Una storia d’altri tempi

di

Rino Gobbi


Rino Gobbi - Una storia d’altri tempi
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa
14x20,5 - pp. 184 - Euro 12,00
ISBN 978-88-6587-4820

Libro esaurito

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In copertina: Severino e Nella (genitori dell’autore)


PREFAZIONE

Una piacevole giornata di sole, e un lauto pranzo allestito come da tradizione in un grande giardino. I molti invitati, tutti parenti, sono i rappresentanti di molteplici generazioni cresciute sotto lo stesso cielo; i visi freschi di chi si è da poco affacciato all’età adulta si alternano a quelli più maturi dei nonni e degli zii che, seppur segnati dal tempo, sempre si illuminano al ricordo di un aneddoto accaduto anni prima, o stuzzicano l’uno o l’altro dei presenti con battute scherzose.
Manca il padrone di casa, voce narrante di questo romanzo, ed è inevitabile chiedersi il perché… All’improvviso dalla compagnia esce una frase pronunciata per caso, e due parole: “Giovanni… pellagra” catturano l’attenzione di un nipotino fino a quel momento distratto, che ora vuole sapere di più. L’allegra combriccola ammutolisce, nessuno si azzarda a raccontare di Giovanni.
Ecco quindi colui che non c’è comparire “virtualmente” in scena, sentendosi in dovere di narrare lui la storia della famiglia riunita, a partire appunto da Giovanni, il capostipite, che alla fine del 1800, ormai minato dalla pellagra, prova a comprendere il malcontento dei tanti come lui e si accosta alle nuove ideologie di quel periodo, diviso tra il proprio dovere di lavoratore e l’istinto di unirsi alla ribellione dei compagni per ottenere condizioni di vita migliori. Sempre vicina le è la moglie Nicoletta, donna forte e devota alla famiglia, costretta suo malgrado ad assistere al declino del marito. Giovanni cede inesorabilmente alla malattia, andando a morire nelle acque della laguna di Venezia.
Nicoletta rimane con i suoi tre figli; ma è Santina, bambina sveglia e sensibile oltre misura, che vince la vergogna pur di portare un contributo concreto per contrastare gli stenti della sua famiglia. Poi l’affascinante Giulio, venditore ambulante di vestiti e già vedovo con figli, la rende moglie e madre, prima ancora che lei riscopra quel tenero sentimento già timidamente provato per un ragazzo scomparso in guerra.
Da Giulio e Santina nascono altri figli, tra cui Severino, che si innamora di Nella, un’adolescente; il destino li lega indissolubilmente lo stesso giorno della partenza della madre di Nella per la Libia, quando lei, a 16 anni, aspetta un bambino.
Giovanni e Nicoletta, Santina e Giulio, Severino e Nella, ma anche Giacomo, Adolfo, Pierina… il narratore ci presenta ciascuno di loro nel periodo stesso della loro esistenza e da quei tempi lontani ci riconduce pian piano al presente raccontandoci le loro storie, e alla fine anche la sua, dall’epilogo triste e inaspettato.
È un racconto scorrevole e sentito quello di Rino Gobbi, autore del libro e narratore di questa saga, nonché secondo figlio di Nella e Severino. Volutamente reso in un linguaggio semplice e spontaneo, non solo perché così sono effettivamente lui stesso e la sua famiglia, ma anche perché traspare proprio la volontà di “raccontare una storia” che emozioni, coinvolga e stimoli qualsiasi tipo di lettore. Il contesto bucolico di apertura, la dimensione fiabesca conferita alla narrazione e il romanticismo che da sempre contraddistingue lo stile dell’autore sono altri ingredienti non meno importanti per il concretizzarsi di questa intenzione.
Alla fine, ci ritroviamo anche noi in quel vasto giardino, commensali di chi di quella grande famiglia è rimasto e di chi ne darà continuazione.

Dott.ssa Elena Lezier


Una storia d’altri tempi


Un sentito ringraziamento alla dott.ssa Elena Lezier per il perfezionamento del testo.


