Voci: opera premiata di Sara Bellingeri

Sara Bellingeri

Con questo racconto ha vinto il primo premio all’edizione 2005 del Premio “Marguerite Yourcenar”.


“Voci”

Mentre accarezzava i petali carnosi di fiori a lei sconosciuti, sola sul balcone, lo pensava veramente: quella sera era uno stralcio di sogno. Corolle di nuvole aprivano il loro cuore d’indaco tra la distesa cobalto e gocce ricamate d’argento e oro crepitavano incastonate nel blu, frammenti d’elettro chiamati stelle.
Forse era la sua malinconia che spargeva nell’aria quella particolare fragranza onirica, o forse era il silenzio, evocativo e struggente, a profumare di vaghezza. Carpiva questo silenzio come una voce abissale, quasi tangibile nella sua trama oceanica. Se avesse dovuto vestirlo con un colore, avrebbe sicuramente scelto il blu: sì, perché i suoni hanno un colore, come i colori una musica.
Da tempo, appoggiata come ora alla ringhiera, faceva il medesimo pensiero nell’udire un miscuglio indefinito di voci, proveniente dal balcone accanto al suo. Le persiane, abbassate, celavano i volti dei vari interlocutori e questo le aveva reso il gioco di fantasia più spontaneo: alcune voci erano rosa e soffici, altre più squillanti suonavano gialle, interrotte dall’irruenza di numerosi schiamazzi scarlatti.
Tutto quel fragore arabescato, però, la turbava profondamente, esasperando il suo intrinseco senso di smarrimento, più forte che mai da quando si era trasferita. L’infuso di voci si ripeteva ogni sera, alla medesima ora, interrompendosi poi, all’improvviso, tutte quante insieme come candele spente con un soffio solo, tornando, irrimediabilmente, il giorno dopo.
Si chiedeva chi potesse essere il padrone di casa, l’unico che ancora non era riuscita a conoscere nel piccolo palazzo in cui era venuta ad abitare. Si diceva che fosse un uomo strano e ombroso, molto malato, estremamente gentile. L’aveva cercato più volte durante il giorno, bussando alla porta del suo appartamento.
Non rispondeva mai nessuno: la casa era una voce muta.
Solo la notte, quella Notte, permise il loro incontro, facendoli incrociare nell’oscurità, ognuno sul proprio balcone.
Fu Lei a chiamarlo senza usare la voce. Lui sentì il suo sguardo su di sé mentre scrutava assorto la strada.
«Le do fastidio?» la voce era profonda e dolce, intrisa di malinconia.
Lei sgranò gli occhi: «Oh no, anzi, spero di non essere io a disturbarla!»
«Perché? Sentire la voce di qualcuno tra i fondali della notte è un balsamo per l’anima, la risposta a una richiesta. E cosa più importante, fa passare…» mosse la mano per esplicare quella reticenza. Lei rise: « Ma non è stanco di voci, le servono anche di notte?»
Lui fece qualche passo verso la sua direzione, bloccandosi alla ringhiera con movimento di sorpresa, come se non fosse cosciente di trovarsi su un balcone, dimenticando il vuoto che li separava. «A quali voci si riferisce?» gli occhi erano severi e fissi su di Lei.
«Alle voci che sento ogni sera dietro le sue persiane.»
«Ah, i miei ospiti!» l’esclamazione vibrava di un riso sarcastico «Non so se sono peggio loro o il rantolo della notte che si esala, solitamente, a quest’ora.»
Lei ascoltava in silenzio.
«Le sembra che parli in modo assurdo, vero? Che strane queste parole, questi suoni che svelano un pezzo d’anima! Forse mi definirà un Poeta, se è gentile, un Pazzo se diffidente. Ma non m’importa: io le cose le spiego a modo mio! Sono talmente abituato a scrivere che quasi non mi ricordo più come si fa a parlare.»
«Allora la definirò uno Scrittore!» pronunciò la frase con trillante dolcezza infantile.
«Sa, questa è la definizione più giusta che abbia mai sentito su di me. Ha quasi una nota ancestrale, come se riuscisse a narrare le prime oscillazioni della mia piccola mano di bimbo, nel tentativo di disegnare i sogni: volevo raccontarli quando, ancora, non conoscevo le lettere.
È strano, tutto questo, detto da me che non ho mai amato le definizioni: sono solo gabbie che ti impediscono di provare, scorrere, divenire. E poi sono illusorie. Credo sia impossibile, ma soprattutto deleterio, imbrigliare con una definizione sia i lineamenti del viso, sia quelli dell’animo. È come dire: voi siete quello e basta! Si può solo raccontarli. Come quando vedi i raggi del sole filtrare tra le foglie di un albero, sembra una cascata di pietre preziose, cangianti e fluenti: un’ombra che prende il posto di un frammento di luce, un cuore di luce che intenerisce l’ombra in penombra. E tutto in modo così veloce che solo l’anima, le parole, la penna riescono a raccontarlo, senza tralasciare le oscillazioni silenti.»
