Racconto di Rossella Melotti


Con questo racconto è risultata 1^ classificata – Sezione narrativa nella VIII Edizione del Premio di Scrittura Creativa Lella Razza «Frammenti di memoria: una donna straordinaria»


FILERINA

Certi giorni, quando fuori piove e l’oscurità pervade le ore, sembra che il tempo non passi mai, la noia penetra ogni gesto e intesse fili negli anfratti mentali, come una ragnatela avvolgente, così si gira e rigira per casa alla ricerca di qualcosa da fare per tirar sera. Oggi è proprio una di queste giornate bigie e malinconiche, complice l’ autunno inoltrato e una pioggerellina fitta che ammanta il cielo di cupo grigio. Inizio a fare un po’ d’ordine, tanto per ingannare il tempo. Aprendo distrattamente l’anta dell’armadio in soggiorno scopro, quasi per caso, la presenza di un vecchio album di famiglia quelli con la copertina in cuoio e la bordatura argentea. Soffio lentamente lo strato polveroso che s’addensa in superficie, lo afferro con cura, imprimendo i polpastrelli lungo il pulviscolo stratificato. Sorrido, scacciando la noia, e inizio a sfogliarlo invasa da nuovo entusiasmo. Davanti ai miei occhi si allargano pagine ingiallite e consunte sopra le quali sfilano minuscole istantanee dai bordi dentellati, pagina dopo pagina s’aprono scenari inconsueti, lontani, che sento appartenermi, tracce del presente s’innestano lungo il filo delle numerose foto che passo in rassegna. Guardo mia nonna e le sue amiche, ancor piccole, dentro larghi scamiciati di tela, frange sfilate sopra le fronti, mentre guardano l’obbiettivo con sguardi ingenui come bambole di porcellana. Il ricordo della nonna prende il sopravvento, il cuore accelera, serro gli occhi per un lungo istante e calo in profondità, negli abissi della memoria, pronta a trafugare dettagli che mi riportino la nonna in tutta la sua interezza. Voglio ritrovarla, voglio disegnarla riempire i contorni di colori, annullare le distanze del tempo… Voglio! Voglio! Voglio! Eccola nonna Maria, ora è qui con me! Smantellati gli argini della memoria, riemerge fluida, indelebile e gradualmente si tinge di emozioni. Con rapidi gesti delle dita passo in rassegna ogni foto dell’album, gli occhi sfiorano la lunga sequenza dì immagini che si srotola come una pellicola. Volti familiari, reti affettive, figure smembrate dalla sbiaditura dei colori affiorano prepotentemente sulla carta pergamenata color avorio. Ovunque c’è mia nonna, una donna straordinaria! Nonna Maria sorrideva sempre, quando parlava stendeva labbra sottili lungo le pieghe della pelle e allungava gli occhi scuri sotto palpebre lattiginose. Assumeva smorfie quasi grottesche, lasciando trasparire emozioni attraverso ogni poro della pelle, quella mimica facciale le regalava una maschera originale, direi unica. Nel sangue aveva il buonumore, mischiava in giuste dosi serenità ed ironia come nei sapori agrodolci, il suo ricordo è granito nel cuore.
Eccola nella la foto con la sua Ida, l’amica di cui parlava sempre, una “Filerina” come lei, conosciuta durante i lunghi anni di lavoro “Giù in filanda”. La nonna aveva iniziato a lavorare a dieci anni, allora era normale, l’infanzia era un fiore che appassiva presto e si diventava subito adulti senza periodi di transizione. Era stata sua mamma, la bisnonna Bice, a trovarle quel posto in nell’opificio vicino al fiume, durante i mesi estivi, un’occasione per racimolare qualche soldo e provvedere così alle necessità della famiglia numerosa, piena di “Fioeu” da tirar grandi. Gli uomini lavoravano nei campi mentre le donne andavano in filanda o al servizio di qualche ricca famiglia come balie. La nonna lavorava e cantava tutto il giorno, come lei facevano le numerose operaie che occupavano l’immenso stabilimento grigio, circondato dai gelsi. Nonna Maria, Ines, Agnese, Ida, erano le più piccole di quella turba di donne affannate che ogni mattina, allo spuntar dell’alba, percorreva la strada verso la filanda. Intonavano le stesse cantilene e il coro gradualmente s’ arricchiva di nuove voci, volti, esistenze sparse nella folta boscaglia che chiazzava le verdeggianti colline comasche. La moltitudine di operaie strascicava il passo, rumoreggiando gli zoccoli sul selciato, ovunque echeggiava, simile ad uno sciame, il loro denso corteo. Nonna Maria non ha mai dimenticato quegli anni duri e miserevoli della sua vita, parlava spesso delle filerine, sembrava volesse catapultarmi in quel microcosmo ovattato che le apparteneva come la corteccia di un albero. Ida, era la più piccola di tutte, nelle foto appare scarna in volto e vestita con pochi cenci scoloriti, occhi intensi color cacao, intrisi di malinconia e lunghe ciocche dietro la schiena, trattenute da