Fuori tutto

di

Sarah Zingales


Sarah Zingales - Fuori tutto
Collana "Le Schegge d'Oro" - I libri dei Premi - Narrativa
14x20,5 - pp. 96 - Euro 10,50
ISBN 978-8831336901

eBook: pp. 92 - Euro 5,99 -  ISBN 979-12-5951-003-7

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In copertina: fotografia dell’autrice


Pubblicazione realizzata con il contributo de IL CLUB degli autori in quanto l’opera è segnalata nel concorso letterario Jacques Prévert 2020


Motivazione della segnalazione al concorso letterario “Jacques Prévert” 2020 sezione narrativa

«Sarah Zingales racconta una storia intrigante, che presenta una trama connotata dalla tensione ad un continuo scandaglio interiore dei personaggi, regalando un colpo di scena finale decisamente inaspettato.
Il protagonista del romanzo è un uomo di successo che sopravvive alla propria realtà, quotidianamente costretto ad indossare una maschera, ma davanti alle metamorfosi della vita rimane “immobile nel suo alter ego”.
Il momento della resa dei conti arriva anche per lui, ormai avvolto dalle ombre della sua esistenza, deve “ridefinire la sua coscienza desertificata”: il rapporto matrimoniale con la moglie Greta è un disastro, tra crisi esistenziali e comportamenti ambigui della moglie, che si miscelano con il suo animo sofferente ed il profondo disagio nei confronti di una vita che non riesce più a comprendere.
Fino al colpo di scena finale con la sorprendente rivelazione della moglie Greta che farà da suggello al loro ritrovato amore».

Massimo Barile
presidente della giuria del premio letterario
J. Prévert 2020 sez. narrativa



Liam è un uomo di successo che sopravvive alla propria realtà inseguendo i paradigmi di una società che lo vede costretto ad indossare costosi abiti e cravatte d’Hermés che gli cingono il collo.
Calza la vita con ai piedi lussuose Mcqueen in pelle di vitello, restando, però, immobile nel suo alter ego mentre fuori il mondo cambia, prende forma in sfaccettature, intrecci, frammenti e reminiscenze.
Sino a che, in una lunga notte di tormento, ombre della sua esistenza, discernono in virtù di un nuovo valore muliedrico, che gli volteggia attorno e lo inducono a ridefinire la propria coscienza desertificata.



Fuori tutto


Agli uomini che hanno stretto forte la mia mano

e a
coloro che la trattengono ancora:

Alessandro P., Augusto T., mio fratello Massimiliano,
Danilo.
A Davide.

Un ringraziamento al Dr. Alessandro S.

A te, zio Luigi.


“Non si vede che con il cuore, visto che
l’essenziale è invisibile agli occhi”.

(Antoine de Saint-Exupéry)


Fuori tutto

Nulla al di fuori della finestra che si affacciava ermetica sulle luci della città silente, gli procurava emozione.
Soffiò sull’immensa lastra di vetro e tracciò furtivamente un disegno naif sulla massa impalpabile di vapore che a breve sarebbe svanita. Una forma dai contorni grossolani e indecisi del suo indice affusolato che cancellò con il dorso della mano, lasciando un’ombra sullo scintillante specchio.
Si girò verso il grande letto per essere certo che quel corpo, avvolto dalle lenzuola fosse rimasto immobile, che non fosse testimone di quel gesto puerile.
Si sedette a terra, sul caldo parquet in mogano, le spalle rivolte verso la città addormentata, le gambe raggomitolate, fra le mani il capo chino.
Soffocò le lacrime con un sussulto muto, simile ad un rantolo rauco, come l’avvio di un motore ove la batteria è ormai scarica.
Tutto, anche all’interno di quella finestra pareva confuso, fuori posto, nonostante i fantasmi fossero ben posizionati nel grande armadio stile liberty.
Sollevò lo sguardo nel semibuio e si chiese chi fosse l’ospite nel suo letto, quale fosse il suo nome, il viso, il colore dei capelli e perché si fosse fermata per la notte.
Rammentava solo l’esaltazione di quei pochi istanti condivisi ma svaporati come dopo aver assaporato un drink. Si alzò a fatica, cercando di non fare rumore.
Lentamente, sollevò gli indumenti sparsi, lasciati sul pavimento per riporli nella Samsonite semiaperta sul reggi-valigia della lussuosa camera d’albergo ma, nell’atto di ripiegarli, si ritrovò ad accartocciarli come vecchi fogli di giornale da cestinare.
In quelle forme gessate dell’abito lana Shetland, nelle camicie e cravatte d’Hermès che gli cingevano il collo come un cappio, non si ritrovava più.
Si rivide bambino, in Emilia Romagna, con i piedi nudi graffiati da steli di arbusti sporadici che crescevano nei campi di grano tagliati a zero ad estate inoltrata. I covoni di fieno, pronti per la raccolta, parevano pedine sulla grande scacchiera dell’agro e lui, bambino, vi si arrampicava come a volerli cavalcare, per condurne il gioco e confonderne i limiti.
Dette ascolto, in quell’istante, ai battiti felpati che ridondavano dal suo muscolo a ritmo accelerato.
Qualcosa, da tempo, lo angosciava. Nella sua vita ben disposta, ove tutto era collocato in ordine maniacale, non si ritrovava più.
Pensò a Greta e a quella frase che lo lasciò senza fiato. Quella mattina di pochi giorni prima.

