Il vento: opera premiata di Sara Bellingeri

Sara Bellingeri

Con questo racconto ha vinto il primo premio all’edizione 2007 del Premio “Marguerite Yourcenar”.


“Il vento”

In alto, sempre più lontano, dove lo sguardo si ricorda di avere le ali, stormi di nuvole dorate scivolavano lentamente sulla distesa acquamarina del cielo, accarezzando i tenui nastri di luce che il sole donava all’orizzonte. Il tramonto stava arrivando e con mano leggera apriva il suo ventaglio colorato, sprigionando il fresco profumo della sera. Tutto era rimasto immobile, placidamente adagiato, come se si trovasse su un’amaca invisibile, tra le mani di quel lungo pomeriggio estivo fino a che, all’improvviso, la superficie del lago non iniziò ad incresparsi e a sgattaiolare dal suo profondo sonno, trasformandosi in una grande lacrima di cristallo ondulato. E così partì la danza sinuosa di piccole dune turchesi di cui nessuno avrebbe scommesso l’esistenza, dimenticando che anche il lago aveva un cuore nascosto, che batteva nel segreto del suo petto e che svelava in alcuni scorci del giorno.
Il giovane uomo pensava a questo mentre e sottili foglie del salice sotto cui era disteso cominciavano ad oscillare, prima dolcemente, poi sempre più forte sino a che non si udì il respiro intenso di quella vaporosa chioma di lacrime che lo proteggeva dal mondo.
Si sollevò sui gomiti rimanendo con le gambe distese e alzò lo sguardo rapito da un fulgido laccio di sole che era filtrato tra i rami inondandolo con gocce di luce chiara. Un profumo intenso di muschio lo raggiunse nutrendogli il respiro.
Si scostò i capelli ribelli che gli avevano coperto la fronte e ridendo disse:
«Finalmente sei arrivato!».
Perché, mi attendevi?
«Sì, anzi ti cercavo. Cercavo le tue parole ora che lei deve ancora arrivare…».
Le mie parole…
«Sì, perché voglio scrivere una storia per lei, prima che sia qui. Voglio scrivere una storia così intensa che quando l’ascolterà distesa accanto a me il suo sguardo danzerà incantato sui primi germogli di stelle. Cerco le parole di uno scorcio di vita per poter veder vibrare i suoi occhi, per farli danzare come la pelle fluida del lago, per ricamare la pagina di un’emozione sui passi del crepuscolo…».
E poi…?
«E poi la sua felicità sarà la mia. Non chiedo altro: vederla sognare raccontandole un sogno».
Vuoi che ti racconti un sogno, dunque?
«Vorrei che tu mi raccontassi la vita».
La vita, sai, è un paniere di sogni, anche quando sembrano essere troppo sgualciti per poter esistere ancora… anche quando sono riposti in scrigni segreti, adagiati sui fondali dell’anima… loro, i sogni, ci sono sempre, nella penombra azzurra della sera, tra i sipari vellutati del cuore, incastonati nelle pagine non ancora scritte… e si fanno sentire con la voce dei tuoni, con la fragranza dolce di un’alba, con il sapore della pioggia più densa…
Lo sguardo del giovane uomo divenne pensieroso.
Disse: «Le pagine del mio quaderno sono ancora vuote di parole che vorrei tanto riuscire a scrivere. Mi chiedo: come si può raccontare un sogno che nemmeno io riesco chiaramente a vedere?».
Pensi forse che qualcosa che non si riesce a vedere sia meno reale di quello
che è possibile scrutare con gli occhi?
Il ragazzo sorrise e si distese sull’erba soffice chiudendo gli occhi. Parlò piano, con nostalgia:
«Raccontami una storia, ti prego, come quando ero bambino e seduto sull’altalena davanti casa stavo per ore ad ascoltarti e nemmeno il profumo della minestra calda riusciva ad allontanarmi. Raccontami una storia, ti prego, che ti è rimasta nel cuore senza sapere il perché ma che senti custodirai per sempre…».
