Opere di

Roberto Celani

Con questo racconto è risultato 2° classificato – Sezione narrativa alla V edizione Premio di Scrittura creativa Lella Razza 2009


Solidarietà femminile

Una passatina di lucidalabbra, un po’ di rimmel e qualche goccia 
di profumo.
Anche stamattina non c’è tempo per altro. Come al solito, sono in ritardo per la battaglia quotidiana.
Da un mese sono arruolata anch’io nel numeroso esercito dei Co.Co.Pro.
Lavoro in outbound in un call-center per un sondaggio sulla “condizione femminile in Italia”, che ha come target donne dai 20 ai 60 anni. Sono una protagonista della new-economy.
Ma per mio padre, operaio in pensione, sono solo una centralinista laureata ma precaria.
Infilo stivali e piumino e, prima di chiudere la porta alle mie spalle, guardo con apprensione il post-it che mi ricorda l’imminente scadenza del canone d’affitto.
Fuori il novembre romano è tiepido e l’estate di San Martino non sembra affatto una leggenda. Invita a passeggiate senza meta. C’è solo il tempo di scacciare il pensiero.
Duecento metri di slalom a passo svelto. Ventimila centimetri percorsi tra passanti altrettanto frettolosi e una babele di offerte di venditori. Accendini e bigiotteria, portafortuna e fazzoletti, foulard e calzini schivati con consumata abilità, fino al sottopassaggio della Metro che m’ingoia come al solito. Nel suo ventre m’accoglie un odore di stentata umanità, dolciastro e acido al tempo stesso.
Superati i varchi e lo sguardo distratto del controllore, percepisco uno spostamento d’aria e una vibrazione sempre più intensa. Il treno è in arrivo, non posso perderlo. Mi getto sulla scala mobile correndo sui gradini. Mi sembra di volare. In fondo, il display lampeggiante segnala la presenza del treno in stazione. Ci sono quasi, solo pochi metri mi separano dal vagone arancione, fermo sulla rotaia come una bestia ansimante. Ancora tre o quattro passi. Come un’atleta sul filo di lana mi preparo al rush finale. Balzo avanti in modo scomposto, mentre il segnale sonoro indica la chiusura delle porte. Un ultimo colpo di reni e lo sbuffare del meccanismo pneumatico è alle mie spalle.
Ora intorno a me c’è solo indifferenza di pendolari e posso abbandonarmi ad occhi socchiusi sopra un sedile, mentre il convoglio prende velocità cullandomi energicamente. Sul sedile di fronte, il proprietario senza volto di un quotidiano mi regala la lettura dei titoli economici. Sulla carta color paglia risalta il titolo dell’articolo di fondo: 17 anni fa cadeva il Muro. Non sono superstiziosa ma quel numero sembra un presagio.
Ho ancora il fiato un po’ grosso quando il suono lamentoso di una fisarmonica si avvicina. Il ragazzo dal colorito olivastro avrà circa quattordici anni e la bambina accanto a lui non più di otto. A gambe larghe per mantenere l’equilibrio di fronte a me, il primo mi guarda con lo sguardo scaltro e disincantato di chi quel palcoscenico lo calca tutti i giorni, mentre la sua piccola compagna di strada allunga ammiccando la mano con un bicchiere di plastica. Dentro solo alcuni spiccioli: all’incirca l’equivalente di mezz’ora del mio lavoro. Faccio segno di no con la testa e loro impassibili passano oltre.
Quando giungo davanti alla sede di lavoro vedo il solito presidio di precari organizzati. E la voce di Caparezza dall’altoparlante mi ricorda che se “Vuoi fare il cantante? Ti servirà una spinta. Vuoi fare l’assessore? Ti servirà una spinta. Vuoi fare carriera? Ti servirà una spinta. Sull’orlo di un burrone avrò bisogno di una spintaaaaa.”
Guardo l’orologio, due minuti dopo le dieci. Arriverò in ritardo. Mi è già capitato due volte nell’ultima settimana. Accelero il passo.
Uno dei ragazzi del presidio mi vede e tenta di sbarrarmi la strada con un sorriso molto convinto dei propri mezzi. Allunga la mano con un volantino dicendomi: “Almeno leggilo.” E insieme alla mano allunga anche lo sguardo. Nella mia scollatura.
Mentre m’’infilo nell’atrio lancio un’occhiata alla fotocopia sbiadita che ho in mano.
La caricatura di una martire a sei braccia con cuffietta da centralinista mi guarda dal foglio. Accanto uno slogan: Esorcizza il tuo Io precario, grida i tuoi desideri! San Precario li esaudirà. Porta i tuoi amici ed amiche precarie.
Lo piego ficcandolo in tasca senza finire di leggerlo.
Meglio che il mio team-leader non lo veda.