Con la coppa di Martini fra le mani, facendo roteare nervosamente l’oliva trafitta dallo stuzzicadenti, bendata nella sua vestaglia come una dea, la donna tentò di interrompere le abitudini di Liam, sincronizzati a ripetizione quando, la professione, non lo allontanava da casa per intere settimane. Congressi fra Roma, Milano, Bologna e trasferte per interventi di chirurgia estetica che lui stesso, il Professor Liam Lugli, eseguiva sui pazienti, smaniosi di apportare migliorie sul proprio aspetto.
Ritmicamente scendeva la scala in marmo rosa che collegava il piano notte alla zona giorno velocemente, appigliandosi al corrimano in ferro battuto, con brevi colpi del palmo, evitando di sentirsi disorientato fra le pareti che cingevano una realtà domestica alla quale, ogni volta faticava a riadattarsi. Raggiungeva la cucina, dalle scintillanti vetrate affacciate sul grande parco che contornava la villa, drappeggiate da velluti damascati che scendevano, armoniosi, sino al pavimento.
Gessato di tutto punto, avvolto dalla preziosa fragranza esotica, del Clive Cristian, che lo inseguiva a nuvola, Liam raggiungeva la luminosa cucina e prendeva posto sulla penisola apparecchiata per la colazione, salutando, con un grugnito, chiunque fosse nei paraggi, sia che fosse Alma la domestica nell’atto di versargli il forte caffè che beveva amaro, la figlia Carolina o Greta.
Alla bevanda scura, che sorseggiava ad intervalli, rimestava politica, finanza ed i fatti salienti del giorno che faceva scorrere dal suo tablet.
Assente da giorni per il consueto business-travel e rientrato la sera precedente, Greta e Liam fecero all’amore ma l’amplesso si rivelò sterile e senza coinvolgimento affettivo, un atto frettoloso, dettato da un dovere coniugale che alla donna procurò solo dolore fisico.
Quella mattina di primavera inoltrata, con il sole che faceva capolino fra le pieghe delle ampie tende e sporadici nugoli, i due erano soli. E parevano, in quell’immensa villa, adagiata su una collina aperta da un fondovalle, due piccoli mondi misteriosi che sballottavano come due oggetti rari, in una scatola dalle proporzioni esagerate, pronti ad infrangersi.
Greta lo attendeva da qualche minuto. Aspettò che il marito prendesse posto a tavola ed aprisse la copertina dell’iPad.
Fece un passo in avanti, indeciso e brancolante. Non era il Martini a darle quella sorta di instabilità ma il peso della frase che avrebbe pronunciato.
Si schiarì la voce che risuonò rauca e dissonante.
“Liam…”
L’uomo alzò lo sguardo. Obnubilò la fronte in attesa di qualcosa che già sapeva non avere voglia di ascoltare e cominciò ad agitare gli arti inferiori in segno di insofferenza.
“Liam” ripeté la donna: “Se dovessi mancare prima di te, chiedo che le mie ceneri vengano custodite in un’urna, nella speranza che, un domani assai lontano, si mescolino e si uniscano alle tue, cosicché si fondino per l’eternità.”
Lo sguardo dell’uomo scivolò sul viso della donna e sulla coppa che teneva all’altezza dei seni che lui stesso le aveva rimodellato.
“Forse è il caso che tu smetta con il Martini di prima mattina.”
La donna rimase immobile. La mano cominciò a tremare. Si sentì trafitta come l’oliva che dondolava nel liquido e rimase senza parole mentre l’uomo si alzava chiudendo di gran fretta il tablet.
“E poi chi ti dice che non sia io ad andarmene per primo e di certo non ti chiederei una cosa simile.
Pensa al volontariato e alle cose che sai fare.”
Sparì velocemente, dalla cucina, dal caffè che non aveva toccato e da Greta.
In quelle prime ore della notte, Liam si stava chiedendo cosa avesse pensato Greta, dopo la sua uscita di scena e dove si trovasse in quel momento.
Se lo chiedeva sapendo come si sentisse lui. Tormentato.
Uscì di casa quella mattina, senza preoccuparsi se la moglie fosse stata in grado di reggere il peso della sua risposta e si recò presso il suo studio in città.
Al rientro trovò un biglietto.
“Non mi hai lasciato il tempo di dirti che sono in partenza e non rispondi al telefono. Vado a trovare mio padre. Ci vediamo, quando ci vediamo.”
Si guardò intorno assicurandosi che Alma fosse uscita.
Lo sguardo divenne minaccioso.
“Se ne è andata, se ne è andata” ripeté alzando la voce che preannunciava uno scoppio d’ira.
Improvvisamente prese a calci una sedia che poi raddrizzò scaraventandola sul muro, accompagnando il gesto da un urlo liberatorio. Poi si arrestò. In affanno, si slacciò la cravatta, si tolse la giacca che appoggiò sulla poltrona. Dalla tasca dei pantaloni estrasse il telefono. Cinque chiamate e quattro messaggi. Di Greta.
Scarico e privo di energia, tirò un sospiro di sollievo per avere lasciato la modalità silenziosa.

