergio Benedetto Sabetta


Sergio Benedetto Sabetta - Evoluzione del concetto di Stato dal XIX al XXI secolo
Collana "Le Querce" - I libri di Saggistica e Diaristica
14x20,5 - pp. 84 - Euro 9,50
ISBN 9791259511492

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In copertina: «Ancona 1964, Tenenza Cc Donato Sabetta» fotografia dell’autore

All’interno: fotografie dell’autore


Prefazione

Sergio Benedetto Sabetta propone un interessante saggio relativo all’evoluzione del concetto di Stato che denota grande attenzione nello studio di tale tematica e capacità di affrontare le diverse tesi ed analisi tecnico-giuridiche con una scrittura che risulta lineare e divulgativa.
Il saggio politico-giuridico-filosofico, prende l’avvio dall’attenta disamina dello Stato etico che è scaturito dalla Rivoluzione Francese e si è poi intersecato con il razionalismo positivista ed il nazionalismo, producendo una “volontà di potere” che è poi sfociata nello “Stato etico totalitario” del Novecento.
Sergio Benedetto Sabetta, in questa osservazione, sottolinea fortemente, e con sguardo attento e critico, la costante e crescente volontà di potere dello Stato: nelle varie trattazioni pone sempre l’accento su tale deriva che lo vede protagonista.
Nella fase iniziale del processo analitico vengono esaminate le tre concezioni fondamentali dello Stato: dalla concezione organicistica, poi contrattualistica, per giungere, infine, alla concezione formalistica dell’era contemporanea.
Il saggio affronta le varie teorie sulla concezione dello Stato, fino alla nuova dimensione attuale degli Stati: seguono alcune analisi sulle nuove dinamiche degli Stati, fino alle evoluzioni dell’ultimo periodo con i mutamenti che hanno prodotto l’esportazione del “modello americano” e della sua ideologia democratico liberale.
Nella lettura del saggio, infatti, si evince chiaramente la perdita della centralità dell’Europa nella politica internazionale a favore degli Stati Uniti e delle potenze euroasiatiche.
Fortunatamente, dalla seconda metà del secolo, lo Stato, almeno nelle regioni occidentali, acquisisce finalmente quello che si suole definire un “volto umano” con la creazione del welfare e la forte espansione economica, ed il nazionalismo viene gradualmente superato: la nuova globalizzazione promette miracoli e benessere per tutti i cittadini, ma le grandi promesse vengono disattese e gli esiti non sono certo quelli desiderati, oltre a creare crisi e conflitti tra gli stessi Stati.
Ecco allora prendere il sopravvento, anzi, il dominio, l’idea di “Stato economico” che, logicamente, produce un sempre maggior indebolimento dei piccoli e medi Stati, a favore delle poche Super Potenze e, al contempo, si formano dei nuovi centri di potere privati molto potenti e ramificati su tutti i continenti: sulla scena politica internazionale, ormai, sono paragonati a veri e propri Stati e si rapportano con gli Stati stessi per decidere nuovi progetti politico economico finanziari e le varie pianificazioni geo strategiche.
Tali dinamiche e processi evolutivi producono l’accentramento economico finanziario nelle Super Potenze che praticamente assumono un controllo globale: inevitabile che questa situazione produca alterne crisi e bolle speculative.
La crisi del modello di globalizzazione, elaborato già negli anni Ottanta, ha prodotto tensioni e contraddizioni, ma poco tempo dopo, v’è la riscoperta della concezione dello Stato come “condensatore di potere” con la grande importanza che assumono le strutture statali nello sviluppo economico ed il concetto di etica pubblica per promuovere il bene dei cittadini.
Nell’ultima fase evolutiva viene alla ribalta lo Stato democratico moderno nella sua laicità dove assumono grande importanza le istituzioni nell’attuare le varie scelte politiche e nei processi decisionali.
Sergio Benedetto Sabetta propone un dettagliato studio sull’evoluzione del concetto di Stato mettendo in risalto le contraddizioni e le difficoltà che si sono verificate, fino ai giorni nostri, con l’intenso sviluppo della finanza e la “deterritorializzazione” delle imprese che ha contribuito ancor più ad acuire alcune problematiche relative ai rapporti tra Stato e cittadino e tra Stato e Stato.
Dalla sua analisi emerge chiaramente che è diventato inderogabile cercare di porre in primo piano la necessità di una “coscienza della storia” e della volontà di una “storicizzazione dei fatti”: e diventa imprescindibile mettere al primo posto il bene dei cittadini ed agire per la comunità senza tener conto delle strategie politiche e del tornaconto economico, seppur non ci si deve mai dimenticare che lo Stato è “un’organizzazione politica e giuridica” e come tale si comporta.

