Opere di

Salvatore Mascaro

Con questo racconto si è classificato al settimo posto al Concorso Città di Melegnano 2008 sezione narrativa


Solo l’inferno è onesto

Questa la motivazione della Giuria: «In un paese del sud, Gerardo, povero bracciante al soldo di un barone rapace, trova un pesce anomalo, straordinariamente grande e a tutti sconosciuto, che potrebbe sfamare la famiglia nell’inverno. Il senso del peccato che suscita l’anormalità del pesce e l’astuzia del barone, glielo porteranno via, per alimentare la già grassa mensa del nobile. Un’ironia graffiante e sottile pervade questo scritto, nel quale i miseri sono sempre perdenti». Alessandra Crabbia


chi mi insegnò a nuotare fu marinaio, furono i pesci del mare
a noi che veniamo da altre terre e che veniamo da un altro mare

Canto degli schiavi neri del Brasile

La torre normanna sovrastava le fertili vigne che, partendo dal 
rudere isolato, degradavano dolcemente fino al mare, limitate a sinistra dal letto della fiumara, quasi asciutto in quel periodo dell’anno e a destra da un canneto rifugio per topi, serpi e chissà quali altre bestie.
Le terre dello scomparso barone don Alfredo, nella piana calabra di Sant’Eufemia, erano invidiate da tutti: così cariche di sole e di acqua, le piante generose offrivano già a metà di Agosto i loro frutti maturi quando ancora i vitigni, su in paese, appena mostravano acini duri e verdi, piccoli come chicchi di grandine.
Da due giorni la gente di Accaria, al soldo della famiglia del barone, lavorava senza posa al raccolto dell’uva ed i carri facevano la spola percorrendo i dieci chilometri che separavano le vigne sul mare dai palmenti: si poteva ben dire che ogni cosa tra Accaria ed il mare fosse dei baroni, le loro tenute partivano infatti dalle ultime case in basso e, seguendo il corso della fiumara, si alternavano a destra ed a sinistra per chilometri e chilometri in boschi di sugheri, aranceti, ulivi, pascoli, canneti, muraglie di fichi d’india a ridosso di burroni.
Seduti in circolo tutt’attorno all’antica torre, mentre le donne erano sul greto del torrente a togliersi la polvere da braccia e gambe, gli uomini si godevano la brezza osservando il sole del tramonto stagliarsi nitido sulla linea del mare: tra loro vi era Gerardo, ormai prossimo ai sessant’anni, detto “il leone” per la sua mania di appuntarsi al gilè, nei giorni di festa, un fiore di bocca di leone, una delle poche piante capaci di germogliare e crescere sui muri di pietra: al termine della giornata, di tutta quella stanca comitiva, solo Nicola, il nipote di Gerardo, e pochi altri ragazzi, avevano ancora energie sufficienti a rincorrersi tra i filari o arrampicarsi sui prugni ed i fichi per contendersi con gli uccelli gli ultimi frutti.