Si conobbero a Roma, durante un Congresso Internazionale di chirurgia ricostruttiva ed estetica più di un ventennio prima.
Il padre di Greta, newyorchese, era, sin dagli anni Sessanta, un noto e apprezzato chirurgico plastico.
Nel 1995 dopo la dichiarazione del chirurgo russo Igor A. Volf rilasciata al New York Time che affermava: ‘I chirurghi lavorano in un ambiente molto rigido perché temono le complicazioni di lasciare ematomi mentre io eseguo i grandi interventi audaci che i medici, in occidente, hanno paura di fare,’ il Professore John Brown decise di partecipare al Congresso nella capitale italiana e comprendere se la dichiarazione del Prof. Volf avesse fondamenta.
Alle spalle del Prof. Brown, oltre centinaia di interventi di chirurgia plastica al Memorial Sloan-Ketterin Cancer Center di New York, decine di missioni in Palestina ed un curriculum che pareva l’estratto di una enciclopedia medica.
Il congresso si svolse nel mese di novembre.
Il professore sedeva sulla poltroncina della sala allestita per l’evento, accompagnato dalla figlia.
Liam, giovane laureato, partecipava allo stesso congresso ed era seduto, fra le prime file, accanto a Greta intenta ad annotare appunti traducendoli dall’italiano all’inglese in simultanea per il padre che seguiva la conferenza dagli auricolari ma che ogni tanto si assopiva per il jet-lag, gli argomenti ed il calore della sala.
Improvvisamente, alla giovane donna, sfuggì la penna dalle mani che cadde sotto ai piedi di Liam.
“Scusi” disse Greta nell’atto di riprendersi la biro.
Liam si scostò, facendo la mossa di raccoglierla ma lei fu più veloce di lui.
Non si guardarono nemmeno in volto. Lei notò solo le scarpe in vitello nero uguali al colore della penna.
Durante la pausa del coffee-break davanti al tavolo del buffet, Greta ordinò un caffè.
Si girò d’improvviso, con lo sguardo assorto nel vortice del cucchiaino nella tazza, incurante delle persone che, in coda, attendevano il proprio turno.
“Oh my God” esclamò la donna quando, liquido e cucchiaino caddero su quelle scarpe che già aveva visto, formando una macchia dai contorni scabri.
Liam fece qualche passo indietro. Scrollò il liquido dal piede e si piegò con il fazzoletto per asciugarsi immediatamente, borbottando qualcosa di incomprensibile.
Greta si arrestò, pietrificata come una statua di sale. Non sapeva come esprimere le proprie scuse.
Si sciolse solo dopo le parole di Liam: “Dont worry Lady. It’s all ok.”
“È italiano?” chiese Greta nel suo accento newyorchese.
“Se ne è accorta, eh?”
I due si misero a ridere quando lui, rialzandosi, per poco non cadde a terra.
Si scostarono dalla folla a mani vuote e si scambiarono informazioni sul perché fossero lì.
Greta spiegò che abitava a New York.
Si era laureata in medicina ma non era interessata alla professione di medico. Piuttosto che rimanere rinchiusa fra pareti sterili e odore di disinfettante, preferiva occuparsi di volontariato.
“Volontariato dove?”
“Ovunque ce ne sia necessità.”
“E allora cosa fa qui a Roma ad un congresso che parrebbe non interessarla?”
“Ho accompagnato mio padre, con la promessa che poi visiteremo l’Italia ed il suo mare.”
“A novembre?”
“Qualunque stagione va bene, purché mio padre si scolli dal suo lavoro.”
Si avvicinò loro un uomo, un poco ricurvo su sé stesso, con la barba canuta ben curata, la fronte alta ed una massa di capelli brizzolati, rasati sui lati e lunghi sulla testa.
Si muoveva velocemente come colui che non si preoccupa di banali convenzioni lasciando volutamente affiorare una sorta di superficialità. Il Prof. Brown non era mai ciò che gli altri si aspettavano da lui.
Aveva occhi piccoli. Indaco il colore, rapido lo sguardo.
Teneva in mano, in un unico piatto, piccole delizie di pasticceria assortita e vol-au vent caldi e fumanti che infilava in bocca masticandoli celermente.
Pareva non mostrare alcun interesse al giovane che stava colloquiando con la figlia.
Greta si rivolse al padre, avvicinandolo con il braccio.
“Dad. I want to introduce Mr… Mr… Qual è il suo nome Mister?”
“Liam” rispose l’uomo porgendo al professore una stretta decisa.
“Liam” ripeté il professore che lo squadrò di sbieco per esaminare chi avesse di fronte.
“Non è un nome italiano.”
“È irlandese.”
“Non ha l’aspetto di un irlandese” rimarcò il Prof. Brown con pronunciata cadenza americana.
“Sono italiano.”
Si interruppe un attimo.
“Liam Neeson è irlandese.”
Abbassò lo sguardo e con un filo di voce continuò:
“L’attore piaceva a mia madre.”
Il Prof. Brown fece un cenno con la testa e dopo aver ritirato la mano appiccicosa, si allontanò in cerca di beveraggio.
Greta lo seguì con una espressione affettuosa, assicurandosi che il barman servisse al padre il the che, sapeva, avere chiesto.