«Forse non si dovrebbe definire nemmeno la vita…» ora la voce di Lei profumava di lilla, di tenera nostalgia.
«È anche un modo per salvarsi» il sussurro di Lui era una carezza. «Bisognerebbe accogliere le sfumature che la gremiscono, lasciarsi permeare e irrigare da esse, come quando ci si nutre delle parole di un libro, leggendolo. E, invece, no! Si pretende sempre di darle un titolo e ci si spacca in due, tentando di capire cosa prevalga, se la luce o l’ombra.»
In quel momento Lei stessa cercava di decifrare il suo stato d’animo e quel calore che le infuocava la gola, come se le corde vocali bruciassero di tensione.
Parlò d’impeto: «La sua voce ha un colore bellissimo! Non riesco a scorgere l’espressione del suo viso… c‘è troppa oscurità. Forse è perplessa, magari sbigottita. Oppure capisce senza che mi debba spiegare. Non potevo trattenermi dal dirglielo, perché da un po’ di tempo mi capita una cosa strana: ogni sera, ad ora di cena, vengo qui ad ascoltare le voci provenienti dal suo balcone e tra quelle voci mi sono sempre chiesta quale fosse la sua. Non l’ho mai udita, eppure, ancora prima di conoscerla stanotte, ero già certa della sua assenza. Ma ora so chi, in silenzio, era attorniato da così tanta gente, al contrario…». S’interruppe.
«Al contrario di lei?»
Il silenzio rispose.
Lui si appoggiò con le mani alla ringhiera, gettando lo sguardo tra le braccia del buio. Ora Lei poteva scorgere il suo profilo.
«Io non parlo mai con gli altri, con loro, perché se lo facessi, diventerei solo: le parole risulterebbero mutilate, insignificanti anziché essere dei corridoi preziosi per esprimere quello che batte dentro, ciò che è più tangibile di qualsiasi oggetto o presenza, che ti scuote senza che nessuno se ne accorga. La vera solitudine è dimenticarsi di questo, è la sordità dell’anima.»
«Allora perché li invita, invece di godere del suo silenzio e della sua indipendenza?»
«C‘è qualcosa che cerco tra le voci di quelle persone, qualcosa di cui ho bisogno e che scardina la mia libertà, anche se è insopportabile. Tutti loro si siedono qui, su questo balcone, bevendo e gesticolando. Non so nemmeno io quanti sono, percepisco solamente il magma di voci che si intersecano e sovrappongono. Mai una pausa. Mai nessuno che chieda di alzare queste maledette persiane per guardare l’aurora notturna. Fumano e mangiano verbi, aggettivi, esclamazioni, ingurgitando le elucubrazioni altrui senza sentirne il sapore, l’aroma. L’importante è guarnire i vocaboli di sicurezza e solarità, sfornare monologhi ben farciti di sé, della propria definizione del tipo:
“Quanto sono impegnato, quanto la vita è tra le mie mani!”. E plasmano la voce sul personaggio che vogliono essere. Allora mi viene la nausea, mi allontano e ascolto… Ascolto la mia diversità.»
Fece un passo indietro, lento e insicuro, come colto da una vertigine e si mise le mani in tasca. Ora gli occhi erano puntati a terra.
Dopo una breve pausa, sorse la voce di Lei:
«Quando io sono in treno…»
Silenzio.
Respiro.
«Mi sento una pazza. Appena salgo, cerco con urgenza un vagone in cui ci sia tanta gente per sentire delle voci attorno a me. Ma nel momento in cui mi concentro sulle parole altrui, c‘è qualcosa che mi fa balzare dal mio sedile e fuggire via impaurita, come se, all’improvviso, scorgessi lo iato, la frattura tra me e quel recinto di suoni che avevo desiderato come protezione. Mi rannicchio in un angolo isolato e con la testa appoggiata al finestrino scorgo, oltre il vetro, la luce del sole, brillante e nello stesso tempo pacata, tra le increspature dell’acqua, sulle zolle di terra nei campi, sotto le gallerie di alberi fitti. Quella luce non solo la vedo, ma la sento, diventa una voce familiare, pur così distante là fuori. Riesco ad ascoltarla e sto meglio, fino a che non mi chiedo: perché questa dicotomia attanagliante? La domanda fa troppa paura e scappo ancora, questa volta in angoli estranei, anche se presenti qui, nella mia testa: faccende da sbrigare, scadenze, impegni… E mi perdo.»
