Racconto premiato di Sandra Frenguelli


Con questo racconto è risultata 1^ classificata – Sezione narrativa alla XVIII Edizione del Premio Letterario Internazionale Marguerite Yourcenar 2010

Questa la motivazione della Giuria: Sandra Frenguelli offre la commovente storia di due fratelli che ribalta il concetto di “diversità” e, con parole pervase da profonda umanità, rende magica la sua visione. Nell’alternarsi di ricordi ed immagini, tra passato e presente, grazie alla narrazione coinvolgente, illumina l’insperato “dono” che può custodire infinite sorprese.


«Mai bello come me»

Ho 34 anni, una laurea in ingegneria aerospaziale e una promettente carriera universitaria essendo già professore ordinario in una delle migliori università del paese. Vanto numerose pubblicazioni in riviste scientifiche mondiali, sono a capo di un gruppo di ricercatori che lavorano al fotovoltaico di nuova generazione e sono considerato uno dei migliori cervelli nel mio campo di studio, frequentemente convocato in congressi europei e mondiali. Ho avuto attitudine allo studio e in particolare alla matematica fin da bambino, poca propensione alle materie letterarie ma un’assoluta “intelligenza scientifica” come diceva il professore di matematica e fisica al liceo.
Sono in un letto di ospedale. Da poco più di tre mesi mi hanno diagnosticato una leucemia mieloide acuta. Sono da poco passate le 17 di un giorno qualsiasi di questa settimana qualsiasi e tra poco meno di un’ora, puntuale come ogni giorno, verrà a trovarmi mio fratello Raffaele. Qualche sera fa un paziente della stanza accanto mi ha invitato a vedere sul suo dvd portatile Rain Man, film che non avevo visto quando uscì, ormai diversi anni addietro. Me ne sono tornato in camera con un sorriso amaro, una sensazione mista di fastidio e rabbia. Avere un fratello ritardato, sebbene non autistico e molto meno grave di quello del film, non produce fortuna e non fa scoprire chissà quali opportunità nella vita, è solo un grande, pesante problema. Per me avere Raffaele come fratello aveva significato, soprattutto da bambino, una tremenda ingiustizia. I miei compagni di classe, quando volevano offendermi per qualche screzio nato durante la ricreazione, non si trattenevano dall’attaccarmi con insulti del tipo «tu sei scemo come tuo fratello, va a giocare con i ritardati come lui». Non sono mai stato un tipo violento o attaccabrighe e così non reagivo né verbalmente né prendendoli a calci, semplicemente mi tenevo dentro quella frustrazione figlia dell’ingiustizia di essere il fratello intelligente di Raffaele. Alla fine, soprattutto nei pomeriggi d’inverno in cui non potevo allontanarmi da casa, mi ritrovavo a giocare a shanghai con Raffaele, lontano da tutti. Sollevare e rimuovere delicatamente un bastoncino, oppure dare un colpo secco per scalzarlo dalla posizione di apparente equilibrio evitando che gli altri compresi nel reticolo casuale che si era formato ne risentissero, era un bell’esercizio di pazienza e di attenzione per quel gioco e per la vita. Avrei tanto desiderato essere liberato dal reticolo di quella fratellanza che non avevo scelto ma che intuivo fin da bambino avrebbe condizionato la mia esistenza: sentivo che avrei dovuto prendermi cura di lui. Sempre. «Sergio, aiuta tuo fratello a fare i compiti. Sergio, vedi che Raffaele sta venendo in cortile da te, non allontanatevi. Sergio, dov’è tuo fratello, non vi avevo detto di stare insieme?!». Queste raccomandazioni dei miei genitori sono state la colonna sonora della mia vita fino al liceo. Crescendo riuscii poi a staccarmi dalla compagnia di mio fratello che si mostrò capace di badare a se stesso più di quanto insegnanti, medici e i miei stessi genitori avevano immaginato. Dopo la scuola dell’obbligo infatti, venne fuori che Raffaele se la cavava molto bene con i lavori manuali, cominciò a lavorare in un laboratorio di falegnameria mentre io mi iscrissi allo scientifico e quindi mi trasferii in un’altra città per frequentare la facoltà di ingegneria.

