I racconti e i loro giochi

di

Roberto Colasanti


Roberto Colasanti - I racconti e i loro giochi
Collana "Le Schegge d'Oro" - I libri dei Premi - Narrativa
14x20,5 - pp. 72 - Euro 9,00
ISBN 9791259511799

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In copertina: «Giocare con le bolle e il tempo» di Roberto Colasanti e Gian Marco Sibilia


Pubblicazione realizzata con il contributo de IL CLUB degli autori in quanto l’opera è segnalata nel concorso letterario Jacques Prévert 2022 sezione narrativa


Roberto Colasanti propone una raccolta di otto racconti che si intersecano e plasmano tra loro al cospetto delle diverse esperienze esistenziali.
La narrazione offre una galleria di personaggi esemplare: un uomo, costantemente in “conflitto con sé stesso”, si trasferisce in campagna alla ricerca della pace e della solitudine, ma continuerà a fare i conti con i “limiti dei suoi sentimenti”; un altro protagonista avverte che, ormai, il suo rapporto con la moglie è diventato un “groviglio inestricabile”, ma un evento inaspettato stravolgerà la sua convinzione; un altro ancora è totalmente proteso a “guadagnare sempre più”, ma si sente costantemente insoddisfatto ed inappagato, e via dicendo.
Grazie ad una scrittura coinvolgente che pone al centro della sua intenzione letteraria la ricerca del senso autentico della vita, si giungerà alla considerazione finale che metterà in evidenza come le molteplici “distrazioni” esistenziali e la costante propensione a ricercare solo il lato materiale della vita, distolgano dai valori fondamentali dell’esistere.


Massimo Barile
presidente del Premio letterario
Jacques Prévert 2022 sez. narrativa