Anche in quell’ora di riposo, in attesa del carro che avrebbe ricondotto tutti in paese, nel gruppo degli uomini era un continuo discutere di lavoro: c’erano palizzate da sistemare, alberi da potare, tegole rotte nei tetti da rimpiazzare e così nuovi accordi si aggiungevano a quelli già fatti e richieste di aiuto si alternavano alle offerte; Gerardo si era appena accordato con Vincenzo per risistemare la muraglia che divideva le loro proprietà e che era franata in primavera quando, nel riprendere il suo posto nella cerchia, si accorse di una massa scura agitarsi sulla schiuma bianca a ridosso della riva. Non senza sforzo, per via delle gambe indolenzite a furia di piegarsi tra i filari, Gerardo si rialzò e si avviò verso il mare, ma, giunto sulla spiaggia, vide che il nipote e gli altri ragazzi lo avevano preceduto ed ora stavano tutti attorno ad un pesce lungo quasi quanto due uomini.
«Gesummaria, cos’è, un tonno?».
«Ma quale tonno, non vedi che denti ha? È uno squalo di sicuro!».
«A me sembra più un delfino».
«Con questa bocca? Non può essere, è un pescecane, ti dico…».
«Un pescecane? Oh Gesummaria, e chi si tuffa più?».
Istintivamente, tutti si volsero a scrutare il mare e l’orizzonte: sui ciottoli umidi, il pesce aveva intanto smesso di agitarsi, solo la coda, di tanto in tanto, si sollevava per ricadere pesante sull’acqua bassa.
«Il carro, arriva il carro!».
Dalla spiaggia si potevano vedere i raggi della grande ruota riflettere i raggi dell’ultimo sole: un carro da lavoro enorme, in legno di noce decorato a mano, ornato con foglie rosse e nere da un artista di Nicastro, lo stesso che aveva dipinto sant’Antonio e il bambinello nella navata del Duomo: a tanto potevano i padroni!
Quando Gerardo giunse allo spiazzale dove stava il carro, le donne erano già salite, accovacciate in fondo, nella parte più vicina ai buoi, in grembo tenevano un cesto d’uva protetta dalle foglie larghe di vite, gli uomini stavano anch’essi prendendo posto aiutandosi l’uno con l’altro per via dell’altezza, in ultimo i ragazzi, le gambe sporche di terra e magre a penzolare nel vuoto.
Ma Gerardo ancora non saliva: il nipote lo vide allora discutere con Gaetano, il giovane carrettiere che dallo scorso autunno aveva sostituito il nonno, anche lui di nome Gaetano, ormai vecchio e rassegnato a passare le giornate sui gradini di casa quando il tempo lo permetteva. La discussione tra i due si dilungava e il giovane carrettiere cominciava a dare segni di nervosismo: agitava le braccia, sollevava la polvere col piede, finché imprecando gettò con sprezzo il cappello a terra e saltò sul carro stringendo le redini e incitando le bestie al movimento.
Il ragazzino nel vedere lo zio immobile, le braccia conserte, stava per buttarsi giù dal carro, ma Gerardo, capendone le intenzioni, si avvicinò rapido al nipote e lo mantenne seduto tenendolo fermo per le spalle:
«Ascolta bene, Nicola, devi farmi quest’ambasciata: devi dire alla zia Anna di non aspettarmi e di mangiare, quanto a me deve stare tranquilla, tornerò prima della mezzanotte».