Raffaele aveva una innata capacità di entrare in empatia con le persone: tutto il quartiere in cui abitavamo, dai condomini ai negozianti, dagli edicolanti agli ambulanti, e poi i suoi colleghi in falegnameria lo avevano in gran simpatia e per la strada spesso, quando passeggiavo con lui nei miei ritorni a casa tra un esame e l’altro, si sentivano saluti gioiosi a cui Raffaele rispondeva con altrettanto entusiasmo. Mi ero sempre chiesto come fosse strano che la stupidità risultasse tanto simpatica. Mio fratello, che aveva sempre avuto gravi deficit di apprendimento che nessun insegnante di sostegno sia alle elementari che alle medie era riuscita a migliorare, non era stato nemmeno in grado di prendere la patente per guidare l’auto, perciò si spostava per la città sempre con i mezzi pubblici, e così anche gli autisti dei tram o degli autobus lo accoglievano nei loro mezzi con saluti entusiasti, del tipo: «Ehi, Raffi, come va, era un po’ che non venivi a trovarmi». E lui rispondeva a tutti con un gran sorriso, una battuta simpatica, un’affettuosa pacca sulla spalla e il suo saluto ormai famoso: «ciao bello … ma mai bello come me!», a cui accompagnava il vezzo di tirarsi indietro il folto ciuffo di capelli che gli cadeva sulla fronte.
In falegnameria dicevano che era molto bravo a “capire il legno”, non aveva studiato né avuto un maestro, ma d’istinto, solo osservando la sezione da lavorare sapeva come tagliare ad esempio la radice di olivo affinché non si scheggiasse, riusciva a tirar fuori dal rovere le venature migliori e dal castagno i nodi più perfetti. Non si poteva dargli da fare qualcosa a misura perché non era in grado di far dipendere i suoi lavori dal centimetro, costruiva però dei pezzi unici molto belli, come piccoli scaffali da un unico tronco di frassino, tavolini intagliati in una radice di olivo, sgabelli da tronchi di ciliegio e il tutto per lo più senza utilizzare la colla perché sosteneva che erano già nascosti nel legno, bastava solo liberarli. I suoi lavori venivano venduti senza ordinazione: i clienti sapevano delle sue creazioni e le apprezzavano, mio fratello non aveva una grande percezione del valore del denaro, quello dello stipendio da operaio che gli passava il proprietario della falegnameria gli era più che sufficiente sebbene uno solo dei suoi lavori venisse venduto al triplo della mensilità che percepiva. Ma Raffaele diceva a tutti che era contento così, considerava Mario, il proprietario della falegnameria, più un amico che un datore di lavoro e d’altronde chi altro se non un amico poteva prendere a lavorare un falegname come lui che non era in grado di tagliare a misura lo stipite di una porta? Raffaele era consapevole di non avere tutte le facoltà di un “normodotato”, (bruttissima parola che però esprime compiutamente il senso), ma non ne soffriva, era sereno, aveva quella rara capacità che forse hanno solo i felici (o gli stupidi o i saggi?) di amarsi per ciò che si è.
Tra poco sarà qui, lo sentirò prima di vederlo mentre per il corridoio saluterà gli infermieri che gli faranno l’eco «ciao bello… ma mai bello come me!» e poi entrerà da quella porta con quel suo sorriso aperto ed esagerato che in molte occasioni ho definito idiota e che oggi non vedo l’ora di vedere. Metto via tutto prima che arrivi, non voglio che mi trovi con il computer sul letto, penserebbe che sto lavorando e comincerebbe a sfinirmi con questioni che nella sua semplice logica non fanno una grinza, del tipo «ma se puoi lavorare, perché te ne stai in ospedale? Se quando ho l’influenza e mando il certificato a Mario poi lui sapesse che invece lavoro il legno a casa, mi licenzierebbe subito, non è che oltre alla malattia poi ti ritrovi pure senza lavoro, eh?». Ecco, sta arrivando, sento il suo saluto per il corridoio meglio chiudere tutto.

Raffaele è andato via da poco, oggi ha fatto una cosa inconsueta, dopo avermi raccontato gli incontri della giornata con la gente del quartiere e del tronco che in falegnameria si sta trasformando in una sedia, mi ha lasciato una lettera chiedendomi di leggerla solo dopo che se ne fosse andato, aggiungendo: «poi però non rompere con gli errori di grammatica, non mi serve essere letterato per fare il falegname… capito bello, ma mai bello come me?!».