John junior Brown nacque ad Harrisburg, in Pennsylvania, a nord-est degli Stati Uniti, nel 1935.
Il padre, John Senior Brown era proprietario di un’ampia merceria, dalle vetrine in legno massello e l’insegna in gesso amaranto, fra la Broadway e la 7a Avenue a New York.
Allestiva accuratamente gli alti scaffali ed il massiccio bancone in larice rosso disponendo per colore i nastri Charleston in piume e lustrini che le donne usavano come copricapo. Avvolgeva i rocchetti multicolore come fossero zucchero filato, adagiava le trine sui fusi del tombolo e lasciava volutamente che la passamaneria fuoriuscisse a cascata dai cassetti. Selezionava i bottoni per forma e misura in scatole di latta e le stoffe, dalle tinte gaie, erano meticolosamente ben riposte con vero senso artistico.
La fama dell’emporio si consolidò negli anni in merito al laboratorio annesso ove la moglie si dilettava a creare abiti per il ceto borghese che cercava nei modelli studiati a misura, di poterli indossare in più occasioni.
La sartoria raggiunse l’apice quando, nel 1926, Gabrielle Chanel, detta Cocò, aprì il primo negozio di abbigliamento a Parigi, al 21 di Rue Cambon e la rivista americana Vogue, pubblicò quella che verrà definita, la divisa da sera per la donna moderna, un sobrio tubino nero, dalle linee semplici che indossato da Audrey Hepburn nel film «Colazione da Tiffany», sarà consegnato alla storia.
Ma alla fine degli anni Venti, la grande depressione americana, il crack finanziario con il crollo di Wall Street e lo scoppio della prima guerra mondiale, gettò nella disperazione piccoli e grandi imprenditori, inghiottendo gli investimenti dei Brown.
L’improvvisa situazione generale e la disoccupazione, diedero via ad una spaventosa migrazione, un formicaio impazzito che, senza direttive, vide milioni di persone ricercare alloggi in accampamenti provvisori sulle strade, dove prostituzione e banditismo rasentavano l’insofferenza e l’instabilità del momento.
Per sfuggire all’inopia Mr. John Senior non si perse d’animo. Pensò di salvaguardare moglie e figlie accatastando le poche masserizie, qualche scampolo e un groviglio di filati sulla Chevrolet e con una manciata di dollari in tasca, raggiunse la Pennsylvania.
L’illusione era di ricominciare da dove era partito, che qualche parente si ricordasse di lui e che la Grande Depressione avesse lasciato incolume qualche angolo della terra.
Ma si stava preparando un periodo buio nella storia dei Brown.
I drappi delle stoffe multicolori si sostituirono al sipario grigio che si innalzava su un vecchio palcoscenico, interrotto da botole che avrebbero celato insidie.
Mentre la città si stava allontanando alle loro spalle, gli enormi edifici parevano minuscoli mattoncini di un Lego che pareva disgregarsi come il crollo del Dow Jones ed il panico permeava sui volti increduli di coloro che ancora attendevano sui marciapiedi di Wall Street.
“Non abbiate timore, miei cari” pronunciò dolcemente John Senior rivolto alla famiglia. “Ce la faremo.”