La luna scintillava sulle onde corte della sera e sul lungo fianco del pesce riflettendosi nel disco nero dell’occhio.
A piedi nudi nell’acqua, Gerardo sedeva sulla sabbia ormai fredda osservando ora il pesce, ora la linea di luce all’orizzonte, sempre più stretta, e le deboli luci sul lato opposto del golfo.
«Ti ha spinto a morire qui sulla terra, questo mare assassino e crudele che fa annegare i cristiani e scaccia dal grembo le sue creature… tu lo sai che il maiale che avevo è morto questa primavera, di un male brutto che gli faceva fare la schiuma dalle narici e così l’ho dovuto seppellire tra i castagni e coprire di pietre che non se lo mangiassero le volpi, tu non sei pesce, io lo so, i tuoi polmoni hanno respirato fino ad un’ora fa ed adesso ho deciso, prenderai il posto del maiale e con la tua carne mi aiuterai a passare l’inverno, non tanto per me ed Anna che è da una vita che campiamo con poco, ma c’è Nicola, le sue sorelle…
Ahi mala sorte che tiene i padri lontano dai figli: mio fratello, Salvatore, è andato nelle Americhe che Nicola era ancora in fasce, adesso Chiara, la maggiore, ha già una figlia ed un altro in arrivo, chissà se almeno lei si ricorda del padre lontano, povero cristo che fa quel che può, scrive, manda pure i soldi, ma l’oceano è così grande ed anche i legami più forti si allentano, Nicola conserva una foto del padre vecchia di dieci anni, mi chiede di lui, di com’era, ma la verità è che è cresciuto senza padre e poi, anche se l’avesse conosciuto, il tempo ci macina e ci trasforma come il grano in farina e quando finalmente mio fratello riuscirà a tornare, è come se in casa entrasse uno straniero!».
Il vento si era adesso calmato del tutto e sembrava che il mare, dopo aver abortito il pesce, lo volesse cullare osservandolo con tristezza.
«Tu lo sai che la mala sorte non mi ha dato figli; dovevi vedere il ventre di Anna, splendeva come il tuo sotto questa stessa luna: la luna piena rende fecondi, proprio così ci dicevano e noi stessi ce lo ripetevamo sempre, giorno dopo giorno, di anno in anno; fin dalla notte delle nozze abbiamo accostato il letto alla finestra e lì è rimasto in tutti questi anni, anni di stenti a servir padroni e trascinarci su questa terra avara, a rovinarci gli occhi e le mani, e intanto nascevano i figli di mio fratello: prima è venuta Chiara, poi Maria, Teresa e da ultimo Nicola fino alla partenza di Salvatore per il Brasile, il Paraguay, l’Argentina dove i vitelli nascono e si riproducono come da noi i topi e c’è terra in abbondanza, terra di pianura grassa da poterla lavorare senza spaccarsi schiena e unghie, senza doverla pulire da sassi e rovi».
Quando il carro ritornò non c’era più il sole a far risplendere i raggi delle ruote, ma, bagnato dalla luna nel silenzio della notte, dal basso della spiaggia, sembrava ancora più imponente. Distolto dai suoi pensieri tristi, Gerardo vide il vecchio Gaetano avanzare sul tratto di sabbia scoscesa aiutandosi col bastone e sorretto per un braccio dal nipote: dietro, un po’ in disparte, stavano altri tre uomini del paese, uno con delle corde in una mano.
«Compare carissimo, anche voi qui, davvero non dovevate disturbarvi a venire pure voi, però vedervi mi da sempre una grande gioia!».
«Quando mio nipote mi ha detto delle vostre intenzioni forse sperava che vi avrei dissuaso ed invece eccomi qua: al posto di un vecchio pazzo gli è toccato assecondarne due e non ti dico le strilla di Assunta, l’ho dovuta allontanare dal carro a male parole e minacciarla finanche col bastone… allora compare, adesso le sarde sotto sale non ti vanno più bene?».
«Hai detto bene, compare, sono troppo piccole! Questo lo metto sotto sale e ci aiuterà a passare l’inverno a me, ad Anna e alla famiglia di mio fratello, solo che dobbiamo prima metterlo sul carro e ho paura che non sarà come spostare un sacco di patate».
«Di che hai paura, Gerardo? Non vedi chi ho portato? Qui c’è Saverio che il tuo pesce se lo prende a braccetto e se lo porta a spasso come una fidanzata! Forza, diamoci da fare…» e il vecchio si avvicinò baldanzoso alla carcassa come se la semplice vista dell’animale gli avesse restituito le forze passate.