Entro. È già lì ad aspettarmi davanti alla postazione vuota. “Quindici minuti di decurtazione” recita come da copione la sua voce, con la solerzia propria dei mediocri saliti di un gradino. Faccio finta che non abbia parlato.
La sala C è rischiarata dalla luce asettica del neon e risuona di decine di voci sovrapposte. Un alveare con le sue cellette e tante api ronzanti e laboriose.
Mi siedo in postazione. Intorno a me ora il divisorio è un piccolo ma invalicabile muro azzurro che nessuno sogna di abbattere. A un solo metro le altre operatrici sono solo voci.
Inizio a scorrere il lungo elenco. Dieci minuti a telefonata, venticinque telefonate in quattro ore. Questa è la media da tenere.
Ed io sono brava, con la mia voce calda e rassicurante. Proprio brava e convincente.
Non lo dico io, lo dice CATI. È il sistema di misurazione digitale dell’azienda. La versione postmoderna del cronometrista della catena di montaggio.
Con gentilezza e cordialità riesco sempre ad ottenere rapidamente le risposte dalle intervistate. Il questionario sullo schermo si riempie così di crocette preziose per la statistica, e intanto il tempo passa.
Ho già nel carniere una decina di telefonate. Anche oggi sono in perfetta media ed affronto la successiva chiamata.
Dall’altra parte del filo stavolta la voce è quella di una donna matura.
«Pronto, sono Valentina della Axesia».
Esita un attimo, poi risponde che mi chiamo come sua figlia. Bene, il contatto umano è stabilito. Sarà facile anche con lei.
Le spiego allora di cosa si tratta e le chiedo l’autorizzazione a continuare. Quando accetta, la sua voce sembra incrinarsi, ma forse è solo una mia impressione.
Dopo l’informativa di rito sulla privacy e le domande d’introduzione, è il momento del quesito sulle eventuali violenze subite. La risposta tarda a venire.
Le ripeto allora la domanda, dopo essermi assicurata che sia ancora all’apparecchio.
Il suo «Sì…» è poco più di un soffio. «Non l’ho mai raccontato a nessuno» aggiunge subito dopo.
Sento crescere uno strano disagio dentro di me e provo la stessa spiacevole sensazione di aprire la porta di una stanza buia.
Ora procedo con prudenza. Le chiedo dove è accaduto. E, mentre le sto leggendo il ventaglio di risposte predeterminate, lei m’interrompe: «Al lavoro!». E mi colpisce la nota senza misura della sua voce, oscillante tra sussurro e grido.
Ha il respiro affannoso. Non attende la nuova domanda e precisa: «Nel retro del negozio dove lavoravo…».
Inizia così il suo racconto.
Inizia e non si ferma più.
Parla di mani.
Mani rozze e avide da bottegaio, che toccano un corpo di donna come soppesassero merce. Mani di un mostro tentacolare. Artigli di bestia. Che lacerano indumenti e dignità al tempo stesso. Mani che spogliano, frugano, depredano. Anche l’anima. Mani di maschio padrone. Mani antiche, di braccia perse nella notte dei tempi, nell’antro di caverne buie e maleodoranti…
Ascolto in silenzio.
Altre mani, quelle del caposala mi segnalano con gesti secchi il superamento del tempo massimo. Uno sguardo al contatore accanto al numero chiamato. Trentatrè minuti: una eternità.
Ora dalla voce della donna sto ascoltando un racconto sempre più convulso, brutale e rivoltante, descritto fin nei minimi particolari.
Sembra un rito liberatorio rinviato da chissà quanto tempo.
Sento dentro lo stomaco la tortura di quella cronaca violenta. Mi sembra quasi di percepire sulla mia pelle l’alito caldo e il respiro ritmico e sempre più sordo di un uomo.
E mi accorgo di piangere solo quando il racconto strozzato mette in scena l’oscenità appagata di un rantolo.
C’è il caposala ora alle mie spalle. Mi urla di chiudere. Lo guardo sbalordita.
Vorrei serrare in un abbraccio il pianto liberatorio all’altro capo del filo. Vorrei carezzarlo e dire tante cose, ma le parole si spezzano in gola ancora prima di formarsi.
Sto iniziando a balbettare qualcosa quando il team-leader interrompe la comunicazione.
Lo guardo come se lo vedessi per la prima volta. Ha mani grandi e tozze.
Lo spingo via mentre mi strappo di dosso la cuffietta.
E con quella, l’indifferenza, l’insensibilità e tutta la spietata inumanità di quel luogo di clausura e dei suoi manichini parlanti.
Corro già quando la porta sbatte violentemente alle mie spalle.
Fuori il cielo sembra ancora più limpido. È una splendida giornata per passeggiare.
Ora sono libera di farlo.


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