«Perde la sua voce?»
Rispose Silenzio.
Volse lo sguardo verso di Lui e osservò il suo viso, ora lievemente illuminato dalla fioca luce della piccola lanterna sotto cui si era spostato: era sottile, leggermente scavato, accarezzato da un’ombra di barba scura. Gli occhi sembravano due stelle d’ebano che palpitavano d’oscurità. Era enigmatico quel volto, senza età e senza risposte.
Proseguì Lui:
«Alcune voci sono distruttive, imbrattano il silenzio,questo ponte arcano, questa pausa fatata che mormora: “Sono qui, ti ascolto!” e senza il quale ogni parola si accartoccia su sé stessa, come una foglia autunnale. Ma esistono voci, quelle sì magiche, che fungono da scrigno e contenitore, da braccia accoglienti, che profumano di ascolto e silenzio, di rispetto, facendo vibrare l’essenza altrui per quello che è. Si cerca questo tipo di voce come se fosse l’eco della nostra anima, l’unico modo per ascoltare quello che si ha dentro e quando la si trova, finalmente si riesce a respirare. Questa notte, lo sento, è carica di respiro.»
Stettero immobili per un po’, senza parole, senza sguardi. Poi ognuno penetrò nel buio della propria casa, ora fresca di brezza notturna. Non si erano salutati perché sapevano che sarebbe stato inutile: il silenzio aveva già sancito il connubio tra le loro anime.
Quella notte il sonno non fu altro che il prolungamento di un sogno.
Iniziarono ad incontrarsi tutte le notti, rimanendo ognuno sul proprio balcone, divenuto ormai il teatro delle loro voci. Così parlavano per un tempo indefinito, come sospeso, sussurrando pensieri e leggende segrete in quella nicchia notturna che aveva il sapore di un sogno, con i volti sfumati dalla penombra, quasi fantasmagorici e surreali nel pallore di Lei, nel mistero di Lui. Più erano frequenti le loro voci, più si diradavano quelle degli ospiti serali e con questa consapevolezza Lei sentiva di aver ricevuto un dono importante: l’esclusività.
Ma una sera accadde qualcosa di strano; mentre sistemava un vaso di fiori, ricevendo distratta, brandelli di conversazione dei soliti invitati, sentì all’improvviso irrompere la voce di Lui, straziata e tremante:
«Basta, basta…! Esistono dei cuori che necessitano di più amore, di sguardi profondi, di ascolto totale. Io non riesco a comunicare, questa mia chiusura è una frattura dell’anima, perché dovete considerarla una malattia? Dentro di me ho tanto, un regno vasto e ricco, ma sfuocato nella fotografia del dialogo. Voglio solo pensare, senza parlare: è una colpa? Non chiamatemi malato, sono una creatura, un esistente, solo con un linguaggio alieno…».
Proprio quella notte gli dovette annunciare la sua partenza e mentre stava per spiegargli i motivi di quel viaggio improvviso, Lui la bloccò:
«Non voglio spiegazioni. Nessuna precisazione. So che tornerai e ancora ci incontreremo qui, di notte.»
Pronunciò la frase con voce calda e bassa, in cui albergava un infuso di dolcezza e malinconia.
Trascorse del tempo e Lei tornò. Appena giunse di fronte al palazzo vide qualcosa che le morse il cuore: sul balcone di Lui c’era una donna esile e bionda, dal viso di porcellana. Quando la guardò le venne in mente il miele, il colore del miele, morbido e dolce. Fu sorpresa nel sentirsi chiamare proprio da lei mentre apriva la porta di casa sua; faticava a respirare, le valige erano pesanti, il cuore un macigno.
«Stella, vero?» Annuì.
«Io sono la sorella di…» un singhiozzo le soffocò la voce.
Poi fu tutto incalzante, una corrente di fiume insensata e inafferrabile. Si ritrovarono sul divano della casa di Lui, l’assente, che non c’era più, a parlare della sua malattia, del coma, dell’insulina che aveva dimenticato di prendere, sì perché non poteva averlo fatto volontariamente, di sicuro la morfina e quel male interiore che serpeggiava da tempo in Lui, gli avevano eclissato la mente. Così spiegava, con sguardo sperduto, la donna di miele.
Lei ascoltava, frantumata tra i cocci di quelle parole.
Si sentì posare qualcosa fra le mani e in quel momento squillò il telefono; guardò gli oggetti che stringeva con le dita, pur senza conoscerli: una cassetta da ascoltare e un foglio celeste. Poco dopo aver risposto, la donna tornò, chiedendole con un flebile sussurro di aspettarla lì in casa, nella casa ora vuota di Lui. Uscì e Lei rimase sola. Silenzio.