Le luci erano ormai spente quando il carro arrivò in paese e i braccianti già dormivano nei loro letti, l’indomani, all’alba, lo stesso carro li avrebbe ricondotti alle vigne del barone per l’ultimo giorno di raccolta. Sola, avvolta nello scialle, in piedi sui gradini di casa stava Anna, la lampada a petrolio in mano: sempre in silenzio e ad occhi bassi, la donna scese i gradini in pietra per illuminare agli uomini lo stretto portico che conduceva al magazzino usato per tenere il vino, l’olio e le conserve per l’inverno. Qui i quattro giovani del gruppo, ai capi di due grosse funi, trasportarono l’animale adagiandolo sul lungo tavolo da lavoro al centro della stanza.
Anna riempì fino all’orlo i bicchieri con vino rosso, preso direttamente dalla botte, e li porse ai presenti assieme ad un piatto di lupini e di olive aromatizzate con aglio e aghi di rosmarino; poi attese paziente seduta in un angolo che anche il vecchio Gaetano, per ultimo, si congedasse tra abbracci e strette di mano, solo allora potè finalmente riversare addosso al marito tutta la rabbia e le paure accumulatesi nelle lunghe ore dell’attesa.
«Ma allora sei proprio uscito di senno! Ti presenti a tarda notte e ti porti dietro questo pesce schifoso!».
«Non è un pesce, vive in acqua, ma è come un maiale».
«Un maiale? Questa bestia qui? Con questa bocca orrenda?».
Gerardo aveva però già preso, dal cassettone del tavolo, il suo coltello più’ grande e con decisione affondò la lama nel ventre della carcassa, all’altezza della pinna laterale, fino a toccare il manico, per poi farla scorrere lungo il corpo quasi all’attaccatura della coda.
«Avvicinati con quella lampada e guarda…».
Praticata una piccola incisione a due centimetri dalla linea di taglio, Gerardo vi infilò due dita e sollevò con quanta forza poteva mentre con l’altra mano indicava i vari organi esposti.
«Ecco i polmoni, qui c’è il cuore, il fegato, lo stomaco, non manca nulla…».
Anna sapeva già cosa fare e, rinunciando a contrariare ulteriormente il marito, prese la larga e bassa cesta di vimini attaccata alla parete, vicino ai mazzi di origano appesi ad essiccare, la depose ai suoi piedi e, aiutandosi con un piccolo coltello affilato, staccò i visceri dal corpo e ve li fece scivolare sopra.
Rimossi i visceri i due si diedero il cambio: Anna teneva sollevato il fianco dell’animale mentre Gerardo spezzò il costato con sapienti colpi d’ascia e tirò via i polmoni ed il cuore.
«Adesso andiamo al torrente gettar via le interiora, ci penseranno i pesci e le civette a farle sparire, poi buttiamo due secchiate d’acqua sul tavolo per toglier via tutto questo sangue e andiamo a letto. Stanotte facciamo riposare la carne, domani alle vigne mando solo Nicola, io resto qui e sbrighiamo il resto: abbiamo il sale, i vasi con il pepe, il ginepro, il vino, lo spago, non ci manca nulla».
«Io non voglio andare contro la tua volontà, ma davvero vuoi fare a pezzi quest’animale e lavorarlo come fosse un porco? Davvero ne vuoi salare la carne ed appenderla ad affumicare?».
«Senz’altro, ed il grasso lo mettiamo a bollire e lo userai per i dolci pasquali, guarda com’è morbido e bianco, roba sopraffina, cibo per signori!».