I racconti e i loro giochi


IL CASALE

“Se si è consapevoli dei propri limiti, si è liberi di conoscere sé stessi e tramite suddetta conoscenza, si possono muovere un poco più in là, i propri limiti personali”.
Questo scritto fu trovato nella soffitta di un casale che Roberto Mori aveva comprato ad un’asta comunale. Lo stabile era rimasto disabitato da anni e chi ci viveva un tempo era morto e non avendo lasciato testamento e non avendo eredi, la proprietà passò di appartenenza al comune che mise all’asta in due lotti la casa e i terreni. Del morto non si sapeva molto. Era un contadino di nome Giuliano Colti che viveva di ciò che produceva nei campi, era un solitario, molti lo definivano strano e poco socievole. Comunque il nuovo proprietario, Roberto Mori, aveva acquistato solo il casale, chiamò una ditta edile che lo restaurò, modificò l’adiacente stalla in studio dove Roberto Mori dipingeva, scriveva monologhi, racconti e altro per la televisione. Aveva fatto montare nella sala pittura degli enormi aspiratori che toglievano il cattivo odore della trementina, anche se la zona pittura e lo studio dove scriveva erano separati da una parete. Poiché la casa era adiacente alla zona studio, decise che gli aspiratori avrebbero aiutato la convivenza con la pittura, e per finire fece recintare il perimetro della sua proprietà con una rete.
Aveva finito per rendere il casale confortevole alle sue necessità. Roberto, comprando la proprietà si era finalmente liberato della città, delle malsane amicizie e dallo smog che erano diventati troppo soffocanti. Qui in campagna credeva di trovare quella pace tanto desiderata e infatti a primo impatto gli sembrava di esserci riuscito. Si sdraiò su dei cuscini del divano imbottiti di piume d’oca, davanti ad un camino scoppiettante che illuminava le pareti bianche di una stanza con mobili e quadri scelti con cura e di buon gusto. Il silenzio era totale. Al punto che qualunque rumore proveniente dal camino lasciava un segno nel pensiero di Roberto che rivedeva nella sua mente le passate esperienze che lo avevano spinto a cercare la pace e la solitudine. La casa aveva molta terra coltivata biologicamente tutt’intorno e l’abitazione più vicina era quasi ad un chilometro di distanza in linea d’aria. «Pertanto, sono isolato» si diceva Roberto «Non ci avevo pensato prima, forse è vero, vorrei isolarmi ma se questo vuol dire vivere in pace che ben venga!»
Roberto aveva fatto montare dei pannelli fotovoltaici per produrre corrente elettrica a sufficienza sia per cucinare che per il fabbisogno generale del casolare. L’acqua veniva prelevata dal pozzo, una volta depurata e aveva fatto costruire un sistema di smaltimento naturale per le acque nere e bianche. Tutto questo aumentava sia lo stato di indipendenza che lo stato di isolamento. Ma siccome il silenzio che circondava il posto faceva aumentare un senso di pace nella vita di Roberto, la solitudine scomparve sotto la cavalcante voglia di produrre quadri e scritti.
Spediva il suo operato ad un agente, il quale gli faceva pervenire i profitti del suo lavoro, con cui riusciva a vivere a suo agio nella tranquillità della sua casa. La meccanica ripetitività con cui produceva le sue opere con il tempo cominciò a far sorgere un dubbio: “Quando è che un’opera può considerarsi finita?”. Si domandò quasi giocando. Ma in fondo un gioco non era, perché questa domanda cominciò a mettere in discussione i suoi lavori al punto da diventare una spina nel fianco. Siccome non trovava risposta a questa domanda, cominciò a ridurre la quantità di opere portate a compimento lasciando aumentare quelle incompiute.
Davanti al caldo fuoco del camino acceso, Roberto si era sdraiato sul suo divano preferito, arrotolato in una coperta. La legna ardeva e bruciando, brontolava con qualche scoppiettio mentre l’artista si rivolgeva la solita domanda: “Quando è che un’opera è finita?”. Le risposte che si inventava non lo aiutavano a farlo uscire dal dilemma. Proseguiva chiedendosi perché non avesse mai avuto questa esitazione nel passato. Quando finiva di produrre le sue opere le metteva lì, pronte per essere spedite, quasi soddisfatto di averle concluse. Ma ora era diverso, c’erano le opere incompiute, come le definiva lui, e che non voleva spedire. Guardava la legna che bruciava e le fiamme alte che pian piano si riducevano a tratti fino a non esserci più, rimaneva solo il rosso delle braci sotto la legna che stava per spegnersi per mancanza di alimentazione. Roberto era preso da questo rosso del fuoco che lentamente allontanava i suoi pensieri e il bisogno di cercare risposte; ciò che vedeva calmava il suo cervello. Quel poco di rosso del fuoco rimasto fece sì che le palpebre divenissero pesanti e socchiudendosi coprirono lentamente la vista; fino a chiudersi totalmente in un abbraccio. La luce rossa ora con fatica allontanava il buio che pian piano si impadroniva del panorama, dandogli come una tregua e aiutandolo a sfuggire alla sua frustrazione. Il sonno lo avvolse come la coperta che aveva addosso, lasciandogli la sensazione di un ricordo lontano, di un essere umano che lo teneva stretto al petto con le sue forti braccia. Intanto gli anni passavano, combattuto tra la voglia di spedire qualche opera, la necessità di contante e il rimorso di averle messe in vendita; ma questo rimorso ogni volta cessava quando vedeva il denaro che derivava dal suo operato.
