Uma Vera

di

Roberto Fumagalli


Roberto Fumagalli - Uma Vera
Collana "E-Books"
 - pp.  - 
ISBN 

eBook: pp. 212 - Euro 8,99 -  ISBN 9791259511430

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In copertina fotografia di Roberto Fumagalli


Un fidanzato abitudinario.

Una madre oppressiva e un padre assente.

Un lavoro insoddisfacente.

La vita di Uma è questa, prima che un pensiero le sfiori la mente, prima che si trovi sul punto di farla finita, abbandonando un passato sempre uguale, completamente diverso dalla sua parte Vera.

Trent’anni vissuti fingendo di essere qualcuno che in realtà non è.

Che sia Vera la sua reale identità?

Che Uma debba rinascere in Vera per sentirsi finalmente sè stessa?

Uma affronta un nuovo percorso, a volte doloroso e trasgressivo, alla ricerca di sé, del proprio corpo, sperimentando una sessualità mai provata ma anche un nuovo lavoro, nuove amicizie…e dietro l’angolo, seduto al tavolo di un bar: Giacomo.

Chi è Giacomo davvero, così educato, introverso all’apparenza innocuo?

Forse abbandonarsi alla conoscenza “dell’altro”, può essere pericoloso?

Il cammino di una donna che per rinascere a nuova vita deve conoscere la parte più oscura dell’animo umano.


Uma Vera


Capitolo 1

La nebbia cerebrale stava invadendo le anse delle ansie mai placate. Il panico le si stava presentando.
Gli avambracci poggiati sul parapetto, la testa sporta, il collo allungato, guardava il fiume, giù, là in fondo. Era alto lì. Uno dei ponti più alti d’Europa. Sotto la strada, in cima a quel ponte, scorrevano le rotaie del treno. Spettacolare, quando il treno lo attraversava, vederlo di lato, come in sezione, con le auto che viaggiavano senza accorgersene, al di sopra. I movimenti della struttura erano ben visibili: oscillava. Camminandoci sopra, nei momenti in cui sotto transitava il treno, da dove ora si sporgeva Uma, tutto tremava, come durante un terremoto.
Uma fissava il fiume, là sotto, e pensava se mai avrebbe avuto il coraggio di lasciarsi andare… giù, dal ponte.
Aveva paura. Avrebbe preferito riuscire a lasciarsi andare a un orgasmo, o lasciarsi andare in ufficio, magari sorridendo, o con un po’ di imbarazzo raccontare tutto quello che aveva voglia di raccontare, dire tutto ciò che non le andava bene o, perché no, spiegare tutto quello che si sarebbe potuto fare perché le cose andassero meglio, così, senza attendere un momento particolare, senza grandi slanci di coraggio, semplicemente presentarsi una mattina e cominciare a essere “lei”, senza astio né paura.
Quando immaginava la propria vita, vista in un film, la percepiva “sciatta”, molle, priva di stimoli: era la controfigura sfigata di sé stessa.
Si sporgeva, si sporgeva senza volersi buttare veramente, si sporgeva e voleva sporgersi di più, avrebbe voluto buttarsi, senza farlo, provare a buttarsi, ma non farlo.
Il malessere che provava era senza scampo, non trovava soluzione a nulla. Se pensava di abbandonarsi a esso, avvertiva un trasporto verso l’infinito che la paralizzava. L’amore, il lavoro, gli amici, tutto le sembrava sciocco, superficiale, già visto, non provato. Come era possibile che la gente ci credesse veramente? Come non potevano accorgersi dell’assurdità di quella vita? Come potevano non rendersi conto di quanto fosse visibile la loro finzione?
La solitudine la spaccava in due, dentro, gli amici, le conoscenze, la sua vita: una farsa.
Un ragazzo, abbastanza insignificante, vestito come mille altri ragazzi, le si avvicinò, chiedendole che cosa facesse di bello, lì.
«Vorrei buttarmi ma non riesco a farlo, il parapetto è troppo alto, mi dai una mano a oltrepassarlo?».
«Perché no» rispose lui, facendole un piolo con le due mani unite a coppa, verso l’alto, le dita intrecciate tra di loro.
Lei rimase in silenzio. Sorrise. Non riusciva a ragionare. Sorrise nuovamente. Anche il ragazzo sorrise. Tremava dentro, ma non appariva fuori. Appoggiò un piede nelle mani di lui e, sporgendosi più che mai, s’avvide dell’altezza di quel ponte da cui aveva visto tanti ragazzi gettarsi con indosso l’imbracatura e quegli elastici enormi fissati alle caviglie, urlando, e sfiorando l’acqua del fiume con la testa, per poi ritornare verso l’alto, più in alto, e ricadere nuovamente. Li fissava sperando che un elastico si rompesse, inconsciamente, per vedere il corpo di qualcuno accartocciarsi dentro sé stessa.
Adesso poteva finalmente sentire, anche se per un attimo, e vedere quella scena… col suo corpo.
D’improvviso la mente si spense e il silenzio riempì il suo corpo, l’angoscia e l’adrenalina, che erano in lei quel giorno, calarono a zero, si sporse ancora un pochino e come d’incanto la quiete totale la pervase: serena si lasciò cadere…
Lo strattone alla cintola dei calzoni, trattenuta da lui, la risvegliò di colpo. Si voltò, lo vide davanti a sé, insignificante, sguardo terrorizzato per quello che aveva appena sentito: lei si era buttata, lui l’aveva tenuta avvertendo quanto quel gesto non fosse più stato uno scherzo. O si era fidata ciecamente di lui, pur non conoscendolo, o lui le aveva salvato la vita, perché se l’avesse preso davvero come uno scherzo, e non l’avesse tenuta stretta, lei sarebbe precipitata. Lei l’aveva capito pienamente: dopo. Rabbia furente, lucida follia, l’accecarono. Il ginocchio partì, da solo, colpendolo, sotto lo stomaco, facendogli mollare la presa della mano, ancora infilata nella di lei cintola, nel retro della schiena, che l’aveva costretto a una posizione innaturale, con il polso storto. Libera, Uma Vera, cominciò a sferrare pugni, pugni e calci, abbassando la testa d’improvviso, come posseduta da un’altra forza, gettandosi in avanti. Lei era la poverina, non avrebbe avuto la forza di massacrare un maschio, no poverina, il sangue sulla sua testa lo testimoniava, anche se quando si pulì si avvide di non avere nessuna ferita… non era colpa sua.

[continua]


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