I

Erano tutti radunati sul prato di casa mia. Chi seduto sulla panchina del lungo tavolo di cemento, chi sulle altalene, chi in piedi che discuteva, chi andava avanti e indietro, e chi tra il fumo cucinava la grigliata. Era tutto un fermento, vi regnava quella vivacità invidiata da tutti quelli che ci conoscevano. Sì, perché succedeva spesso che mia moglie invitasse i miei parenti per questi pranzi a base di costicine, salsicce e pancetta, il tutto accompagnato dalla polenta bianca o gialla. I miei parenti erano tutti del paese o appena fuori, mentre quelli di mia moglie erano lontani, e pochi. Da me c’era posto, tanto spazio da correre in lungo e in largo; e tanti alberi autoctoni, specialmente pioppi, che gettavano l’ombra sull’erba che si estendeva dappertutto e sulla tavolata dove da lì a poco ci si sarebbe abbuffati. Sì, quello di casa mia era un parco, anche se questa denominazione non l’ho mai gradita; dopotutto non era neanche un bosco perché c’era l’erba, e non era un prato perché c’erano gli alberi. Sta di fatto che tutti si divertivano e, a dire il vero, questo un po’ mi faceva rabbia. Certo, mancavo da parecchi anni, e non è lecito che fossero stati ancora in ansia, in attesa di vedermi tornare. Per essere onesto devo dire che mi sarei anch’io comportato così se fossi stato al loro posto, per questo li giustifico.
Marilisa non s’era risposata. Non trovo giusto che lo abbia fatto per me, anche perché una volta le dissi che se fosse mancato uno di noi due, l’altro poteva risposarsi. Era una cosa ovvia, aggiungevo: il coniuge superstite non può sacrificarsi tutta la vita per la mancanza dell’altro. Ma a quanto pare lei non mi ha ascoltato, forse la sua indole autonoma e attiva non le faceva pesare la mancanza di un uomo. Aveva due figli da crescere e, a quanto pare, lo aveva fatto benissimo. Infatti Alberto era là, seduto sull’altalena che leggeva qualcosa. Era assorto nella sua lettura e pareva disinteressarsi completamente degli altri; ma non era vero: ogni tanto alzava leggermente la testa per osservare la gente e captare mozziconi di frasi che potevano interessargli. Anche se seduto, si intuiva l’alta statura per i suoi quattordici anni; era, come si suol dire, uno spilungone, ma non praticava sport che sfruttassero questa sua caratteristica fisica: lui era un tipo tranquillo che badava ai suoi pochi interessi, ma come ci badava! Aveva la passione della meteorologia: tutto ciò che riguardava i fenomeni atmosferici era oggetto del suo interessamento, fino al parossismo. Un paio di volte, durante un temporale era uscito di notte per osservare il bagliore dei lampi che arrivavano da ovest (da sud-ovest avrebbe detto lui); la prima volta la madre lo sgridò, quasi disperata, ma la seconda lo lasciò fare: aveva capito che nessun rimprovero poteva fermarlo. Non era espansivo e le novità lo mettevano a disagio, comunque il suo dovere lo faceva volentieri.
Laura giocava a pallavolo con i cuginetti su una rete da orto per piselli stesa tra due pioppi. Aveva dodici anni, ma il suo fisico la faceva sembrare più ragazzina che bambina. Era rossa di capelli, e questo bastava già a spiegare il suo carattere, era l’antitesi di suo fratello: socievole, instancabile, esigente, con tanta voglia di sapere, insomma somigliava tutta a sua madre. Con il suo carattere aperto era simpatica a tutti; voleva fare mille cose, e tutte assieme. Era una bambina moderna, bastava solo guardarla quando incedeva in certe occasioni di rilassatezza o indossava quei vestiti larghi e lunghi che nascondevano quel corpicino che pure aveva.
Marilisa andava avanti e indietro con le verdure, tenendo tutti in allegria con la sua esuberanza. Lei aveva un fisico minuto, vestiva un paio di jeans, e scarpe da tennis. Già il suo viso ingannava sull’età e poi, vestita così, la faceva sembrare ancora più giovane. Ma anche il suo carattere contribuiva a che la si giudicasse una ragazzina: attiva, sempre sorridente, spontanea e leale. Aveva tutte le più belle qualità di questo mondo. Se si aggiunge poi l’altruismo si capisce perché fosse stimata e ammirata da tutto il mio parentado. Già quando eravamo ancora assieme si preoccupava di non trovare tempo per fare certi lavoretti per gli altri, come maglioni, centrini, ricami eccetera. Era una di quelle donne che solo la fortuna può fartele incontrare; per questo io dico di essere stato fortunato, almeno finché sono stato con lei.