Ma raggiunta la Pennsylvania basata sull’industria pesante, la zona fu definita rust belt, cintura della ruggine, i parenti finsero di non ricordarsi di lui e la profonda America, anche quella dei piccoli paesi agricoli, era stata cancellata.
Per sostenere la famiglia l’uomo si ritrovò a lavorare a giornata, come bracciante, facchino, manovale. Con i pochi risparmi rimasti, acquistò stivali e piccone per estrarre, fra cunicoli bui e stretti e nel costante pericolo di crolli nelle gallerie, il duro e lucido carbone.
Rientrava, a tarda sera, nell’angusta baracca adiacente ad altre che ospitavano le famiglie dei minatori.
Non esisteva privacy.
Le porte in legno rimanevano semi-aperte ed ognuno sapeva e sentiva tutto dell’altro come se fossero in una grande famiglia con parenti acquisiti e sconosciuti.
“Abbiate pazienza” ripeteva l’uomo, passando la mano stanca e ruvida sui volti traumatizzati dei suoi cari, frastornati da tutto quel baccano, in quella zona impervia. “Non sarà così per sempre.”
Ma la voce era sempre più flebile e la situazione, negli anni, non migliorò, sia per la salute precaria dell’uomo che per il suo esaurimento di energie disperse al di sotto della superficie.
John Junior Brown nacque un freddo mattino di dicembre, qualche giorno prima della morte del padre.
Dopo le esequie, la moglie alzò una trave dal pavimento.
Estrasse una scatola in latta. La aprì.
Contò i denari guadagnati da rammendi, imbastiture, cuciture e scuciture effettuate in quegli anni.
Fasciò bene il neonato. Radunò le figlie e poche cose necessarie ripetendosi, quasi fosse un mantra, le parole del marito: “Non sarà così per sempre.”
Rispolverò la vecchia Chevrolet tenuta sotto ad un telo come un cimelio e la barattò con un viaggio di sola andata per New York.
L’autista che accompagnò la donna ed i suoi figli nella grande metropoli, si fece carico di ospitarli nella sua grande casa e poco dopo la sposò.
Era un medico in pensione, vedovo e benestante che si trovava per caso, in Pennsylvania a riscuotere una piccola eredità lasciata dalla moglie.
Si unirono in matrimonio per necessità. La donna per dare un futuro ai propri figli, l’uomo per solitudine. Per un senso di riconoscenza reciproca, il matrimonio funzionò.
Lui fece studiare i figli acquisiti, riacquistò la vecchia merceria all’angolo della Broadway e la 7a Avenue. Lei lo accudì sino a che morte non li separò.