Massimiliano Del Duca


Prefazione dell’autore

La recente pandemia ancora in corso, la guerra in Ucraina nei vari livelli economico, informatico e militare, il conflitto politico-economico in atto non dichiarato, ma palese, per ridefinire le sfere di influenza mondiali, tanto economiche che politiche tra U. S. A. e Cina, nel mettere in crisi il vecchio modello di globalizzazione elaborato negli anni ’80 del secolo scorso dal neoliberismo, ha evidenziato e posto nuovamente al centro della scena mondiale il concetto di Stato nelle sue varie declinazioni e nei suoi rapporti con le grandi concentrazioni economiche private.
Gli U. S. A. hanno avuto un predominio assoluto quale unica super-potenza nei due decenni a cavallo del nuovo millennio a seguito della disintegrazione del Patto di Varsavia e dell’U.R.S.S., ma a partire dalla crisi finanziaria del 2009 si è fatta avanti la Cina e vi è stata una ripresa della Russia, con una loro alleanza nel ritagliare e rivendicare nuove aree di influenza globali, di cui è una chiara manifestazione economica la unidirezionalità della nuova via della seta, progetto lanciato e sponsorizzato da Pechino.
La pandemia ha aperto il vaso di Pandora delle tensioni accumulate alla volta del secolo, le difficoltà hanno evidenziato i limiti della globalizzazione e le faglie sismiche al suo interno, nonché le debolezze, le tensioni e le contraddizioni dell’U.E. posta tra i tre Superstati: America, Russia e Cina, priva di una unitarietà politica, fino all’esplosione finale della guerra in Ucraina, in cui sono emerse le difficoltà interne tra i vari Stati, ma anche la richiesta generalizzata di sostegno, ponendoli nuovamente al centro nel momento delle difficoltà.
Gli U.S.A. che nel finire del millennio era rimasta l’unica Superpotenza si trova, a seguito di una serie di valutazioni inesatte e conseguenti comportamenti erratici, ad essere divisa al suo interno, mentre deve affrontare le sfide di Russia e Cina, potenze autocrate, con una U. E. unita a parole ma divisa sia culturalmente che dai vari interessi storici ed economici.
Nel doversi concentrare sul Pacifico, gli U.S.A. non possono abbandonare l’Europa e l’Atlantico, fulcro della loro prevalenza, né però hanno la volontà di impegnare uomini e mezzi su un teatro d’operazione lontano come l’Ucraina, sentito estraneo agli interessi U.S.A. dalla maggioranza della popolazione, viene così a scaricarsi sull’Europa-NATO il peso maggiore della difesa, con molti dubbi e contrasti.
Nella ridefinizione dei rapporti e delle aree di influenza in atto si inseriscono delle Medie potenze, quali la Turchia, che nel recuperare il proprio vissuto storico cercano di ritagliarsi delle proprie aree, riaffermando il proprio ruolo statale quale alternativa ad una liquida ed opaca globalizzazione.
Accanto ai Superstati, nel corso della seconda metà del ’900, vi è stata nella decolonizzazione il proliferare di una serie di Microstati, in particolare nelle isole, o comunque la concessione di statuti speciali, circostanza che rientra perfettamente nella globalizzazione economica dove nel circuito questi assumono la funzione di depositi finanziari contabili privati, sottratti al controllo degli Stati di medie dimensioni.
La stessa immagine della guerra da wargame brillante e lontano, fatto di luci e traiettorie astratte perse nello stupore di una perfetta tecnologia, ritorna ad essere sangue e distruzione, materia viva che crea ansia e dolore, ecco riemergere la necessità di una struttura collettiva quale è lo Stato.
Nello Stato il problema fondamentale è la formazione dell’élite e di una aspirazione idealistica su cui dirigere l’azione di governo, non solo il potere per il potere ma un’analisi delle necessità e dei bisogni propri della comunità, una visione non momentanea e circoscritta al potere immediato, puramente tattica, bensì strategica, tesa a creare una società stabile e adattabile nel tempo, sostenibile nelle future generazioni.