Caro cervellone di un fratellone,
ti scrivo mentre sono sull’autobus di Gino che mi sta portando in ospedale a trovarti. O deciso (ed ecco qua il primo errore da matita rossa) di scriverti cose che non sono mai riuscito a dirti. Prima di tutto che, anche se sei sempre stato un gran pensiero per me (ma senti un po’?), io ti ho voluto sempre tanto bene e non ho mai desiderato un fratello diverso da te. Fin da bambino io vedevo che eri molto intelligente, che i libri erano la tua passione ma eri poco capace di stare insieme agli altri e così per non lasciarti solo, scendevo in cortile a farti compagnia (ah, questa è bella!) e non mi pesava passare ore e ore a giocare a sciangai, anche se eri sempre silenzioso e di cattivo umore, ci stavo bene con te… e poi alla fine vincevo quasi sempre io, e questo alegeriva (le doppie, queste sconosciute, eh?) il compito. Tu sei una grande mente Sergio mio, un genio di quegli specchi che prendono il sole, ma un disastro dal punto di vista pratico, e per questo non ti devi preoccupare perché ci sono io, anche solo se devi appendere un quadro o prepararti qualcosa da mangiare, puoi chiamare me, sono il tuo fratello maggiore e so come prendermi cura di te. Anche la mamma sai, soprattutto negli ultimi giorni, quando ormai non riusciva più ad alzarsi dal letto e io le inboccavo la minestrina all’olio che le piaceva tanto, mi prendeva la mano tra le sue e mi sussurrava «custodisci Sergio». Allora io gli dicevo: «mamma, lo sai, sono sempre stato il custode di mio fratello, non sono mica come Caino». Ti ricordi eh, la storia dei due fratelli che ci aveva raccontato da bambini? A me quel Caino lì, stava proprio antipatico. Ah, mi dimenticavo la cosa più importante: per la tua malattia è tutto a posto. Ho parlato con Bruno, quello che chiamano Primario, ma si chiama Bruno, e mi ha detto che gli basta un po’ di qualcosa che, non mi ricordo come si chiama ma ce l’ha anche il legno (si chiama midollo), possono prendere da me per farti guarire. Va tutto bene cervellone di un fratellone, certo non sarai mai bello come me, ma magari adesso con quel qualcosa di me che ti mettono dentro ti abelisci anche tu! Ecco, Gino mi ha chiamato, la prossima è la fermata dell’ospedale, sto arrivando, domani ti porterò una sorpresa… ciao bello!

Per correggere l’ultimo errore mi è sfuggita una delle lacrime che rigano il mio volto: adesso è qui, sul foglio di Raffaele, espande l’alone sul suo posto eterno. Ripenso all’ultimo giorno di mia madre: quando arrivai era già in coma, le accarezzai il viso, mi chinai vicino al suo orecchio per sussurrarle: «non preoccuparti, a Raffaele penserò io». Spero, anzi supplico, che non mi abbia sentito e che almeno in quel giorno le sia stata risparmiata la mia cecità.

Il giorno successivo al biglietto Raffaele venne in ospedale con la sorpresa: una scatola di shanghai di pioppo fatti da lui, su ogni bastoncino c’erano scritti gli eroi dei fumetti che leggevamo da bambini, su due bastoncini c’erano però scritti i nostri nomi. Lanciando a caso gli shanghai sul tavolino accanto al letto, quello con il mio nome si era adagiato in cima, in equilibrio precario sopra a tutti gli altri. Da sempre la prima mossa toccava a me. Afferrai agevolmente il bastoncino della Banda Bassotti che non toccava nessuno degli altri, quindi utilizzandolo a mo’ di leva, detti un colpo secco da sotto a quello con il mio nome che infatti non provocò alcuna conseguenza sugli altri, ma si alzò in aria dalla parte di Raffaele che per afferrarlo si sporse dalla sedia, perse l’equilibrio e cadde a terra con il mio bastoncino sulla mano destra urlando soddisfatto «Preso!».

È trascorso un anno da quel giorno e dalla mia malattia, grazie al trapianto sono guarito. Ho chiesto un periodo di aspettativa all’università, da poco sono tornato a vivere a casa dei miei, con mio fratello. L’altro giorno al fruttivendolo che mi chiedeva se era da poco che mi ero trasferito nel quartiere ho risposto: «sono il fratello di Raffaele, sono tornato a casa…» Il fruttivendolo ha esclamato: «Ah, ma sei il professor Sergio, Raffaele parla sempre di te, è così orgoglioso del suo fratellone cervellone che però, al pari di tutti noi, non è mai bello come lui!». Abbiamo riso entrambi di un riso sincero che nascondeva quel pudore adulto misto ad un orgoglio ebete che ci impediva di dire espressamente che aveva ragione lui.
Spesso la sera, quando Raffaele non ha impegni con i suoi amici (ma a volte ho il dubbio che si tenga libero proprio per farmi compagnia), giochiamo a shanghai: spero sempre che nel reticolo casuale i bastoncini con i nostri due nomi si sistemino uno accanto all’altro; e comunque faccio sempre in modo che sia Raffaele a custodire entrambi. Nelle sue mani sono al sicuro.

Sandra Frenguelli


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