Il tocco del rovo

di

Selene Luise


Selene Luise - Il tocco del rovo
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa
14x20,5 - pp. 174 - Euro 13,50
ISBN 978-88-6587-6312

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Il tocco del rovo


La vita dà più schiaffi che baci.
Eppure ogni tanto fa regali inaspettati.


Prologo

Lo guardo da dietro il cavalletto. Chissà cosa prende vita sulla tela.
Provo a sbirciare.
“Non guardare” dice. La sua voce tradisce un tono divertito. Ridacchia.
Invidio la sua capacità di vedere il lato divertente in ogni cosa. Io quest’abilità l’ho persa, anzi forse non l’ho mai avuta.
Sospiro.
“Sta’ ferma, per piacere” dice, senza mostrarsi.
Ma come faccio? L’animo scalpita e la mente è altrove. Penso nauseata al fascicolo che mi attende nello studiolo.
Un caso intricato che nemmeno un esperto di finanza riu­scirebbe a risolvere, figuriamoci io. “È per questo che te l’hanno affidato” dice una voce “per ricordarti che sei uno zero.”
Mi lambicco da giorni in quel mare di società fittizie, alla ricerca di prove tangibili da portare sul banco dell’accusa.
Maledico il capo, che mi affida sempre reati finanziari pur sapendo che mi occupo di crimini violenti.
Penso a quel coglione di Colletti, che non vede l’ora di mettermi in ridicolo davanti a tutta la Procura.
Mi sfugge uno sbuffo. Lui, allora, si alza, mi abbraccia e mi mette la mano sul petto, dove ho la cicatrice.
Mi rivolge uno dei suoi sguardi che valgono più di mille parole, e se ne torna al cavalletto. Sguscio fuori e mi rintano nello studiolo.
La vista delle pareti tappezzate di libri mi rincuora. Ma non appena lo sguardo ricade sulla scrivania, dove il fascicolo attende minaccioso, mi ributto giù.
Scaravento le carte per terra, poi mi siedo. La testa fra le mani. Vicino al leggio c’è una foto di me e lui.
Scattata anni prima. Sorridiamo abbracciati.
Sembriamo felici, ma gli occhi tradiscono le nostre vere emozioni. I suoi sono timidi e spauriti. I miei stanchi e provati.
Così giovani e così vecchi allo stesso tempo. Non avevamo che vent’anni.