Vi è una memoria storica negli Stati e comunità che si riflette nell’agire quotidiano, la stessa tecnologia è piegata e usata in una sintesi di tradizione e innovazione, i cambiamenti avvengono sempre, per quanto accelerati, su una inconscia struttura culturale e la lotta per il potere, tra Stati e all’interno degli stessi, non può non tenerne conto, il fattore culturale è anche una ricreazione della storia, una sua rilettura che viene adattata al potere e alle sue ideologie del progresso umano e materiale, della conquista, della guerra o della pace1.
In questo mutare e alternarsi di cicli, conflitti e pace, “Un uomo di Stato nel senso più alto è soltanto colui nel quale la consapevolezza della sua indiscutibile responsabilità non può essere turbata dalla volontà di potenza né da un trionfo o da una sconfitta nella lotta per il potere: responsabilità che riguarda la creazione, la conservazione e il consolidamento di un ordine sociale autentico e quindi durevole. […] Uomo di Stato nel senso più alto è soltanto colui che nell’ardore della lotta non dimentica mai di riflettere sulla possibile conclusione della lotta stessa, nell’aspetto che il mondo dovrà assumere dopo2”, una società diventa durevole solo se viene sentita come una “vera società morale”, vi è quindi una ragione morale dietro la ragione di Stato e una precisa consapevolezza della responsabilità morale.
È in questa ragione che Ritter trova il superamento dell’antinomia tra la lotta per il potere e un durevole ordine pacifico, ricevendo qui la sua giustificazione morale in contrapposizione ad un qualsiasi altro “idealismo culturale”, non esistendo nell’alta politica come nell’alta strategia regole definite, ma considerando sempre la difficoltà di individuare quando la forza è al servizio dell’idea o al contrario è l’idea che copre una volontà di potere smisurato e il conseguente uso dissennato della forza.
“Disegnare vuol dire omettere: diceva il grande pittore Max Lieberman. Ciò vale anche per lo storico che non voglia limitarsi a redigere una cronaca, ma tenti invece di costruire una narrazione leggibile e coerente. È vero che la decisione su quanto si deve tralasciare è sempre soggettiva, ma ritengo che un certo ambito di soggettività debba essere concesso all’autore soltanto se i singoli fatti da lui narrati si fondano in una totalita3”.
Una coscienza della storia e della storicizzazione dei fatti che nell’epoca del tutto attuale, di una connessione e di un presente continuo, viene a mancare come le polemiche sulle statue e le figure storiche che vengono a lacerare attualmente gli U.S.A., fino a coinvolgere esploratori e scopritori quali Cristoforo Colombo e i padri fondatori Washington e Jefferson, ma anche la polemica sulla cancellazione dei corsi di letteratura russa, con riferimento in particolare a Dostoevskij, a seguito della guerra in Ucraina4, fino a risalire a figure storiche come il Generale Lee, rispettato perfino dai generali nemici, dimostrano un massimalismo storico e culturale tipico delle età di transizione e dei fervori sperimentali giovanili, in cui necessita il fermo richiamo alla logica storica.
Vi è l’idea di una crescita rettilinea, pianificata, della conoscenza umana e della sua storia, frutto di una concezione positivista ottocentesca, nella realtà vi è un andamento ondulatorio di improvvisi slanci e ripiegamenti.
Programmazioni che nella loro pianificazione portano ad una crescita, che tuttavia nel lungo periodo si sfilaccia conducendo a controindicazioni e a conseguenti reazioni, l’abilità dello statista è quindi sapere contemperare i due aspetti nel lungo periodo, la programmazione con gli inevitabili comportamenti opportunistici, ossia collaborazione e lotta per la supremazia nel gruppo e tra gruppi.


