Opere di

Roberta Campisi

Con questo racconto è risultata 11^ classificata ex aequo – Sezione narrativa alla XVIII Edizione del Premio Letterario Internazionale Marguerite Yourcenar 2010


Il treno

Si stava facendo buio, la notte prepotentemente sgomitava tra le ultime luci di un giorno splendente, l’uomo dal volto triste aspettava pazientemente seduto sulla panchina della stazione che il treno che l’avrebbe allontanato dai suoi affetti arrivasse lento e silenzioso per portarselo via. Aveva scelto in fretta il suo destino, il lavoro diceva, l’occasione per riabilitarsi agli occhi di tutti, ma dentro di s… la consapevolezza di non riuscire ad affrontare quella quotidianità difficile fatta di continui esami e prove per vedere se effettivamente la sua anima malata nei confronti della vita avesse preso una piega diversa dall’anno prima in cui c’era mancato un attimo che il vento di Settembre se lo portasse via per sempre come le foglie quando si staccano dall’albero che per tanto tempo le ha nutrite e protette per scivolare velocemente a terra.
Unico punto fermo in tutta questa storia era lei che sempre aveva vegliato su di lui e in ogni momento aspettato con forza e rabbia perché sicura che lui e solo lui fosse l’amore vero. Perché allora non rimanere? Se l’era domandato più volte, lui che solitario e libero, percepiva un legame profondo e particolare con quella persona… Lui che per anni aveva scelto lei, lei che per anni aveva voluto lui.
Un bambino passava con il suo gelato al limone, la bocca sporca e la lingua pronta a cercare ogni milligrammo di quell’essenza così magica e fresca. Ecco, il bambino! Velocemente la sua mente come il rewind di un nastro che a tutta birra si riporta nella posizione iniziale, ecco cos’era, il suo desiderio non realizzato di essere padre, di poter dire, questo è mio figlio, il mio divenire… Già… cosa vuol dire divenire? Essere, credere, mostrare… Verbi, tempi infiniti, vorrei, condizionale, mi sarebbe piaciuto.. Chissà cosa il destino gli avrebbe riservato se durante la sua giovinezza non si fosse perso in quella via tortuosa che era stata la sua vita, false speranze, gioie, dolori, e lei… la Signora. Audace, spregiudicata, invincibile, capace in un attimo di farti diventare re e schiavo contemporaneamente, non più ’ padrone di nulla, nemmeno delle tue emozioni, le stesse che per un carattere un po’ introverso aveva spesso soffocato e dimenticate in un cassetto… Fantasmi di tutti i colori e di tutte le fattezze, e poi ancora lei, la Signora, sempre più bella, sempre più imponente, che faceva a gara con le sue paure e debolezze, e più le appariva sovrana, più lui cadeva nella sua trappola mortale.
Un brivido… La fronte improvvisamente imperlata di tanti piccoli cristalli ghiacciati, il chiacchierio dei pendolari lontano e di nuovo il bambino che questa volta era fermo immobile davanti a lui e lo fissava quasi fosse un marziano. Istintivamente si portò la mano alla fronte con un gesto quasi vergognoso, lo stesso movimento che l’aveva accompagnato per tanti anni quando la gente si domandava come mai si potesse sudare in quel modo perfino in pieno inverno. Lei non gli aveva lasciato campo, era come un’amante improvvisamente impazzita al solo pensiero di poter essere messa da parte, e quel sudore, quella vergogna erano i segnali che questa cosa non doveva e non poteva succedere. Si vide riflesso nello specchio del finestrino di un pendolino che passava veloce senza fermarsi e non si riconobbe.
In quella frazione di secondo vide un uomo vecchio e stanco, il volto segnato dalla vita passata così prepotentemente sul suo corpo, quasi ad imporgli dei segni indelebili e incancellabili.
Si alzò di scatto, diamine, stava sognando ad occhi aperti, lui non era così, aveva sbagliato è vero, ma aveva capito, era cambiato, adesso finalmente poteva essere l’uomo che la sua donna aveva sempre voluto diventasse, libero da ogni legame, vincolo, compromesso, capace di amare come solo lui sapeva fare, in grado finalmente di poter stare al suo fianco a testa alta guardando il mondo con occhi diversi.
Il capostazione alzò frettolosamente la paletta per far partire il treno che sbuffava nervosamente facendo allontanare dalla pensilina gli ultimi ritardatari che volevano a tutti i costi salire con borse e valigie, incuranti del comando dell’uomo in divisa, il capo indiscusso di quella piccola stazioncina di paese che nervosamente apostrofava quel popolo di viaggiatori ribelli intimandogli l’allontanamento immediato. Lui invece passeggiava avanti e indietro trascinandosi il suo trolley, visibilmente vuoto, due camicie, un paio di jeans e la divisa da lavoro.