Vedo che sto dilungandomi sulla descrizione dei miei famigliari, e capisco che sto annoiando chiunque legga queste pagine, d’altronde si deve rendere chiara la scena della commedia, devo presentare i personaggi, e questo comporta un’analisi particolareggiata, tanto più minuziosa quanto più ci si vuol addentrare nel loro ambiente e nel loro carattere. Credete, anch’io non vedo l’ora di mettermi sulla carreggiata giusta che mi porterà fino alla fine del romanzo. Ancora due o tre parenti che descriverò in modo assai sintetico e poi daremo inizio alla storia.
Continuiamo con mio padre Severino, che dall’alto dei suoi settanta anni anche lui ne dimostrava assai meno, sia nel fisico come nello spirito. Ebbe una esistenza basata essenzialmente sul lavoro e sui sacrifici; ma da qualche anno aveva tirato i remi in barca e viveva una vita tranquilla, anche per quanto riguardava il lato economico. Aveva la sua casetta poco distante dalla mia, dove nel garage c’era di tutto, e lui dalla mattina alla sera era là per riparare e rompere, come si dice. Fatto è che era sempre in movimento, e questo è senz’altro l’antidoto più efficace contro la vecchiaia. Dai lineamenti si notava subito che è sempre stato un bell’uomo. Il suo mestiere era il muratore; ma la sua grande passione erano gli orologi. Sin da giovane li aveva sempre riparati, non certo per danaro, anche se era l’unica cosa che a quei tempi mancava, ma per scoprire l’intricato meccanismo eliminato di quel difetto che lo aveva tenuto sveglio anche fino a notte tarda. Era lì mio padre, che rideva, circondato dai suoi generi; poteva dirsi uno di loro, e anzi lo era, specialmente quando stavano su fino all’alba per giocare a carte.
Mia madre Nella non era da meno di lui, anzi un po’ lo superava in quanto ad allegria. Quando partecipava a queste feste era lei che vivacizzava la compagnia, si prestava agli scherzi, e di scherzi ne faceva. Con le figlie, mie sorelle, parlavano del più e del meno, e se la godevano. Ogni tanto si sentiva una sua risata, specialmente quando un genero infieriva con una battuta. Non alta di statura, ci teneva alla sua eleganza, non smodata, ma semplice e accorta.
A guardarli così i miei genitori, mi domando come avessero fatto ad essere tanto sereni dopo quello che avevano passato.
Questa volta era venuta anche mia zia Pierina, sorella maggiore di mio padre, che era suora. Lei veniva raramente a casa mia in occasione di questi incontri, anzi era la seconda volta dacché abitavo qui. Aveva settantacinque anni, e un visino ovale e pallido, un paio di occhiali da vista la rendevano una intellettuale. Infatti, fino a qualche tempo fa insegnava lettere nel collegio dove risiedeva. Era dolce di animo e caritatevole: lo si poteva intuire dai suoi modi affettati e dal come si esprimeva. Non si preoccupava se dalla baldoria usciva qualche frase non proprio integerrima; se si trovava in mezzo a tanta gente, come in questo caso, lei parlava comunque di Dio, e lo faceva con la spontaneità di chi aveva messo Lui al primo posto.
Zia Pierina, che da suora aveva preso il nome di Clementina, era assieme con Emma e Adolfo, i suoi anziani zii, entrambi fratelli di Santina, la mia nonna paterna, che era morta. Zia Clementina diceva alla zia Emma come fosse incredibile che lei, con i suoi ottantanove anni, fosse così vivace e sana come un pesce. E lo confermo anch’io: zia Emma era un fenomeno vivente, aveva una voglia di vivere e divertirsi da fare invidia alle giovinette; come quando un mio cognato la riprendeva con la cinepresa, lei per scherzo si metteva in bocca una pagnotta intera e faceva il verso di bere un bicchiere di vino. Emma era sempre stata invitata a questi raduni, ed era sempre lei che, assieme a mia madre, alimentava l’allegria. Certo, il suo viso era pieno di rughe, le mancavano quasi tutti i denti ed era claudicante fin dalla nascita; ma cosa c’entrava questo? Non sapeva di essere anziana, e a tutti quelli che le chiedevano come mai era così spiritosa, lei rispondeva che non aveva avuto figli e il povero Miro, suo marito, l’aveva rispettata molto; e poi sbottava in una sonora risata. Ancora riguardo a zia Emma: una volta si trovava all’ospedale, aveva una fleboclisi iniettata nel braccio; pareva fossero gli ultimi suoi giorni: un tumore, si diceva. Lei, stanca di stare sdraiata con quella cannuccia schifosa, così disse, si tolse l’ago dal braccio e scappò a casa a piedi. Da quel giorno non ebbe più un solo malanno, se si eccettua un gonfiore al piede sinistro di questi giorni, di cui non se ne conosce la causa.