Una mattina si alzò più presto del solito e dalla cucina, guardando fuori dal fitto della nebbia, vide un cinghiale che attraversava la sua proprietà camminando con sicurezza, grugnendo e sgrufolando nell’orto le tenere foglie di insalata, le carote, le patate e calpestando il seminato senza curarsi di chi fosse. La voglia del cinghiale di saziare la sua fame lo spingeva a nutrirsi e l’istinto di preservazione dell’animale era vivo in quello che stava facendo. Gli vennero in mente di nuovo i suoi lavori ma con uno scatto di rabbia aprì la finestra, urlò qualcosa e il cinghiale fuggì, ma il danno era ormai fatto. Guardò lo scempio che il cinghiale aveva fatto e pensò a chi con tanta cura aveva piantato le verdure, i legumi e curato l’orto, Maria.
Maria era la governante di Roberto, era a suo servizio per tre giorni alla settimana per aiutarlo a non cadere nel disordine e mantenere sia lui che la casa puliti, erano quattordici anni che Maria si interessava, sotto compenso, al benessere di Roberto; aveva preso servizio un anno dopo l’acquisto del casale perché lui non era in grado di accudire né la casa né sé stesso. Maria, una donna semplice e rispettosa, gli era rimasta subito simpatica, forse perché anche lei era innamorata del casale. Il primo giorno, Maria si guardò intorno e disse: «Il casale che fa innamorare!» Roberto ricordò quando lo aveva visto per la prima volta, anche se in uno stato pietoso, Roberto era riuscito a percepire sia la bellezza che la sua accogliente semplicità e con l’aiuto di Maria divenne sempre più piacevole viverci.
La porta di casa si aprì, era Maria che veniva puntuale come sempre a svolgere il suo lavoro. Lo faceva con metodicità, con movimenti armoniosi, alcune volte svelti e altre volte lenti, specialmente in cucina quando lavava i piatti o cucinava. Alcune volte cantava, quasi sottovoce e chiamava Roberto “Signor Mori” era piacevole averla intorno e sentire la sua presenza. Roberto aveva fatto dei disegni su dei fogli che raffiguravano Maria, senza farsi notare da lei, ma non era riuscito ad immortalare sulla tela quei movimenti fugaci e armoniosi che Maria faceva naturalmente. Quegli stessi movimenti che vedeva anche negli uccelli, in tutti gli animali senza però riuscire a disegnarli. Un giorno d’inverno mentre prendeva il sole sulla veranda vide due lepri che giocavano e visto che portava sempre con sé un potente cannocchiale, li inquadrò nel tondo del binocolo. Osservò i loro guizzi, i salti, gli inseguimenti, maestosi nella loro esecuzione. Con una forza invisibile, lo slancio giocoso (che alcune volte si vede nei bambini) di chi non vuole vincere sull’altro ma il gioco che con la sua fluidità, non stanca i due giocatori ed emoziona e ammalia chi li osserva. Roberto cercò di riprodurre quello che aveva visto su un foglio da disegno, ma per quanto ci provasse non riusciva a riprodurre ciò che vedeva nella sua mente. “L’inafferrabile armonia di quell’azione!”. Così aumentarono le opere incompiute.
Questo suo limite e questo suo conflitto lo tennero sveglio per notti intere e pian piano perse la voglia di disegnare, di dipingere e di scrivere. Il suo agente lo spronava a dargli dei lavori, così Roberto per accontentare sia i suoi creditori che il suo agente spedì alcuni suoi quadri. Dato che Roberto definiva queste opere “non finite”, si stupiva quando queste venivano vendute. Così la vita proseguiva nello sforzo di migliorarsi e nell’impossibilità di riuscirci.
In questo conflitto, Roberto stanco di non arrivare alla sua meta, si convinse per non impazzire, che le sue opere “semi finite” fossero invece concluse. E le spediva. Ma non sapeva che così facendo si stava immettendo in una strada in cui denigrando i suoi sforzi, sminuiva sé stesso. La sua coscienza, sotto forma di rimorso, lo accusava di falsità contro le regole dell’arte. Non voleva accettare di essere arrivato al limite della comprensione della sua arte e soprattutto non capiva quale fosse la soluzione da prendere per uscire da questo labirinto in cui lui stesso si era incamminato, senza conoscersi abbastanza.
Aveva sessantotto anni e il giorno del suo compleanno non lo aveva detto a nessuno, neanche alla sua governante. Ma qualcuno se ne era ricordato, una sua vecchia fiamma, la quale non trovando il suo indirizzo aveva mandato la lettera al suo agente che gliela fece prontamente recapitare. Lo scritto diceva: «Caro Roberto, mi sono imbattuta per caso in una tua opera e mi sei venuto in mente un’altra volta, come quando ci siamo incontrati per la prima volta. E devo ringraziarti di avermi lasciata, perché dopo di ciò, ho potuto trovare un uomo che mi comprendesse e mi amasse e da cui ho avuto due figli che sono la mia gioia. Nel limite dei tuoi sentimenti io ho trovato la mia felicità, grazie e buon compleanno, Diana».
Roberto lesse e rilesse queste poche righe della lettera di Diana, poi la piegò e la inserì nel suo taccuino, si sedette sul suo divano preferito e ricordò quel viso e quegli occhi, quella bocca, quei capelli morbidi, quel corpo sinuoso, quelle gambe dritte e lunghe, quella pelle morbida e profumata e poi quella voce che voleva imprigionarlo in una rete di piacere e oblio. Ogni volta, dopo averla posseduta e aver placato in parte la voglia di lei, sentiva il bisogno di cercare dell’altro, purtroppo per lui senza mai riuscirci. Quella lettera lo aveva messo in discussione con sé stesso, si ripeteva. “Nel limite dei tuoi sentimenti”, era la frase limite che come una sbarra messa a leva sui cardini della porta chiusa dei suoi sentimenti, li stava scardinando. Si sentiva e male non riusciva a dormire. Si andò a sedere sulla panca nel portico, stanco, demoralizzato e per lo più solo. Osservando degli uccelli in volo, vide uno di questi che portava con il becco un insetto, verso un albero vicino al portico, dove la sua sposa covava le uova. Questa visione passò quasi