lacci di stoffa grezza. Proveniva da una famiglia poverissima ed era l’ultima di cinque figlie, tutte filandaie. Lei e la nonna era diventate subito amiche, si davan le mani, aggrovigliando le piccole dita in un saldo nodo di muscoli, si guardavano con occhiate furtive divenendo complici di una silenziosa comunicazione… “Filerine” così erano chiamate da tutte. Lavoravano otto-nove ore al giorno per un misero salario di venti centesimi, tenevano costantemente le dita nell’acqua bollente fra i resti delle crisalidi e vapori ardenti alla ricerca del capofilo dei bozzoli ammollati. Facevano a gara per chi era più veloce ad estrarre il primo filo dalla bava utilizzando la piccola scopetta che sfregava ritmicamente il bozzolo, solitamente vinceva Ida perché aveva dita magre e sciolte,così piccole da sembrar fusi tamburellanti.
Ogni adempimento lavorativo veniva trasformato da loro in una sorta di gioco a punti, l’unico modo per sopportare la fatica quotidiana e recuperare barlumi d’infanzia frantumati dalla durezza di quella miseria.
L’estate era lunga, giù in filanda, il caldo soffocava ogni respiro e gli odori nauseabondi rendevano invivibile quel luogo; non si poteva parlare o ridere, qualsiasi gesto avrebbe fatto perdere l’attenzione, allora si cantava senza mai smettere: “E lee la va in filanda. . lavoràlavoràlavorà…. e le la va in filanda, lavorà per suo bel morettin…“…per reggere meglio il grande caldo che esalava dalle bacinelle piene d’acqua. Non c’era pietà in quel lavoro ma tanta forza, la forza di continuare, lo spirito tenace delle giovani filandaie. All’ora del pranzo per le filerine c’era una breve pausa, scartavano qualche pezzo di michetta rafferma da mischiare alla polenta ormai secca dei giorni addietro, nonna Maria intratteneva le compagne con scioglilingua e cantilene,erano sempre le stesse ma sollevavano il morale: “Fila fila-stro facciamo un impia-stro, impia-stro di suoni e filastrocconi!” “Fila la seta la donna di Gaeta… seta-moneta-donna-Gaeta” e alla fine dell’estate tutte le ricordavano a memoria. Mentre impastavano le bocche di pane e acqua, le filerine ascoltavano le conte come una liturgia, sgranavano gli occhi meravigliate e contraccambiavano con un applauso finale. Questo sicuramente era il momento più bello della loro intensa giornata e per pochi minuti tornavano ad essere bambine con ali di farfalle. Il suono penetrante della sirena sanciva il rientro al lavoro, smorzati infantili sorrisi, s’ addensavano all’interno della filanda come operose api, lo sguardo fisso sulle dita, i piedi scalzi sotto il fiotto d’acqua che fuoriusciva dalle bacinelle mentre l’umidità stagnante abbozzava nubi fumose. Ida e Maria seguitavano a cantare finchè la voce non diveniva roca, si ascoltavano, si percepivano come due ingredienti in un fluido, una sinergia affettiva che si rafforzava man mano che il tempo trascorreva all’interno di quell’immensa scatola rumorosa, fatta di giorni tutti uguali. I sogni-bambini s’incenerivano di scure certezze. La giornata terminava nel momento in cui “Il Gino”, nipote del padrone, chiudeva il cancello della filanda, agganciava il lucchetto alla lunga catena d’acciaio accennando un rondò metallico. Alla sera parlava il silenzio, le filandaie si portavano addosso tutta la fatica del giorno come un abito pesante e scomodo, si muovevano stancamente trascinando muscoli intorpiditi e flaccidi sotto la pelle lessa. La nonna stringeva la mano di Ida, ammiccando qualche sorriso, a volte, prima di salutarsi si scambiavano bambole di pezza che tenevano segretamente dentro qualche tasca dei loro vestiti, suggellando in questo modo la loro grande amicizia. La foto della filanda compaiono spesso nell’album, un casermone di mattoni e finestre incorniciato dal fumo di una ciminiera che verga l’immensità del cielo.
Nell’ultima pagina dell’album, un papavero disseccato posa sopra i nomi delle piccole filerine che uno dopo l’altro sembrano sollevarsi dalla carta come farfalle dalle ali d’inchiostro, la foto di Ida stretta alla sua bambola, chiude la lunga sequenza diimmagini. Appena sotto, in stampato irregolare, distinguo la grafia della nonna: “Questa è Ida, la mia migliore amica!”, ora i miei occhi si fan lucidi. Mia nonna è vissuta a lungo, ha avuto tre figli ed è diventata un’abile ricamatrice, ha riempito numerosi album di giornate faticose ed intense e soprattutto non ha mai smesso di cantare e sorridere! Ida si è spenta giovane, per tubercolosi,di lei rimangono grandi occhi color cacao e un saldo nodo di muscoli sulle pagine pergamenate avorio.
“Nodi, fili, file, fila, filastro, filanda…. filerine!”

Rossella Melotti



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