Introduzione

Vi è nei confronti dello Stato un duplice rapporto da una parte una scienza politica americana che nello svalutare il potere politico esalta il potere sociale indistinto dei gruppi di pressione su uno Stato parcellizzato, dove si punta al consenso piuttosto che all’uso della forza nell’ottenere il consenso, dall’altra la tradizione europea che evidenzia l’importanza di un apparato amministrativo e ideologico che ricorre alla violenza e alla manipolazione, in uno stretto nesso tra produzione economica e distribuzione del potere sociale e politico.
La riscoperta dello Stato da parte degli ambienti accademici americani, nel corso degli anni Ottanta del Novecento, si risolve nell’ambito dell’approccio neoistituzionale o della scelta razionale, nella prima ipotesi lo Stato è visto come una delle tante istituzioni politiche formali che definiscono la “cornice” in cui agisce la politica, nella seconda ipotesi lo Stato è il luogo in cui si formalizza l’offerta del settore pubblico in rapporto alla domanda dei cittadini, un apparato simile al mercato, capace di controllare le “esternalità” del mercato privato che lo stesso non riesce a gestire.
Se poi si pone lo Stato come un insieme di individui che perseguono la massimizzazione dei propri benefici, si è osservato che i governanti tendono a conquistare il potere e mantenerlo in stretto rapporto con le richieste dei vari gruppi di elettori, mentre i burocrati puntano ad accrescere le funzioni amministrative con le relative risorse finanziarie disponibili.
Gli studiosi che si sono ricollegati a tale pensiero hanno rifiutato la prospettiva neomarxista di un rapporto con la struttura di classe, ritenendo di fare esclusivo riferimento ai desideri dei governanti e burocrati; questo non mette tuttavia a repentaglio l’importanza dello Stato secondo l’orientamento “neocorporativista”, in quanto attore principale di una concertazione tra le principali organizzazioni che rendono possibile la gestione di una società industriale avanzata, dando pertanto per scontato una sua “relativa” autonomia dalla società e dalle forze economiche che in essa operano.
Nel periodo che intercorre tra la metà del XIX secolo e la fine della II Guerra Mondiale lo Stato è al centro dell’attenzione sia in Germania che negli Stati Uniti, non mancarono voci discordanti quali Gaetano Mosca che separò nettamente la scienza politica dal diritto pubblico, concentrando l’attenzione sui rapporti effettivi di potere contro l’astrazione formale delle istituzioni giuridiche, fino ad arrivare a Bentley che elimina la stessa idea di Stato dalla sua analisi politica, considerandolo una pura astrazione rispetto ai concreti rapporti di forza5.
Si prepara così la sua eclissi nei decenni successivi al secondo dopoguerra, questo sia per reazione all’esaltazione che ne fecero i regimi totalitari che per le nuove aree di ricerca del comportamentismo e del pluralismo, in cui l’attenzione è centrata sullo studio dei comportamenti individuali e sulla dinamica dei rapporti tra gruppi concorrenti, nei quali lo Stato assume la funzione di un puro “registratore di cassa6”.
Il venire meno della centralità dell’Europa nella politica internazionale a favore degli U.S.A. e di una potenza euroasiatica quale l’U.R.S.S., la dissoluzione degli imperi coloniali con la rivendicazione dell’autonomia delle culture del terzo mondo, il tentativo di esportazione del modello americano e della sua ideologia democratico-liberale su cui si fonda, fa sì che Easton affermi l’ingannevole semplicità del concetto di Stato, in cui vi è una confusione concettuale derivante dalla mancanza di precise e concordanti caratteristiche istituzionali, avendo pertanto un valore pratico più che scientifico7.
Solo valutando l’insieme delle relazioni statali ed extra statali e le pratiche politiche utilizzate si può avere una ricostruzione reale del “sistema politico”, lo stesso Dahl riduce l’attenzione sullo Stato preferendo concentrarsi sul governo quale fonte delle decisioni coercitive8, osserva tuttavia Nettl che la tematica dello Stato non può essere rimossa in quanto presente se non altro come fenomeno culturale nella vita quotidiana8.
Con gli anni Ottanta del secolo scorso vi è la riscoperta dello Stato quale condensatore di potere, dotato di una sua unitarietà e coerenza interna, il cui agire del personale politico-amministrativo è spesso improntato non solo a interessi ma anche a motivi ideologici, vi è inoltre la scoperta dell’importanza delle strutture statali nello sviluppo economico dei Paesi in via di sviluppo.