inosservata perché era ancora tramortito da tutto quel pensare e dalla notte passata in bianco, cercando di trovare scusanti nella speranza di fuggire o trovare la soluzione a questo incubo. Poi nel campo visivo riapparve il nido e vide che chi covava volava via e chi portava il cibo adesso era nella posizione di covare. Rimase silenzioso e pensieroso per un tempo imprecisato, quando vide che l’altro volatile tornava indietro con un insetto nel becco e lo dava all’uccello che covava, in uno scambio di cinguettii. Pensò all’evoluzione, all’istinto degli animali. Pensò che anche l’uomo aveva qualcosa a che fare con la conservazione della specie. Gli vennero in mente dei bambini che giocavano con le loro madri e i loro padri; anche lui avrebbe voluto averne, ma che difficoltà accudirli! “La responsabilità” ecco la parola che avrebbe fatto cedere la pesante porta chiusa dei suoi sentimenti.
Non gli era chiaro ancora perché. Fuggiva l’evidenza e si nascondeva dietro delle scuse, ma se avesse accettato sia il suo limite personale che le sue responsabilità avrebbe fatto cadere quella massiccia porta, che secondo lui era invalicabile, ma che in fondo era solo un foglio di carta, per chi la osservava dall’esterno, che avrebbe ceduto facilmente sotto le brezze dell’accettazione e della conoscenza del suoi limiti personali. Così, tra il raccontarsi bugie e vivere nel conflitto della sua incapacità di produrre opere compiute, la vita scorreva come sempre. Il suo agente gli fece sapere che volevano trasformare un libro che parlava dell’uomo, in uno sceneggiato televisivo. Era un lavoro che aveva svolto altre volte, così accettò. Si mise al lavoro e meccanicamente trasformò il detto libro in un copione. Lo spedì credendo di aver finito con questo lavoro. Dopo qualche giorno dalla consegna, ancora contento del suo operato notò che c’era una cosa che gli era rimasta nella mente, come uno schiocco di un ritorno di frusta; “L’uomo ha la sessualità e la forza. La sessualità per riprodursi e la forza per difendere la sua prole, questo è il suo vivere che si trasforma in responsabilità verso la vita”. Afferrò il libro che stava leggendo poco prima e con attenzione andò a soffermarsi su alcune citazioni. “Conosci te stesso”, certo questa frase la conosceva, “Conosci i tuoi limiti”.
Gli tornò in mente come un tuono a ciel sereno la lettera di Diana, la tirò fuori dal suo taccuino, la rilesse più volte e lentamente iniziarono a delinearsi nella sua mente delle immagini della sua vita che come dei flash apparvero abbagliando la sua mente. Rappresentavano il suo modo di comportarsi nei confronti degli altri, i suoi limiti personali, le scappatoie che trovava pur di non affrontare le sue responsabilità, l’impossibilità di terminare i suoi disegni e le pitture, giravano in un vortice che finivano in un imbuto, facendogli capire il suo limite personale; che era tra l’altro la mancata conoscenza di chi veramente fosse. E a quel punto, lacrime amare gli scesero giù fino alle guance, le asciugò con i palmi, singhiozzando e osservando le sue mani bagnate, gli sembrò che tutte le sue frustrazioni e i suoi limiti personali fossero socchiusi in quel liquido salato.
Accettare sé stessi è un procedimento lento anche quando si crede di aver capito i propri limiti personali. Così tra errori e cambiamenti qualcosa si aggiustò in Roberto. Infatti completò alcune opere con fatica ma nella sua mente rimase sempre quell’immagine, quel segno che, né su carta, né su tela, riusciva a imprimere completamente, come se la matita o il pennello non rispondessero ai suoi comandi; si disse giocando: «Che questa inafferrabile meravigliosità di un’azione, sia la matita che il pennello non sa tracciare!»
Sì, aveva tracciato qualcosa ma non era riuscito a riprodurre completamente quel movimento che sorprende. Stava sorseggiando una limonata fatta da Maria per rinfrescarsi nella calda giornata di mezza estate. Guardava all’orizzonte. Vide su un piccolo promontorio a circa trecento metri in linea d’aria delle persone che danzavano, si sentiva a malapena la musica, prese il suo cannocchiale e inquadrò le danzatrici, sembrava che facessero delle prove, forse per uno spettacolo. Ve n’era una in particolare che si muoveva con grazia e armonia. Tutte le altre ballerine si sedettero improvvisamente e lei danzò da sola, con movimenti gentili, come di una piuma che cadendo da un nido, lentamente si rialza, scarta su un lato, piega a dritta, ondeggia e lentamente plana a terra spinta da una invisibile energia, proprio come la danzatrice e i suoi movimenti armoniosi; senza sforzo evidente ipnotizzava, affascinava ed incantava chi rimaneva a guardare i suoi giocosi e sensuali movimenti. Qualcosa come una corrente prese vita in Roberto, giunse alle sue mani, afferrò il blocco da disegno e la matita. E con armoniosa sicurezza tracciò sul foglio bianco quel meraviglioso, ora afferrabile, movimento. Fluttuava nella sua mente da tempo e adesso finalmente era arrivato al suo cuore, aveva afferrato quel tratto e aiutava la mano a tracciare quel solco tanto desiderato. Il sole stava per tramontare e una brezza fresca passò sotto la veranda. Roberto socchiuse gli occhi, gli ultimi raggi del sole erano visibili al di là delle palpebre, ormai chiuse in un rosa soffuso che pian piano col calar del sole veniva spento dal nero della notte. Che come un sipario chiudeva, calando dall’alto, l’ultimo atto di una scena teatrale. Roberto Mori non lasciò alcun testamento e non aveva degli eredi. Il casale divenne di proprietà del comune che lo mise in vendita all’asta.

[continua]


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