Si prese la testa tra le mani e le lacrime fluirono inarrestabili, ma non la bloccarono. Afferrò subito la cassetta avuta in dono e dopo averla inserita nel mangianastri attese, impaziente, con il cuore imbizzarrito nel petto. Fu come immergersi in un oscuro sogno. Si alzò di scatto, abbassò le persiane e corse senza fiato nel suo appartamento, fino a quel balcone da cui tante volte aveva liberato l’anima e socchiuse gli occhi. Era immersa in uno smagliante pomeriggio di pieno autunno, decorato da un nitido cielo turchese vibrante di luce ma davanti a sé si stagliava un fantasma notturno: c’era il balcone di Lui, celato dalle persiane e c’erano le voci, le solite voci di ogni sera, voci di assenti, voci registrate su un nastro, replicate nei giorni in cui voce non c’era. Spettri. Quella scena era un frammento di notte inghiottito dal giorno. Come un automa ritornò nella casa di Lui e una volta aperto il foglio, la lettera, iniziò a leggere:
«Stella, non ho mantenuto la promessa. Il nostro appuntamento era qui, dietro il sipario della notte, nella sua quiete così preziosa proprio perché diversa dal giorno sgargiante in cui tutto appare nitido e viene definito,bloccato, perduto. Ma non durante i nostri incontri: noi abbiamo sfumato viso e cuore per parlare, per sentire quella voce resa muta durante tutte le ore precedenti e risvegliata, finalmente, nell’oscurità da cui attingere la nostra luce. In fondo serve il buio per vedere le stelle e noi brillavamo. Non eravamo solo un uomo e una ragazza, due dirimpettai, due amici ma due anime fuse in una voce. In questa mia voce, nella tua, in quella della notte, dove il mio cuore non era più un muscolo di carne ma una conchiglia da cui udire il proprio mare interiore… Forse ti ho deluso e probabilmente mi riterrai un folle che fingeva di avere ospiti ogni sera mentre l’unico compagno era un elettrodomestico che sprigionava voci registrate anni prima. Ma in questa bugia ti ho narrato la mia verità. Quelle voci risalgono a un tempo passato, alle feste che mia moglie organizzava in casa nostra. Soffrivo di depressione o più precisamente di sindrome maniaco depressiva: questa era la definizione precisa e secca di tutti, dell’occhio clinico che ama la nettezza, l’acribia.
In realtà la malinconia era ed è tuttora il colore della mia anima, il sentimento dolce e straziante con cui respiro, piango, scrivo ed amo, perché anche lo struggimento è calore. Ma lei voleva il sole, l’allegria costante. Non sopportava la mia fragilità, sia fisica che mentale e per dimenticare il mio silenzio – la mia voce – si procurava accozzaglia di nuove voci – rumori – per non pensare, per soffocare l’oscurità. Una sera a sua insaputa le registrai più e più volte, poi la chiamai per farle ascoltare il fragore della sua, della nostra solitudine. Mi diede uno schiaffo, urlandomi in faccia che ero un pazzo, un inetto, un incapace. Fu l’ultima volta che la vidi. Portò via tutto con sé: i suoi regali, le foto, i quadri dipinti da lei. Mi è rimasta solo questa cassetta e ogni sera è folle, lo so, grottesco forse, ma è forte, io cerco tra quei suoni la sua voce e l’unica cosa che emerge è l’assenza. Nessuno mi ha più cercato e le mie giornate si scioglievano quotidianamente nella più viscerale nostalgia, non di ciò che era stato ma bensì di ciò che non avrebbe mai potuto essere.
L’ineluttabilità mi stava uccidendo. Ma una notte questa sensazione si è placata quando ho incontrato una voce che mi parlava e ascoltava. La voce può ascoltare? Sì, perché è l’anima.
Dolce custode della mia anima, grazie per aver accolto la mia malinconia, la mia vita.
Ora sono stanco, il corpo si sta frantumando. Tu perdonami.
Che belle stanotte le stelle, baluginano tanto, forse si stanno narrando fiabe segrete. È l’ultima cosa che ascolto.»
Fissò il punto della frase e accarezzò il foglio come si accarezza la guancia di un bimbo. Poi lo richiuse. Spense le voci e lentamente alzò le persiane: il balcone fu inondato di luce brillante. Odiò quel chiarore. Le sembrava impossibile che in un momento come quello il cielo potesse essere così chiaro e terso: il sole, i colori non centravano nulla, ora. Si sedette piano e chiuse gli occhi.
L’aria era fredda e calda, pungente e morbida, ambigua e indescrivibile. Pensò alla notte, alle voci, a Lui, alla sua assenza.
E in quel pomeriggio vibrante d’azzurro respirò il blu.


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