Adolfo, come detto, fratello di Emma e zio di mio padre, era lì in disparte, seduto su una sedia che osservava i parenti che si divertivano. Era ammalato e costretto quasi all’immobilità dopo che era morta sua moglie Anita. Quando mia zia Clementina o Emma lo chiamavano, lui rispondeva con un sorriso stentato, che voleva dimostrare tutta la sua comprensione. La sua malattia pareva dipendesse dalle troppe sigarette fumate negli anni addietro.
Nella compagnia mancava Gina; ma lei non partecipava volentieri a queste feste, e da quando suo marito Salvino morì non partecipò più.
Il prologo finisce qui, con questi personaggi indaffarati, protagonisti della festa e della storia che ora vado a raccontare.
Tutto ha inizio da una frase detta da mio padre Severino a un nipote: «Basta mangiare polenta, vuoi che ti venga la pellagra?»
«Così farai la fine di tuo nonno Giovanni!» soggiunse la zia Emma, anche se in verità nonno Giovanni era il trisnonno di questo nipote.
Se la prima frase era comune in questi luoghi del Veneto, la seconda rivestiva un carattere particolare, personale, implicava una storia, un qualcosa di misterioso. Siccome al giorno d’oggi, dove tutto è razionalizzato, si ha bisogno di fantasia, ecco che Alberto, mio figlio, romantico come me, si incuriosì, alzò la testa e stette lì immobile ad aspettare il seguito di quella affermazione. Ma nessuno ci aveva badato, e si continuò a parlare d’altro. Invece lui, che per le cose che lo interessavano era curioso, volle andare a fondo. Quando vide sua madre uscire da casa le andò incontro e le chiese: «Com’è morto il nonno Giovanni?»
Mia moglie, stupita: «Cosa vuoi che ne sappia io? E poi, chi è tuo nonno Giovanni?»
«L’ho sentito dire dalla zia Emma», e girò la testa verso la tavolata.
«Perché ti interessa tanto?» incalzò Marilisa.
«Perché deve avere fatto una brutta morte.»
Mia moglie andò a poggiare quel che aveva in mano su un tavolino là appresso, sempre seguita dal figlio, e si rivolse alla tavolata: «C’è qui Alberto che vorrebbe sapere com’è morto suo nonno Giovanni.» Alberto ritornò al suo posto più impacciato che mai. «E vorrei conoscerla anch’io questa storia di Giovanni che ha fatto una brutta fine.» Lo disse in tono scherzoso, come fosse riuscita a trovare un motivo di conversazione in più. Ma le conseguenze di quella richiesta generarono sbigottimento e impaccio nei presenti.
«Ma è una storia lunga a raccontarla tutta, e mal si addice a questa giornata così festosa» disse poi mio padre Severino.
«Non c’è niente di male a raccontarla» ribatté un cognato, «saremo tutti orecchi se qualcuno si prendesse la briga di farlo.»
Era una sfida lanciata al suocero, ma ancor più a suor Clementina. Lei era la più anziana, aveva studiato e anche insegnato, era la più adatta a raccontare, e loro sarebbero così venuti a sapere le traversie del nostro capostipite.
La suora si rifiutò: anche se sapeva cos’era successo con suo nonno non se la sentiva di riandare così di punto in bianco a quei tempi, e narrare una storia che era di miseria e morte. Anche gli altri non se la sentirono, tanto meno Adolfo ed Emma, i figli di Giovanni, testimoni diretti del fatto. Anche perché non bastava riferire il modo in cui era morto: bisognava addurre anche le circostanze, in modo che il giudizio di chi ascoltava non fosse travisato, tutto a danno della famiglia Mursi, così ci chiamavano. Ecco perché tutti si rifiutarono di raccontare, e soprassedendo a quel disagio ritornarono alle loro occupazioni culinarie.
Ma io sono qua, non ho condizionamenti di sorta, e nello stato in cui mi trovo sono a conoscenza di ogni cosa, per cui non mi costa niente narrare la storia di Giovanni, e di quel che ne seguì.

[continua]


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