Racconto premiato di Roberto Silleresi

Con questo racconto è risultato 8° classificato – Sezione narrativa alla XVI Edizione del Concorso Città di Melegnano 2011


Questa la motivazione della Giuria: «Un affresco tragico della società contadina sottoposta all’inclemenza periodica degli elementi naturali, che a causa di un’alluvione vive la miseria più nera. In tale frangente l’intelligente filantropo Enrico, decide di sostentare in modo effettivo la sua gente, costituendo una sorta di banca a zero interessi , con pegni di baratto, e istituendo così una vera salvezza per i diseredati. Tutto viene scritto in un registro verde, un libro nel quale vengono annotati diligentemente prestiti, pegni e risultati. Enrico, imprenditore pragmatico si occupa del popolo con una umanità e una giustizia sociale che il governo non applica in alcun modo, e riesce a ridare dignità, lavoro e sostegno economico a famiglie altrimenti condannate all’assoluta povertà. È proprio questo impegno etico a provocare la morte violenta di Enrico: un sicario mandato dagli strozzini,
ormai senza triste clientela, lo ucciderà in una notte sciagurata, mentre il suo aiutante si ferma per un bicchiere in un’osteria. La narrazione si snoda tecnica e attenta ai temi della solidarietà, fino al lutto del popolo e alla commovente resa dei pegni presso la tomba di Enrico: il popolo ha un gran cuore, direbbe Bacchelli. Ed è questo che cancella l’amaro della morte funesta di Enrico, sotto il segno dell’ingiusta violenza del male, che colpisce spesso proprio chi è un eroe e non sa di esserlo».