Allora ti racconterò una storia, una storia che brilla come una lanterna immersa nella bufera e che versa un fiotto di luce calda nell’animo…
E ora immagina di volare sopra una città, di planare sulla sua distesa di case e strade, di tetti e giardini, sino a raggiungere un piccolo quartiere, pieno di segreti e angoli bui… in questo quartiere si trova a sua volta un viottolo stretto stretto, allagato di nebbia e di silenzio… eppure, se ti avvicini, potrai scorgere una luce fioca che s’irradia dal vetro di una minuscola bottega…
In questa bottega c‘è un vecchio calzolaio che lavora chino su un piccolo tavolo di legno scuro… la sua barba e i suoi capelli sono ricamati da fili d’argento, le mani gli tremano un po’ ma lui sembra non farci caso e continua il suo lavoro da solo, nella nicchia del proprio negozietto… ogni tanto alza lo sguardo dalle scarpe rotte che sta aggiustando rivolgendolo alla porta di vetro da cui può scorgere un angolo di strada insieme al muro scolorito del palazzo di fronte e a ciò che il cielo ha deciso di donare quel giorno: luce, pioggia o veli di nebbia…
I suoi occhi sono sempre stanchi, inabissati in se stessi, quasi che la foschia sia entrata a far parte anche di loro… ma forse è solo colpa del buio che il vecchio calzolaio vede spesso quando alza la serranda del suo negozio al mattino presto e quando l’abbassa di sera tardi… Di fronte alla porta di vetro non passa quasi mai nessuno, tranne i suoi soliti clienti che parlano sempre delle stesse cose: di cuoio, di stringhe, di suole. Mai di cielo…
«Chissà, forse il cielo non esiste» dice in un sussurro tra sé e sé il calzolaio mentre sistema gli utensili da lavoro e accarezza le insenature del suo fedele tavolo di legno… ormai lui non ci crede più al cielo, perché non ne sente parlare, non lo vede, non lo ricorda…
Ma un giorno d’autunno all’improvviso qualcosa cambiò... ad una certa ora del pomeriggio, davanti alla porta di vetro della bottega, cominciò a passare una giovane donna dai capelli lunghi e il viso affilato che teneva per mano un bambino… e capitava spesso che il bimbo bloccasse il passo frettoloso della ragazza per fermarsi davanti al vetro a scrutare, con quei suoi grandi occhi pieni di meraviglia, tutto ciò che il grigio negozio custodiva… Il vecchio calzolaio si chiedeva cosa mai il piccolo ci trovasse di tanto interessante nel guardare alcuni utensili da lavoro esposti sul mobile di quell’entrata così spoglia e stanca… ma intanto, mentre armeggiava con suole consumate e tacchi rotti, sentiva un sorriso fresco come l’acqua affiorargli sulle labbra perché in fondo, pensava, era bello vedere uno sguardo incantato di fronte a qualcosa di così quotidiano e conosciuto…
Ogni giorno la piccola donna e il bambino passavano di lì, davanti al suo negozio… e li vide lungo tutti i mesi più freddi, quando alla fragile foschia dell’autunno si sostituì la nebbia fitta dell’inverno e il vecchio calzolaio doveva allora aguzzare lo sguardo per riuscire a scorgere i contorni dell’esile figuretta che tamburellava le dita sulla porta in segno di saluto… e di nuovo il sorriso tornava a trovarlo, scivolando sulle sue labbra come una morbida risacca di mare e accompagnandolo fino a quando tornava nella sua casa vuota e silenziosa dove, rimboccatosi le coperte, cominciava a ricordare piano piano il cielo… e rievocò, ad occhi chiusi, la sua chioma azzurra, la sua sconfinata iride di cobalto quando il sole, ormai assopito, lascia la sera libera di danzare all’orizzonte…e si chiedeva, il vecchio calzolaio, come avesse potuto dimenticare quello che in fondo era sempre stato custodito nel suo cuore…
Accadde però, nel pieno dell’inverno, quando al posto della nebbia l’aria brillava come un cristallo e il marciapiede era coperto di neve, che il vecchio calzolaio riuscisse a scorgere anche il viso della giovane donna, i suoi lineamenti che s’indurivano ogni volta che il bambino tentava di fermarsi per appoggiare il viso al vetro e vedere meglio ciò che il negozio custodiva… il calzolaio notò che la ragazza, allora, stringeva più forte la piccola mano del bambino e poi aggrottava le sopracciglia, sembrando più vecchia di quello che era…
“Che sorella severa” pensava il calzolaio rattristato di fronte a quella scena, ma un pomeriggio incrociò lo sguardo della giovane donna, i suoi occhi immensi e sperduti, due laghi profondi colmi di brina… capì allora che lei era la madre e il bambino suo figlio… capì, forse solo allora, che anche chi camminava sotto il cielo poteva sentire la mancanza di qualcosa e avere paura…