Limitazioni a questa riscoperta si hanno con le tesi neocorporativiste e neoistituzionaliste, dove vengono sottolineati i rapporti con gli interessi economici dominanti e la circostanza della presenza accanto allo Stato di molteplici istituzioni politiche, March ed Olsen sottolineano che, nella dialettica società e Stato, la prima persegue l’ordine attraverso la razionalità e lo scambio, la seconda mediante l’obbligazione e i diritti politici9.
Quando appaiono insufficienti sia l’etica privata che la legislazione come strumenti per promuovere il benessere della società, nasce la necessità del concetto di etica pubblica nell’ambito dell’economia del benessere e dell’utilitarismo al fine di promuovere il bene dei cittadini senza doverli interpellare, ne consegue un accrescimento dell’autonomia del potere pubblico rispetto ai vincoli dei mandati rappresentativi, ma anche una forza vincolante di regole che nessuna vittoria politica può scalzare, resta peraltro la necessità di dare un contenuto a tali regole che non rifacendosi più a principi tecno-economici risultano strettamente morali.
La crisi dell’etica individuale viene fatta risalire dal Viano alla concezione idealistica hegeliana dello Stato, la sua perfezione presuppone una società perfettamente organizzata sui modelli industriali, guidata da tecnici ed esperti che nel superare le opposte fazioni diano la base per il processo produttivo, così da superare il sempre possibile conflitto tra imperativi individuali e compromessi sociali. Un sistema tecnocratico che affonda le sue radici nello Stato nato dalla rivoluzione francese e in cui il diritto diventa un puro sistema meccanico precostituito10, tuttavia l’insufficienza dei soli principi scientifici rilancia l’etica che non può restare comunque individuale proprio per la necessità di una sua oggettività pubblica.
Emerge pertanto un problema evidenziato dall’osservazione dei comportamenti effettivi delle persone, dove vi è una inconsapevole quanto tenace resistenza ad avere e mantenere obbligazioni morali di lunga durata, viene a diffondersi la mutabilità degli impegni che seguono utilità momentanee, secondo una tendenza osservata da Nozick di non sentirsi mai definitivamente vincolati, così che come ci ricorda Bodei “l’etica della coerenza e della responsabilità – per quanto non sempre esplicitamente ripudiata – vengono diluite in favore di un mutamento endogeno11”.
Il problema è ulteriormente aggravato dallo sviluppo tecnologico e della rete a cavallo del millennio, che appare svuotare i poteri dello Stato a favore di un accresciuto potere finanziario, lo Stato sembra essere limitato nelle sue capacità di intervento così come un senso di impotenza investe i cittadini sugli aspetti economici.
Il senso di libertà che la rete crea, di guadagno, è nella realtà controbilanciato dal potere finanziario che sembra essere deterritorializzato, ma in realtà concentrato nelle capacità tecnologiche brevettate dai Superstati, rinasce nello sbandamento la necessità di un territorio: una comunità, una Patria in cui identificarsi e rifugiarsi.
Lo Stato moderno è anche figlio della Rivoluzione francese, di una lotta per la libertà dell’individuo che nella sua assolutizzazione, nella durezza imposta dalla stessa lotta ha creato le premesse dello Stato giacobino, che richiede ai suoi cittadini un sacrificio assoluto, totale in quanto etico, superiore al sacrificio mercantilistico dell’utile proprio dello Stato assolutistico del XVII-XVIII secolo.
Lo Stato diventa ambivalente da una parte liberale in stile anglosassone, dall’altra totalitario, con una tensione romantico-idealistica del mito napoleonico e rivoluzionario che, nel successivo secolo, sfocerà nei drammi delle due guerre mondiali e dei totalitarismi nazionalisti e comunisti.
La potenza di una Francia rivoluzionaria ma persa in un liberalismo anarchico, una volta disciplinata e ricondotta ad una logica politica nazionale di potenza nelle figure di Carnot e Bonaparte, ruppe gli argini e dilagò per il Continente, ma una forza, se non limitata ed inserita in un sistema stabile di alleanze che l’innalzino ad ordine legittimo, sarà sentita come pura violenza e, seppure portatrice di una nuova “idea”, non farà che lievitare forze contrarie portatrici di rielaborazioni dell’idea originale, come avvenne in Germania dopo la disfatta di Jena12.