Alessandra Crabbia


Il verde libro della solidarietà

Fino a quella sera dannata del settembre 1882 la portata del fiume, per quanto più elevata del consueto, non aveva dato motivi di apprensione e l’alveo continuava a segnare un simbolico confine tra la città patrizia e la città plebea.
La calamità giunse quindi inopinata e repentina, come descrivono i graffiti lasciati sui muri di un alto ricovero sopra la sagrestia della Chiesa di Santa Marta da tale Antonio Ruggeri:
«Il fiume veniva giù rompigliando le ali del ponte Portalegni inondava la Città tutta di qua dal torrente mettendo a fine vino suppellettili e qualunque altro genere di roba da chiesa».
E una chiosa ferale sul sopraccielo: «…piove… quanta acqua… vittime».
In pochi minuti, al cedimento dei parapetti di Ponte Portalegni seguirono la caduta del muro dell’ex Ospedale Militare e quello dell’Orto della Maddalena. Senza protezioni l’acqua si protese fino alla Porta di San Placido: la città vecchia fu completamente sommersa.
Tra il periodo dell’emergenza e il varo di un piano di rifacimento dei ponti storici con annessa risagomatura dell’alveo del torrente trascorsero quasi due anni che divennero sette se calcolati dall’inaugurazione del nuovo Portalegni.
Ed è su questo limbo di tempo che s’innesta l’appartata figura di Enrico: il magazzino eretto ai piedi delle colline, a venti chilometri dal capoluogo, egli era un facoltoso commerciante di materiale edile ad ampio spettro, poiché trattava dalla calce alla pozzolana, oltre a picconi, badili, cazzuole e perfino la falegnameria per il taglio delle travi portanti dei lucernari.
Enrico aveva già vissuto l’esiziale esperienza dell’inondazione; nella mente conservava nitidi fotogrammi del novembre 1868 quando si era recato con suo padre a Parma, dove l’omonimo torrente aveva devastato il laboratorio per la lavorazione della paglia di un lontano cugino.
Per questo possedeva le nozioni indispensabili a garantire un accettabile ritorno alla normalità in tempi ragionevolmente brevi: il primo fattore, l’unico che non si potesse comprare, stava nella solidarietà di quanti erano stati graziati dall’esondazione.
Era, però, da evitare la filantropia “da vetrina”, quella che campeggiava nella prima nota della pubblica sottoscrizione in favore degli alluvionati quotidianamente aggiornata dal giornale locale che l’aveva indetta; per troppi nomi della lista, il fatto che i fondi arrivassero a destinazione o si perdessero nei meandri delle casse comunali rappresentava un fattore sussidiario all’estrinseco splendore del loro gesto.
Enrico, al contrario, sapeva che quegli infelici avevano anzitutto bisogno di strumenti e materiali per riedificare case, cantine, magazzini e botteghe: così, con lo stesso pragmatismo che lo aveva guidato nell’imprenditoria, approntò venti carri di attrezzi, sabbia, laterizi e calce e li fece recapitare nella desolata città vecchia.
Giuseppe, uno degli operai più anziani e fidati, fu incaricato di coordinare il trasporto e compiere periodici sopralluoghi nei borghi cittadini per verificare – dapprima – il corretto impiego delle donazioni e – successivamente – lo stato di avanzamento delle opere di ripristino.
Ultimate le consegne, Enrico volle sincerarsi se quanto offerto avesse risposto alle necessità degli alluvionati; da scrupoloso sottoposto, Giuseppe gli rivelò che i venti carri erano risultati quasi sovrabbondanti.
In realtà, aggiunse, a quella gente mancava solamente il futuro, perché ogni prospettiva languiva sotto strati di acqua e fango e non riuscì a trattenersi da uno struggente affresco della situazione:
«Tutti i borghi circostanti Via San Francesco sono stati invasi dal torrente il cui livello ha toccato i due metri, allagando cantine, magazzini e botteghe. In un soffio, i poveri della città sono diventati autentici indigenti. In settembre depositi e seminterrati erano già colmi di granaglie e frumento e nei tini ribolliva il vino novello: un patrimonio di sopravvivenza spazzato via dalla furia delle acque. Gli ambulanti non hanno più scorte per riempire i barrocci e ho visto artigiani drenare la melma nel tentativo di recuperare qualche ferro del mestiere».
Il resoconto sgomentò Enrico che, sospinto dalla congenita abnegazione annidata nel suo cuore, cominciò a chiedersi in quale altro modo avrebbe potuto ristabilire una parvenza di futuro per gli alluvionati.
Premonendo le parole che Winston Churchill avrebbe rivolto agli Inglesi nel 1940, era conscio del fatto che, in quel frangente, simili persone erano in grado di offrire solo lacrime, sudore e sangue, ovvero merci di scambio senza un’apparente contropartita.
Eppure Enrico non si fermò: nella sua mente, seppure allo stato embrionale, si stava delineando un progetto di sostentamento per il quale aveva già predisposto un registro dall’augurale copertina color verde speranza.
Senza preavviso, Giuseppe si trovò di nuovo tra i popolani a fare la conta dei danni e spargere la voce che un filantropo proponeva prestiti alternativi a quelli del banco dei pegni poiché lo stato di sussistenza in cui erano sprofondati gli abitanti della città plebea impediva loro di avallarsi con beni di valore.