Un giorno di primavera, in cui la luce evanescente sembrava essere stata raccolta dai petali di un giglio, il vecchio calzolaio, non appena vide passare la donna insieme al bambino, sentì il petto inondarsi di battiti, come se una nuvola di farfalle avesse bussato dall’interno del suo cuore… Si alzò dalla sedia e con passo zoppicante camminò verso la porta del negozio… allungò la mano tremante come per scongiurare la madre e il figlio di aspettarlo, perché la sua corsa lenta e il suo cuore stanco gli impedivano di volare… Lui, il vecchio calzolaio, voleva salutarli, chiedere il loro nome o chissà semplicemente sentire la voce di qualcuno sotto la cupola azzurra del cielo… voleva parlare con la piccola donna e il bimbo dagli occhi grandi e chiedere se esistevano per davvero, perché i sogni più forti, a volte, rapiscono il cuore e lo bendano di stelle irraggiungibili…
Ma quando aprì la porta loro non c’erano già più, l’angolo del viottolo li aveva ormai eclissati, nascosti, allontanati… il vecchio uomo rimase lì ad attendere chissà che cosa: una risposta, un gesto, un richiamo e quando ritornò dentro si fermò ad osservare il fragile alone che il dito del bambino aveva lasciato sul vetro e lo accudì con lo sguardo fino a che non svanì sulla superficie trasparente come se fosse stato un sogno fugace… nelle ore seguenti la piccola orma era ormai scomparsa eppure ogni volta in cui guardava il vetro, il vecchio calzolaio era sicuro di riconoscere il punto esatto in cui era apparsa e dove aveva vissuto per pochi ma preziosi istanti…
Poi, all’improvviso, senza perché, così come erano apparsi, la giovane donna e il bambino scomparvero… dopo una settimana che non li vide più passare, il vecchio calzolaio sentì una strana fitta nel cuore, come se una corda lo stringesse… ogni giorno attendeva l’orario in cui solitamente comparivano di fronte alla porta di vetro ma nulla: loro non c’erano più e lui non conosceva nemmeno il loro nome, né sapeva da dove venivano o dove andavano… e intanto sentiva che gli mancavano… troppo…
Silenziosa tornò la foschia dell’autunno e quando i clienti giungevano davanti alla porta di vetro, il vecchio calzolaio s’immaginava che dietro a quelle diafane figure si celassero la mamma insieme al suo bambino, come quando si guardano le nuvole in cielo e si fantastica sulle loro forme scorgendo unicorni, farfalle, draghi… Lui faceva così con le ombre che passeggiavano sul marciapiede e intanto sorrideva, questa volta con malinconia, versando lievi petali di cristallo morbido sulla suola dura che stava aggiustando, così, in silenzio, nella piccola stanza da lavoro, circondato dalla nebbia…
E i petali di cristallo comparvero di nuovo una domenica mattina di primavera quando il vecchio calzolaio mi raccontò tutto questo… il cielo era terso e nella stanza immacolata dove si trovava la luce danzava come una sposa evanescente, accarezzando con dolcezza ogni cosa, persino le lenzuola sotto cui era disteso… il tempo gocciava lento da un aflebo e nel corridoio si udivano suoni di passi lontani… la finestra era socchiusa ma io l’aprii, anche se in quel luogo non si poteva… l’aprii per parlare con il vecchio calzolaio che mi raccontò tutto questo… e mentre narrava la sua storia comparvero quei magici petali luminosi che voi chiamate lacrime… lacrime che ricamarono le sue guance scarne e illuminarono i suoi occhi, colmandoli di ricordi e di pascoli di nuvole dalle mille forme…
«E poi?».
La mia storia termina con le sue parole… con la sua voce… con il suo respiro… Ciò che non si può vedere ma si continua a sentire sempre più forte, qui, nella grotta segreta del cuore, può uccidere o salvare… un giorno nasce dentro di noi un richiamo che ci riempie di echi tutto il corpo e dilata i suoi confini a tal punto che questo conduce a perderci o a ritrovarci…
Le persone, sai, si sfiorano, si guardano, si allontanano… Le vedi navigare lungo le strade strette delle città e lungo quelle desolate di periferia… attraversare i corridoi silenziosi delle case e i vicoli sperduti dei quartieri… e così le persone s’incrociano e le loro anime s’imbattono in tante cose: nella tenerezza, nella rabbia, nell’amore, nell’indifferenza anche… e una, senza saperlo, si allaccia al pensiero dell’altra, lasciando un’impronta indelebile da cui sgorgano miriadi di sogni, storie, pensieri… e questi frammenti di vita s’intersecano l’uno con l’altro creando un firmamento di stelle dove la scia argentata dei loro sogni brilla quasi più degli astri…
Sono i sogni che sentiamo soffiare nel cuore, pur senza vederli…
«Un’altra storia, ti prego, prima che lei arrivi» implorò il ragazzo con sguardo da bambino.