All’alba, uscendo dalla casa canonica, don Ferdinando venne a sapere, dalla gente in piazza in attesa del carro, di Gerardo e della creatura raccolta sulla spiaggia e così, senza perder tempo, si affrettò a verificare di persona quanto era appena venuto a sapere: da uomo di scienza oltre che di chiesa, avrebbe così potuto accertarsi sulla vera natura dell’animale dato che più’ parlavano di pesce, ma nessuno sapeva dire a quale razza appartenesse.
Gerardo ed Anna erano già indaffarati attorno al tavolo di lavoro quando sentirono bussare.
«Don Ferdinando, che sorpresa! Prego, accomodatevi».
La donna si asciugò lesta le mani sul grembiule e porse una sedia al vecchio parroco.
«Dovevo arrivare agli ottant’anni per vedere una cosa simile!».
Il prete inforcò gli occhiali e si chinò per meglio osservare la testa dell’animale.
«In nome di Dio, si può sapere che intenzioni avete? Vi rendete conto che non è un pesce, ma un cetaceo, una specie di delfino?».
«Che ti dicevo, Anna? Anche don Ferdinando mi da ragione!».
«Ma non potete mangiarvelo, mi avete capito? Non potete!».
«E perché mai di grazia?».
«Perché lo dice la Bibbia! Fin dai primi libri dell’antico Testamento le creature sono state suddivise in due categorie distinte, le bestie buone e le bestie cattive; l’agnello è, ad esempio, un animale buono, pulito e lo è anche la colomba, vedete bene che sono di colore bianco che è il colore della purezza, per contro la serpe è immonda e questa non è da meno, guardate la sua pelle com’è viscida e scura».
«Ma è scura anche la pelle del porco, o almeno così era, che adesso ci sono queste nuove razze dalla pelle rosa come quella dei neonati: forse che non dobbiamo più’ mangiare il porco?».
«Non è solo una questione di colore del manto: il maiale è un animale di terra, si nutre dei suoi frutti, cresce sotto il sole e le stelle, questa è invece una bestia immonda, vive negli abissi marini».
«Ma allora anche i tonni sono esseri immondi, hanno la pelle e le carni scure, vivono anche loro in fondo al mare».
«Qui la questione si complica, Gerardo, vedo che ti ostini nel tuo disegno, ma siediti un poco e ascoltami bene: devi sapere che fin dall’alba dei tempi Dio volle separare le tenebre dalla luce, il cielo dal suolo, le acque dalle terre emerse; ad ogni creatura venne poi dato un ben preciso posto da occupare nel creato; successe però che una di queste creature, il maligno, cadde dal cielo sulla terra e nel cadere li contaminò entrambi; per volere di Dio ogni animale è confinato in una specifica regione, sia essa terra, mare o cielo e quando sconfina ecco che contamina tutto quel che tocca: questi sono animali immondi, creature maledette come la rana che dall’acqua sale sull’erba o il drago che lascia strisciare le sue ali negli anfratti più sporchi ed umidi e con quelle stesse ali sale verso il sole; lo stesso avviene per il leviatano che, come hai visto tu stesso, ha cuore e polmoni per respirare, ma preferisce passare la sua esistenza nelle profondità abissali, lontano dalla luce, fino a deformarsi perdendo le antiche sembianze».
«Per l’anima tua Gerardo, ascolta le parole di don Ferdinando e non disperare: la Madonna che ci ha sempre assistito ci aiuterà a passare anche quest’inverno; ricordati dei primi anni passati assieme: anche l’olio ed il sale ci mancava, ma ne siamo usciti e così ti scongiuro, Gerardo, non andare contro il volere del Signore».
«E sia, moglie, è destino che quest’anno debba sotterrare animali invece di mangiarli».
Gerardo stava già pensando a come poter trasportare la carcassa fino alle sue piante di castagno e lì sotterrarla di fianco al maiale, quando dalla porta aperta si affacciò don Gaspare, uomo di fiducia della famiglia dei baroni, seguito da altri uomini della servitù.
«I miei ossequi, don Ferdinando e salute a voi: il signor barone mi manda a riferirvi che, com’è scritto negli atti notarili, le sue terre si estendono dalle chiuse sotto il paese fino al mare, spiagge comprese e che pertanto questo pesce e di sua proprietà e ha mandato me a riprenderlo, spero lor signori non abbiano niente in contrario».
«Per carità, eccovi il pesce, vogliate porgere al signor barone le mie scuse più sentite e queste creste d’aglio per insaporire le carni, voglia gradirlo come un mio umile segno di stima e di riconoscenza nei suoi confronti: nell’orto qui fuori c’è il grasso del pesce già fatto a pezzi dentro alla marmitta, vedrete che olio per le lampade ne verrà fuori! Il fuoco sotto non è stato ancora acceso, seguitemi, faccio strada…».
«Che si portino via tutto al più presto che non vedo l’ora di pulire e bruciare alloro per purificare l’aria: mi spiace per voi, don Ferdinando, adesso vi toccherà andare dai signori baroni per non far cadere in peccato anche loro…».
«Figlia mia, pesci di scoglio siamo e qui ci tocca stare: occupiamoci delle nostre piccole cose che alle grandi ci pensa il Signore; piuttosto ti aspetto domani a messa e se hai delle calle per l’altare portale, la Madonna te ne renderà grazie».
Carni e grasso vennero così sistemati dai servi su di un carretto, poggiati su di un letto di felci: nella stanza moglie e marito, rimasti soli, stavano abbandonati alle loro sedie a guardarsi le mani vuote mentre, sul legno umido del tavolo, qualche mosca ancora saltellava ingorda a contendersi l’ultimo sangue.


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