La notizia volò di bocca in bocca ed Enrico, grazie ai rapporti del suo dipendente, ottenne un quadro puntuale dei fabbisogni che gli permise di dare forma al disegno divenendo un pioniere del microcredito, uno strumento di sviluppo economico con il quale avrebbe garantito l’accesso ai servizi finanziari a poveri ed emarginati.
Il concetto di base era elementare perché si basava su un’atavica concezione dell’onore. Enrico avrebbe prestato agli alluvionati piccole somme di denaro (importi che le banche disdegnavano altezzosamente) a tassi d’interesse prossimi allo zero, mentre i beneficiari si impegnavano a rimborsare il debito entro tre anni.
Sapendo che la maggioranza dei richiedenti non era in grado di fornire garanzie studiò contratti differenti per operai e lavoratori autonomi: i salariati dovevano devolvere almeno il due per cento della propria paga al ripianamento del prestito mentre artigiani, bottegai e contadini potevano rispettivamente rifondere il controvalore con manufatti, merci e prodotti della terra.
Vi furono casi nei quali alcuni infelici chiesero di convertire in moneta sonante arnesi da lavoro provenienti da attività dismesse: Enrico li considerava beni fungibili e li reimpiegava come strumento di baratto, al posto del denaro.
Solo davanti a quei rarissimi ninnoli di famiglia che vide esibirsi dai meno sfortunati fu costretto a comportarsi da Monte di Pietà e costituirli in pegno, nelle more della completa restituzione del debito.
Ormai Giuseppe era assurto a coadiutore del capo nell’attività di soccorso: nei panni del cocchiere faceva la spola tra la città, dove stipava la carrozza di indigenti, e il deposito, nel quale Enrico aveva allestito un ufficio dedicato alla missione.
E mentre questi dava ascolto, a turno, ai bisognosi, Giuseppe li intratteneva durante la lunga attesa per poi risalire in cassetta, ultimate le udienze, e ricondurre i postulanti alle loro case.
Quelle persone erano giocoforza accomunate dalla confidente pazienza di giungere al cospetto di Enrico. Sembravano pellegrini votati a un religioso silenzio, come se una parola o un gesto di troppo si potesse trasformare nello spegnitoio dei loro barlumi di speranza.
Non ci fu mai un sintomo di insofferenza per il tempo trascorso in anticamera; tranne le escandescenze in cui diede inopinatamente un giovane in un freddo pomeriggio di febbraio:
«Non ho tempo di aspettare i comodi di quel signore per prendere due soldi di elemosina; avrei impiegato meglio queste ore restando in città a lavorare tra le macerie!»
Giuseppe, vedendo l’uomo dirigersi verso il cortile, gli fece presente che, per rientrare in città con il landò, avrebbe comunque dovuto attendere la conclusione dell’ultimo appuntamento.
«Non ho bisogno di essere accompagnato… vado a piedi!»
Giuseppe, amareggiato da tanta mala creanza, non tentò neppure di fermarlo e ne osservò la figura, intabarrata sino agli occhi, scomparire dietro la prima curva della strada maestra.
Il giovane, invece, proseguì sino alla seconda svolta e, accertatosi di essere ormai fuori portata, svoltò in una carraia mimetizzandosi tra un filare di olmi e lì rimase finché non scorse la carrozza che riportava gli alluvionati verso la città: solo allora, attraverso i campi e col favore dell’oscurità incombente, tornò verso il magazzino.
Giunto a destinazione ne percorse i muri perimetrali per evitare l’incontro con i due mastini che, in precedenza, aveva notato all’interno di un recinto e temeva fossero stati liberati dopo la sirena di fine giornata lavorativa; ma i cani erano ancora rinchiusi e questo spalancava l’accesso verso l’ufficio di Enrico. Si prese un altro paio di minuti per pulire la suola degli stivali sulla lamina di ferro murata vicino all’ingresso ed entrò.
Il filantropo era solito trattenersi per aggiornare la contabilità aziendale, tralasciata per fare spazio all’attività benefica, sino al rientro di Giuseppe: insieme avrebbero chiuso i cancelli e si sarebbero dati appuntamento per l’indomani.
I passi del subalterno che spegneva le lampade ad olio lungo il corridoio costituivano l’implicito segnale a riporre i libri amministrativi; anche quella sera Enrico, udito il calpestio, abbandonò l’ufficio alla fioca luce della lanterna che doveva guidarli sino all’esterno del deposito.
Nella penombra, l’ultima cosa che vide fu un cuscino che esplodeva: uno di quelli messi a decorare i divani dell’atrio e dentro il quale lo sconosciuto aveva premuto la canna di una pistola per attutire, in una sorta di primordiale silenziatore, i due colpi diretti al torace di Enrico.
Poi, da professionista qual era, schiacciò il grilletto una terza volta, coprendo la nuca della vittima con un altro cuscino, per il colpo di grazia.
Pochi minuti dopo si era già dileguato nei campi circostanti, con una felina padronanza del buio.
Faceva davvero freddo quella sera: sugli abiti si era formato un velo di galaverna e Giuseppe, durante il ritorno, cedette al richiamo dell’osteria per un cordiale sciacquabudella, ignorando quale presunzione di auto colpevolezza gli avrebbe generato tale sosta.