NOTE

1 AA. VV., a cura di F. Chatelet, Storia delle ideologie, Vol. II, Rizzoli, 1978.

2 Ritter G., I militari e la politica nella Germania moderna. Da Federico il Grande alla prima guerra mondiale, 13, Introduzione, Vol. III, Einaudi, 1967.

3 Eyck E., Storia della Repubblica di Weimer 1918-1933, Prefazione dell’autore alla parte seconda, Einaudi, 1996.

4 Scurati, A., Guerra, Donzelli ed., 2007; Bonanate L., Prima lezione di relazioni internazionale, Laterza ed., 2010; AA. VV., La Russia cambia il mondo, Limes, 2/2022; AA. VV. La fine della pace, Limes, 3/2022.

5 Mosca G., Elementi di scienza politica, Bocca 1923; Bentley A., Il processo di governo, Giuffrè, 1983.

6 Latham E., The Group Basis of Politics, Cornell University Press, Ithaca, 1952.

7 Easton D., Il sistema politico, Comunità, 1963.

8 Dahl R. A., Introduzione alla scienza politica, Il Mulino, 1967;
Nettl J. P., The State as a Conceptual Variable, in “World Politics”, 20, 1968, 559-592;

9 March J.-Olsen J. P., Riscoprire le istituzioni, Il Mulino, 1992;
fn10. Viano C. A., Etica pubblica, Ed. Laterza, 2002;

11 Nozick R., Spiegazioni filosofiche, Il Saggiatore, 1987; Bodei R., La filosofia del Novecento, 187, Ed. Donzelli, 2006;

12 Ritter G., I militari e la politica nella Germania moderna, Vol. I, Einaudi, 1967.


Evoluzione del concetto di Stato dal XIX al XXI secolo


“E testimonia altresì la preoccupazione per il moltiplicarsi delle scuole, delle corporazioni, delle sette accademiche incapaci di dar vita ad una conoscenza unitaria e cumulativa. Scuole, corporazioni e sette non solo orgogliose degli elementi di distinzione e del livello di specializzazione raggiunto, ma portate caparbiamente a sottovalutare o ad ignorare il lavoro di coloro che non utilizzano lo stesso lessico e le stesse prospettive di ricerca.”

(Giorgio Sola, Storia della Scienza Politica. Teorie,
ricerche e paradigmi contemporanei, Introduzione, 14, La nuova Italia Scientifica, 1996).


Dedicato al Serg. Benedetto Sabetta, Divisione di
montagna “Acqui”, disperso in combattimento a Cefalonia e di cui per 25 anni i genitori ne aspettarono il ritorno e a mio padre, Donato, e al fratello gemello, Eugenio, partiti per la Guerra a 19 anni.

Sergio Benedetto Sabetta


1
Dalla concezione organicistica e contrattualistica alla concezione formalistica, dall’idealismo romantico al positivismo.