Dall’altoparlante della stazione l’annuncio del ritardo del treno, bene disse tra sè, un bell’inizio proprio, sicuramente non sarebbe arrivato in orario, e già cercava una scusa da raccontare al suo nuovo datore di lavoro, trovato su internet attraverso un annuncio pubblicato centinaia di volte. Ancora si ricordava quel giorno in cui aveva visto apparire la mail nella quale il ristoratore domandava notizie su di lui, gli diceva di essere interessato e gli dava appuntamento alla settimana successiva. Felicità istantanea, finalmente un lavoro dopo mesi e mesi di inattività, e la faccia di lei quando le aveva comunicato che sarebbe dovuto partire, il sorriso che da sempre la caratterizzava improvvisamente spento sul volto, una smorfia di disappunto che aveva cercato prontamente di nascondere e poi la rassegnazione.
Aveva provato a dissuaderlo ma ci aveva rinunciato. La sua felicità e il suo stare bene era per lei cosa fondamentale, importante, anche se voleva dire che ancora una volta lei si sarebbe annullata, avrebbe sottostato passivamente ad un destino che considerava ingiusto e non si meritava.
Guardò l’orologio, le 20.03… Ancora pochi minuti e il treno sarebbe arrivato, imponente, spumeggiante, pronto ad aprirgli le porte e farlo accomodare in attesa della destinazione prescelta. Panico, sudore, tremiti… che gli stava succedendo? Doveva partire, doveva farlo, per se stesso, per lei, per tutti quelli che non credevano in lui e che ancora gli puntavano il dito addosso sperando di farlo crollare per dire: «L’avevo detto io che non si può cambiare a quell’età e con quel passato…».
«È in arrivo il treno per Verona al binario 5, si pregano i signori viaggiatori di avvicinarsi rapidamente per permettere la ripartenza immediata. Avvicinarsi prego…» gracchiava la voce dell’altoparlante, e nella sua testa un martellamento continuo… «Devo farlo, devo farlo, sì ok vado!!!».
Un automa, questo sembrò nello stesso istante in cui salì i due gradini di quel vagone, ovviamente centrale, posto prenotato vicino al finestrino, mentre una folla impazzita spingeva da tutte le parti, e una miscellanea di profumi diversi tra loro gli entravano nella pelle e nelle narici quasi a farlo soffocare.
Secco e imperioso il fischietto del capostazione che annunciava la partenza, un fremito improvviso di quell’animale d’acciaio e lentamente l’avvio…
Poi l’immergersi nel buio della notte, che cancella ogni cosa e lascia spazio alla fantasia… ora un albero, una casa, una luce, una tavola apparecchiata, dei bambini che litigano con le coperte prima di addormentarsi e poi ancora buio, e poi il niente…
Mise le mani in tasca, prese il cellulare, e vide una bustina lampeggiare… Un sms… Lo aprì e lesse solamente «Buon viaggio, so che ce la farai, pollice mignolo…».
Sorrise… pollice, mignolo… quel linguaggio incomprensibile segreto e solamente loro. In ospedale, quando non riusciva a parlare, e a fatica muoveva le mani, era riuscito attraverso sua sorella a farle pervenire il messaggio… pollice mignolo… e la sorella diligentemente aveva fatto l’ambasciatore senza capirne il significato…
Pollice mignolo era anche il titolo del piccolo manoscritto che l’aveva premiata ad un concorso di narrativa…
Prese il telefono e stranamente compose il numero a memoria, lui che non si ricordava quello che era successo dieci minuti prima, lei che si arrabbiava perché diceva che non era possibile e che lui manco la stava a sentire quando parlava.. Due squilli..: ” Pronto sei tu? «Sì, ciao tutto bene, a proposito… ti aspetto la prossima settimana, mi raccomando non tirare fuori scuse eh…». La sua risata come risposta, che le sembrava di vederla che già stava arricciando il naso scostando velocemente i capelli. «Ok ci provo amore, sai che devo fare mille cose…» “«Va bene ciao, ci conto… fai la brava!»
Adesso la notte era tutta per lui, poteva assaporarla e viverla, e di sicuro stavolta ce l’avrebbe messa tutta. Nel corridoio il bambino passava, lo stesso di prima, quello del gelato, quello che lo osservava come un marziano, adesso con in mano un panino, i loro sguardi si incrociarono, un sorriso accennato da parte sua, un pollice e mignolo tesi nella manina del piccolo, due occhi grandi e neri che gli sorridevano.
Non aveva mai creduto al destino, era un fatalista, quello che dev’essere sia, ma adesso per la prima volta, si convinse che ciò che era appena accaduto fosse un segnale e come tale andava preso in seria considerazione.
«Piccolo mio, hai ragione, lo so, ho capito adesso, grazie» sussurrò a bassa voce, prese il trolley che era rimasto accanto a lui, lo posizionò sugli appositi porta oggetti in modo da lasciare spazio ai suoi compagni di viaggio, accavallò le gambe, girò la testa verso il finestrino, chiuse gli occhi e finalmente si assopì tranquillo, la mente libera da fantasmi, le mani aperte, coraggiosamente appoggiate alle ginocchia e non più chiuse a pugno in segno di difesa.
Si parte… e il respiro si fece pesante…
Era pronto… era un uomo…

Roberta Campisi



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