Nonostante il delitto si fosse consumato almeno un’ora prima che riportasse il landò nella rimessa, in lui stava per insinuarsi il dubbio irrazionale di aver contribuito alla corsa funesta degli eventi.
Giunse nel cortile e, attraverso le finestre, vide il riflesso dei lumi lungo il corridoio, inequivocabile segnale della presenza del suo padrone in ufficio. Seguendo una procedura mnemonica, sguinzagliò i cani, mise il catenaccio ai due ingressi del magazzino poi entrò nel casamento, dove lo attendeva il macabro rinvenimento del corpo esanime di Enrico.
Paradossalmente la pausa alla taverna si tramutò nel migliore degli alibi e Giuseppe divenne il testimone di riferimento per le indagini soprattutto dopo aver raccontato la teatrale sfuriata dell’assassino, sebbene la giudicasse una contingenza e ignorasse la vera identità del protagonista.
L’episodio figurava l’unico punto di partenza a disposizione degli inquirenti, poiché lo sconosciuto si era certamente dissimulato sotto barba, baffi, palandrana e false generalità, mentre l’andirivieni della giornata aveva creato un mosaico di impronte tale da impedire il riconoscimento di quelle dell’omicida.
Prima di lasciare il luogo del delitto, le guardie sollecitarono a Giuseppe un ultimo sforzo di memoria, cui rispose con un filo di voce:
“Forse è solo una mia impressione ma quell’uomo parlava con uno strano accento: aveva padronanza del nostro dialetto ma la cadenza era ariosa, anzi, molto di più… uno strascico straniero…”
Passarono quasi tre mesi prima che un paio di lucide manette cingessero i polsi del sicario, beccato in una località rivierasca mentre scialacquava la mercede dei suoi delitti.
Escluso il movente della rapina (poiché nulla era stato sottratto dall’ufficio) e vista la fredda sistematicità dell’esecuzione, le indagini si erano presto rivolte al mondo dell’usura: era abbastanza frequente che gli strozzini assoldassero un killer per eliminare i concorrenti.
Enrico, con il suo mecenatismo, aveva sottratto ai cravattari l’enorme bacino di utenza rappresentato dagli alluvionati: per simili banditi ogni calamità naturale è una manna poiché moltiplica gli indigenti ai quali, essendo precluso l’accesso al credito bancario, non resta che lo scampo disperato dell’usura.
Ma Enrico aveva inconsapevolmente interrotto questa trama desolante e la sua popolarità superato la soglia di interferenza: andava eliminato, senza preavviso, e così fu, la sua vita prezzolata a duemilacinquecento lire.
Nemmeno l’epilogo investigativo, tuttavia, persuase Giuseppe della propria estraneità alla vicenda: in preda ad una mansueta follia si recava sempre più assiduamente al camposanto, come se la visita alla tomba di famiglia di Enrico fosse una panacea capace di mondare la sua anima da un peccato mai commesso.
La prima volta, trovando un paio di fiaschi di vino appoggiati all’inferriata che immetteva ai loculi, pensò a una mera dimenticanza del custode; la seconda, quando alle bottiglie si aggiunsero scarpe, camicie, un calamaio in rame e un portaoggetti di legno intagliato, si orientò verso un bizzarro rito di famiglia.
Ma alla successiva, davanti all’ingresso ricoperto da sacchi di granaglie, otri, masserizie e tanti altri oggetti tra cui alcune piccole scatole colme di centesimi, Giuseppe comprese: erano i popolani che venivano a restituire, come da contratto, quanto Enrico aveva loro prestato.
D’impulso corse fuori dal cimitero, salì sulla carrozza e spronò i cavalli al galoppo verso la città deciso a distogliere quei derelitti dall’insano proposito di veder marcire i frutti del proprio lavoro per rispettare un debito che, ormai, rendeva solo onore alla memoria di un defunto.
Fu davanti alla maledetta osteria che Giuseppe ebbe una seconda illuminazione e strinse i pugni sulle redini per fermare la sgroppata. Era estate e faceva un gran caldo ma ordinò egualmente un cordiale; mentre il liquore gli erodeva visceri e gola, ammise a se stesso di non aver alcun diritto per interrompere il pellegrinaggio degli alluvionati.
Anzi ne invidiava la possibilità di mettersi in pari con la coscienza, all’opposto della sua sedicente macchia che neppure una damigiana di sciacquabudella avrebbe mai lavato.
Risalito in cassetta, fece dietro front e si diresse, al piccolo trotto, verso i cimeli del magazzino: perché Enrico era morto scapolo e troppo giovane per pensare al testamento. In cambio gli eredi, animati dall’avido scrupolo della malora, avevano messo all’asta ogni bene, mobile od immobile, il cui ricavato potesse gonfiare i rispettivi patrimoni.
Un amaro sorriso increspò il volto di Giuseppe al pensiero della polvere che ammantava il verde libro della solidarietà e sulla cui copertina il suo padrone aveva incollato un aforisma di Voltaire: «Chi ha paura della povertà non è degno d’avere la ricchezza».
Guardò ad ovest verso il sole e provò un tepore eterno.
Il cordiale aveva esaurito il suo effimero effetto.

Roberto Silleresi



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