Il “Dizionario di filosofia” dell’Abbagnano alla voce Stato13 distingue tre concezioni fondamentali, quella organicistica, quella atomistica o contrattualistica e infine la concezione formalistica propria dell’età contemporanea.
Le prime due, solitamente alternatesi nel pensiero occidentale, solo apparentemente appaiono contrastanti venendo ad inserire nel tronco contrattualistico esigenze proprie della concezione organicistica, per cui le parti dello Stato non possono essere divise dalla sua totalità senza perdere la dignità e il proprio carattere, secondo una concezione che risale a Platone e Aristotele (Abbagnano).
Fichte osserva che solo “nell’ambito dello Stato e in virtù dei suoi poteri sono possibili i diritti originari delle persone14”, in quanto l’essere come individuo può agire nel mondo solo se a lui sono garantite la “libertà” da ogni costrizione, la “proprietà” dei beni necessari al suo operare e la “conservazione” della sua esistenza corporea dalle minacce altrui, vi è quindi la necessità di un accordo politico che dia origine ad una volontà generale legislativa, ma questa deve avere la possibilità e capacità di essere mandata ad effetto, diventare reale.
Se Fichte allontanandosi da Rousseau individua solo nello Stato la radice dei diritti originari dell’individuo, vi è tuttavia un limite nei rapporti tra questi, in particolare quale cittadino, e lo Stato, la diminutio della sua sfera di libertà è in rapporto ai servizi che lo Stato quale ente gli rende nella conservazione della proprietà e dell’esistenza corporea dalle minacce esterne, sulla base di tali principi vi è una deduzione dei capisaldi tanto nel diritto pubblico che privato.
Dovendo lo Stato garantire non solo i diritti fondamentali ma anche una dignità di vita a tutti i cittadini, Fichte prospetta la necessità di un sistema chiuso in cui produzione e distribuzione interna siano in parte regolate dallo stesso Stato, un socialismo nel quale il commercio estero venga comunque monopolizzato dallo Stato al fine di mantenere un benessere interno generalizzato secondo giustizia.
Per Hegel l’uomo è un individuo etico, ossia l’incontro tra volontà soggettiva e bene da realizzare, calato nel sistema dei bisogni quale aspetto fondante della società civile ma è solo nello Stato che viene a realizzarsi tale aspetto, viene pertanto rigettata la dottrina del contratto sociale in quanto pone lo Stato all’arbitrio degli individui, esso pertanto assume una dimensione religiosa di manifestazione divina nel mondo, che fa sì che ricavi la propria sovranità non dal popolo, moltitudine disorganizzata, ma da se stesso.
D’altronde l’individuo viene a valere nello Stato non in quanto unità singola ma bensì quale componente di un gruppo attivo nello stesso, non vi sono pertanto diritti individuali di partecipazione agli affari dello Stato, né per Lui valgono le leggi morali dell’individuo essendo superiore per origine a quello morale, solo nella Storia egli troverà il suo giudizio universale.
In opposizione all’idealismo hegeliano, quale massimo sviluppo della sinistra hegeliana, Marx introduce il concetto di materialismo storico per cui “l’unico soggetto della storia è la società nella sua struttura economica15”, mentre il resto è una semplice “soprastruttura” riflesso della struttura sottostante, in essa rientrano tanto le forme di diritto e dello Stato che la religione, la morale, la metafisica e ogni altra forma di coscienza.
Tutto deriva e si adegua al mutare della produttività materiale, di immutabile non resta quindi che l’astrazione del movimento, “mors immortalis16”, lo Stato diverrà tuttavia nella realtà storica del socialismo scientifico del Novecento l’ente supremo in cui riassorbire la forma della produttività materiale, seguendo le necessità nate dal comunismo di guerra, proiezione dell’organizzazione industriale liberale per lo sforzo bellico della Grande Guerra17.
All’idealismo e al concetto di Stato che esso teorizza, quale espressione sulla terra dell’Idea, si oppone da questo punto di vista del tutto esterno il positivismo sociale dell’utilitarismo.
Stuart Mill propone un individualismo radicale tale che un intervento di una qualsiasi autorità sulla condotta dell’individuo può trarre giustificazione solo dalla necessità della difesa degli stessi diritti individuali, vi è in questo l’influenza di Comte nella ricerca della felicità individuale quale elemento del progresso umano18.
Questi superando la concezione strettamente utilitarista assunta da Bentham e dai due Mill e Spencer, secondo una visione positivista evoluzionistica, pone accanto al puro egoismo una necessità etica che favorisca la cooperazione, in modo da superare non solo il regime impositivo militare del potere statale, che impone compiti e funzioni, ma anche l’attuale regime industriale fondato sull’indipendenza individuale19.


NOTE

13 Abbagnano N., Dizionario di filosofia, voce: Stato, UTET, 1971.

14 Abbagnano N., Storia della filosofia, Vol. III, 60, UTET, 1974.

15 Abbagnano N., Storia della filosofia, Vol. III, 206, UTET, 1974.

16 Schlesinger R., Marx, His time and Ours, Londra 1951, trad. it., Milano 1961.

17 Bruce Lincoln W., I bianchi e i rossi. Storia della guerra civile russa, Le Scie, Arnoldo Mondadori ed., 1991.

18 Abbagnano N., Storia della filosofia, Vol. III, Voce: Stuart Mill, UTET, 1974.

19 Abbagnano N., Storia della filosofia, Vol. III, Voce: Spencer, UTET, 1974.


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