Capitolo primo

Vent’anni. Un numero. Un’unità di misura. Due parole.
Il tutto per designare una tappa della vita di un essere umano.
Chi deve arrivarci la ignora, preso dal godersi l’infanzia e l’adolescenza. Chi li ha superati li rimpiange, così come si rimpiange tutto ciò che è passato e mai più tornerà.
Me la ricordo bene, quell’età. È tutt’altro che una passeggiata.
Non si è più ragazzini ma non si è ancora adulti. È l’età delle incertezze, dell’ignoto.
Ci si sente come in bilico su uno strapiombo. Puoi raggiungere l’altra sponda ma anche cadere e sfracellarti. Da brivido! Specialmente se soffri di vertigini.
Ci pensavo spesso durante le mie piccole pause infrastudio. Quando preparavo gli esami, c’erano dei momenti in cui sentivo che la mia testa era in tilt e non capivo più quello che stavo leggendo.
Allora alzavo gli occhi alla finestra di fronte alla scrivania, nella mia camera, e fissavo il paesaggio, attraente quanto può esserlo qualunque veduta cittadina, e lasciavo il cervello libero di andare dove voleva.
Come un cavaliere che allenta le briglie al destriero.
Era un giorno di fine aprile, quello in cui tutto ebbe inizio. Ero alle prese con il secondo libro di diritto commerciale, un esame terribilmente difficile.
Il primo vero scoglio in tre anni di università. Tutti gli altri, erano stati un giochetto al confronto. Ma questo stava diventando una vera tortura.
Fatte sei o sette pagine sentivo la stanchezza che di solito sopraggiungeva dopo le venti. E ogni volta mi chiedevo come mi fosse venuto in mente di iscrivermi a legge.
E ogni volta mi davo la stessa risposta: mia madre.
Era un magistrato. Di quelli tosti, che stanno mesi e mesi dietro ad un criminale e non riposano finché non lo sbattono dentro e, qualche volta, finiscono anche in televisione.
Sin dal secondo anno di liceo, cercava di convincermi a intraprendere gli studi giuridici.
“Capirai le regole del mondo – diceva – ne vedrai il vero volto e nessuno potrà fregarti.”
“Il volto del mondo lo vedrei anche con un’altra facoltà” ribattevo io.
E lei: “Non quanto con giurisprudenza e poi a qualcuno dovrò pur passare il testimone.”
Aveva continuato con questa tiritera fino alla maturità e, alla fine, per farla stare zitta, avevo obbedito.
Poiché a L’Aquila la facoltà di Giurisprudenza non c’era, mi iscrissi a Teramo, a 80 Km di distanza, ma, non essendo obbligatoria la frequenza, potevo tranquillamente andare avanti e indietro.
Mia madre, infatti, non voleva che andassi a vivere da sola.
Col tempo vidi che come facoltà non era male, però, non l’avevo mai sentita mia.
Il mio interesse era tutto per la letteratura. La cosa più bella del mondo. Un grande regalo che l’umanità ha fatto a sé stessa.
Avrei tanto voluto frequentare la facoltà di Lettere, ma ci pensarono i raccapriccianti avvertimenti di mamma a farmi rinunciare.
“Farai la fame. Lettere non offre sbocchi di nessun tipo e tu devi prima di tutto trovare lavoro. Alla letteratura potrai dedicarti nel tempo libero.” E così eccomi qua. A sgobbare su diritto commerciale.
Lo studio, però, non mi impediva di correre dai miei migliori amici: i libri.
È con essi che si trascorrono i momenti migliori. Sempre lì, pazienti, ad aspettarti, a dirti la cosa giusta al momento giusto, a rispondere ad ogni tua domanda.
Voltai la sedia verso la scaffalatura e mi misi a contemplare il mio tesoro di carta e inchiostro. Lo scomparto riservato a Dostoevskij, il mio autore preferito.
Sopra di lui Puskin e Tolstoj. I libri di Piero Angela in alto a destra, poi Dante, Omero, Kafka, la Trilogia Mondo d’Inchiostro e tutti quelli che le dimensioni della mia camera potevano ospitare. Gli altri erano ammassati un po’ dovunque nella casa.
Abbassai lo sguardo sul libro di testo, per affrontare il paragrafo relativo ai criteri internazionali di bilancio nella S.p.a.
Avevo appena letto quattro righe, che il telefono si mise a squillare.
Detestavo quel suono stridulo. “Chi è che rompe?” pensai tra me e me. Fece quattro squilli prima che mia madre si decidesse a rispondere. Io non ci pensai nemmeno ad alzarmi per far star zitto quel dannato aggeggio.
Odio che mi si interrompa quando sono occupata. Il telefono smise finalmente di strillare.
Sentii la mamma dietro la parete della mia camera premere il tasto di risposta e dire «Pronto» con la sua voce ferma e distaccata. Seguirono alcuni minuti di silenzio.
La mamma si fece sfuggire un’esclamazione di indifferenza, di quelle che si dicono per far capire a chi sta dall’altra parte del filo che non sei sparito di colpo.
Poi le frasi di congedo e il tic del tasto di fine chiamata. Non mi importava sapere chi ci avesse chiamato.
Del resto io, non avendo amici, non ricevevo mai chiamate.
Lo stesso mia madre, a parte quelle di lavoro.
Era sicuramente qualcuno del suo staff.
Finii di evidenziare il paragrafo e lo riassunsi sul quaderno.
Sentii bussare alla porta della mia stanza. Mia madre entrò quasi nello stesso istante.
Si diresse verso di me e si chinò per baciarmi. “Come procede?” disse guardando il libro. “Come al solito. Interessante ma pesante.”
“Laura – riprese – è morta tua zia Nerina.”

[continua]


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