John Junior, che non conobbe il padre, assimilò dai racconti della madre, l’audacia di fronteggiare con coraggio ogni situazione, con la convinzione che l’unica costante nella vita è il movimento, il cambiamento e la bontà d’animo.
“Vedi?” gli disse un giorno la madre indicando il complesso delle fibre disposte accuratamente sul telaio attraversato dai fili che avrebbero composto la trama di un tessuto.
“Questo telaio rappresenta il nostro mondo circostante ed i fili le azioni che legano gli uni agli altri.”
“In che senso?” chiese il figlio.
La donna lasciò il telaio.
Prese per mano il figlio. Avvicinò due sedie, le mise una di fronte all’altra.
Fece sedere il ragazzino. Gli passò una carezza sul viso.
“Rispetta chiunque intreccerà il tuo cammino” gli dette due colpetti sulla parte sinistra del torace.
“Agisci sempre con il cuore.”
Gli accarezzò la fronte. “Pensa solo con la tua testa e compirai le tele più meravigliose e uniche della tua vita. Nessuno e dico nessuno dovrà dirti ciò che devi fare.”
Si mise ritta sulla sedia e puntò l’indice per rimarcare ciò che avrebbe continuato ad elargire.
“Coloro che intralciano i tuoi sogni, creano nodi sul tuo percorso che alla fine, dovrai sbrogliare tu.
Ascolta la paura. Fattela amica. Ascolta il tuo cuore. Traducine i battiti cosicché la trama della tua vita risulterà unica. Come ha fatto tuo padre.”
Si alzò dalla sedia per rimettersi al telaio.
Il bambino perplesso esclamò:
“Ma papà è morto in povertà.”
La donna si girò verso il figlio con un garbuglio di fili fra le mani.
Trovò il capo della matassa e cominciò a sbrogliarlo velocemente riavvolgendolo nel palmo di una mano. “Non tutto è come sembra, John.”
John, dalla sedia, scese a terra.
A gambe incrociate prese a giocare con una palla di lana trovata sul pavimento.
“Tuo padre ha aiutato decine di persone nel nostro ghetto in Pennsylvania.”
Si schiarì la voce perché il ricordo ne aveva rotto il tono.
“Condivideva il suo misero salario con le donne che avevano perso il marito, per sfamare i bambini ridotti agli stenti. Sai? Nonostante le mie paure, lui era sempre pronto a rassicurarmi: dove mangiamo noi possono mangiare anche gli altri. Io sto bene quando faccio del bene, diceva.
Tuo padre stava bene quando porgeva il suo aiuto. Dopo la sua morte, tutto pareva confuso e perduto come questa matassa, vedi?”
Porse le mani avvolte dal filo verso il figlioletto che da terra, si era alzato e stava tirando calci verso il muro con il gomitolo.
“Ma la mattina in cui decisi di partire e la Chevrolet non riusciva a mettersi in moto, tutta la comunità si adoperò affinché la vettura andasse in moto, le donne ci porsero doni fatti con le loro mani e del cibo che avrebbero sottratto dalle loro bocche. Tuo padre aveva seminato amore e noi ne abbiamo raccolto i frutti. Ora dimmi. Che tela ha creato tuo padre?”
John Junior non rispose, continuando a tirare calci al gomitolo.
Ma poco più che ventenne istintivamente, interruppe gli studi per arruolarsi volontario nel corpo dei Marines per l’addestramento a combattere la guerra più sanguinosa avvenuta dopo la seconda guerra mondiale, quella in Vietnam.
Sentiva di dover fare qualcosa per il suo Paese, qualcosa per cui andare fiero.
La causa del conflitto fu la decisione della conferenza di Ginevra che nel 1954 ripartì la regione in due Stati vietnamiti del Nord e del Sud.
Le ostilità furono aperte dai guerriglieri Viet Cong e dalle forze del Nord che con l’appoggio di Unione Sovietica e Cina intendevano sottomettere il Sud all’ideologia comunista.
Gli Stati Uniti avversi all’espansione del comunismo nell’Asia meridionale appoggiarono il Sud.

Sulle colline rosse e nella giungla, nelle risaie, fra le piante di banane il nemico era un’ombra invisibile e l’odore di carne umana martoriata sotto i colpi dei mortai, copriva qualsiasi altro profumo naturale. I compagni esplodevano in aria tranciati come ananas, le loro teste rotolavano come noci di cocco e gli arti si staccavano dal corpo cadendo a terra come rami secchi.
In quel massacro apocalittico, fra le urla impazzite e le orecchie tappate dai colpi di mortai, una granata esplose vicino a John le cui schegge si conficcarono nella sua gamba destra.
John beccò il cecchino.
Inforcò il suo M16 e sparò, colpendolo.
Se non lo avesse ucciso, sarebbe morto.
Fu rimandato a casa perché le ferite non gli consentivano di stare al fronte.
Il ritorno fu drammatico.
Si ritrovò svuotato e perseguitato dalla visione dei corpi martoriati, impacchettati, mutilati e con il peso della colpa per i commilitoni che ancora stavano combattendo una guerra che lui aveva lasciato.
Si chiese quale trama avesse costruito.
Si rispose.
Dirottò le angosce.

Decise di continuare gli studi.
Si laureò in chirurgia plastica ricostruttiva per intervenire, specificatamente, sui postumi traumatici di quella guerra, dirottando, la propria vita, verso una tela che lui stesso avrebbe ordito.

[continua]


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