Questa è la storia di Veronica, una giovane donna che voleva dimenticare la vita perché, diceva, la vita aveva dimenticato lei… non riusciva più a vedere i sogni fino a che non furono proprio loro a vederla e a salvarla…
Era un pomeriggio chiaro, decorato da nuvole lontane e gonfie di luce, quando Veronica corse verso il mare e si sciolse i capelli sulla riva abbandonata… con le gambe tremanti iniziò ad entrare lentamente nell’acqua assaggiando la sua freschezza e la sua danza… entrava per abbandonare tra quelle carezze fluide i suoi ricordi dolorosi, per sciogliere nel sale di quell’immensa distesa la sua paura… il mare era il suo sogno, il dolce talamo in cui adagiarsi con la propria solitudine… perché lui, il Mare, non aveva steccati, per la sua anima non esistevano recinti e se per caso veniva colpito a fendenti la sua ferita non sanguinava ma si rimarginava subito in un’onda più bella e brillante, orlata di schiuma bianca come se fosse un tenero pizzo… Così pensava Veronica mentre abbandonava la vita per immergersi nel suo segreto… l’acqua le lambiva i gomiti e nei suoi singhiozzi riusciva a bagnarle anche le spalle… poco dopo le baciava le labbra con il suo profumo selvaggio… ancora un po’ e tutto sarebbe finito…
Ma all’improvviso la donna udì una voce che aveva il suono dei sogni più ancestrali… era una voce ricamata di pianto che non centrava nulla con il mare, proveniva da lontano, da quella riva abbandonata che Veronica pensava non avrebbe mai più rivisto… Le onde le bendavano ormai gli occhi e le orecchie ma la voce era più forte di tutto il resto, riusciva a spezzare il bozzolo d’acqua in cui era avvolta, le uncinava il cuore imbevuto di silenzio… Era un pianto, era un richiamo, era l’infanzia… Veronica sentì quella voce nelle vene e sulla pelle… Veronica sentì che doveva risalire e cominciò a muovere le braccia e le gambe lottando contro la densa marea perché la voce di un bambino chiedeva aiuto e lei non poteva non rispondere… sì, era una voce acuta e intrisa di lacrime che sovrastava quella profonda e misteriosa del mare… e nulla potevano fare gli abissi che tentavano di trascinarla nel buio: Veronica continuò a nuotare verso la voce e verso la vita…
Ansante corse fuori dall’acqua e si inginocchiò accanto al bambino che piangeva e nell’abbraccio tremante di lei il piccolo confidò il suo segreto… Veronica si gettò di nuovo nell’acqua, questa volta non per morire ma per vivere… per recuperare un aquilone che si era adagiato sugli scogli e che aveva spezzato il cuore di un fanciullo… già, la sua vita continuava grazie ad un aquilone che era volato via slacciandosi dalle dita di un bambino…
Lei, Veronica, era tornata per salvare il sogno di qualcun altro…
E così, bagnata di mare, asciugò le lacrime del bimbo e gli restituì il suo tesoro che sembrava essere per sempre perduto… si presero per mano, come due naufraghi felici, come due fragili angeli, poi si allontanarono piano verso chissà quale luogo… la mano piccola del bambino in quella luccicante di sale di Veronica…
Le loro orme vennero assaggiate dal mare che le cullò fino al tramonto…
«Sai, ora che mi hai raccontato tutto questo mi sembra di sentire il profumo dei sogni anche nella loro mancanza. Mi sembra, cercandoli, di farli vivere ancora…».
Sai, giovane uomo, sono i sogni, nascenti o frantumati, vividi o spenti, che ricamano le storie e i pensieri, in ogni istante, quando l’assenza sbuccia il cuore e lo riempie di malinconia, quando ciò che sembra esser stato dimenticato riaffiora più forte, scrollandoti il petto… i sogni riscaldano e irrigano l’anima, innalzano le case e schiaffeggiano il vuoto, spengono il buio e nutrono lo sguardo… anche quando sono sfuggenti e non si riescono a vedere loro ci sono, tangibili nel respiro profondo…
Anche se invisibili, soffiano forte… E li trovi distesi sul marmo freddo delle fontane dove l’acqua non zampilla più, nelle gelide notti d’inverno… Stanno rannicchiati sotto i portoni scuri accanto a rivoli di pioggia che scende silenziosa e sembra non debba finire mai… E sussurrano nel fruscio di un ago che danza controluce il suo ricamo, bloccandosi poi, all’improvviso, nella sosta delle dita, quando il sogno è così intenso da sospendere ogni gesto…
E anche tu ora ti stai allontanando perché la voce di qualcuno ti chiama, la voce di lei… è così forte che non puoi farne a meno, sarà la tua gioia o la tua rovina, sarà in ogni caso la vita… e io ti guarderò per custodire nella memoria i tuoi passi e traghettare il suono dei tuoi sogni al silenzio di chi non ci crede più...
Poi verranno le parole…
Le parole che salpano come velieri iridescenti a raccontare di voi sognatori che amate e rincorrete, fino all’ultimo pezzo del vostro respiro, anche ciò che non vedete ma che sentite forte, nell’oceano infinito dell’anima…
Tutto questo non smetterò mai di raccontarlo… giuro, non smetterò mai, io… il Vento.


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