Alto quanto un vulcano - Cinque giovani geologi all’avventura in Messico

di

Riccardo Lunghi


Riccardo Lunghi - Alto quanto un vulcano - Cinque giovani geologi all’avventura in Messico
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa
14X20,5 - pp. 148 - Euro 12,50
ISBN 978-88-6037-7241

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In copertina e all’interno fotografie di Andrea Gigliuto e Riccardo Lunghi


E’ il racconto di un viaggio di studio nel remoto Messico ai piedi del vulcano Nevado de Toluca (4680 m).
Un gruppo di giovani amici geologi vivono un’avventura indimenticabile durante il duro lavoro dei rilevamenti tra paesaggi di rara bellezza, escursioni sulle pendici prative, punteggiate di fiori e piante grasse d’alta quota.
E’ la storia di una nostalgia, la stessa che ti prende quando un viaggio è finito e sei combattuto tra il desiderio di tornare alla vita di sempre, ai tuoi affetti e la voglia di rimandare la partenza, di non staccarti dall’alveo di un’esperienza che ti ha regalato tante emozioni.
I legami d’amicizia si rinsaldano, a costo di liti e musi lunghi, la condivisione di un’esperienza fortemente voluta, rende possibile la convivenza e crea vincoli inossidabili alla prova del tempo e dell’ordinaria quotidianità.
Prima che il viaggio diventi ricordo e ritrovi i protagonisti al tavolo di un locale dei Navigli, nasce l’urgenza di fissarlo sulla carta. Tornare non è rinunciare, ma decidere di vivere più compiutamente la propria esistenza, forti di un bagaglio umano ed emozionale che gli altri non potrebbero capire e che è difficile raccontare.
Con un linguaggio semplice e colloquiale, ironico e lieve, l’autore prova a trasmetterci la sua esperienza autobiografica. Con successo riesce a contagiare il lettore con i colori dei murales messicani, gli odori della dueña, la polvere della cenere vulcanica che infiamma la gola, l’atmosfera degli autobus pubblici e dei festeggiamenti per l’elezione del nuovo sindaco (il macellaio del paese), l’accostamento di sacro e profano che pervade la povera vita dei contadini in guerra per l’acqua.
Città del Messico, caotica metropoli, appare lontana, l’Italia lontanissima, e con essa burocrazia e consumismo. A bordo di un “vocho azul”, si può assaporare la vita, il piacere di un lavoro che appassiona e fa sembrare anche la fatica, un dono.


ai miei nonni


“Se quanto hai già trovato è fatto di materia pura, non potrà mai marcire. E tu, un giorno, potrai tornare.
Se è stato soltanto un attimo di luce, come l’esplosione di una stella, allora non troverai più nulla quando ritornerai, ma avrai visto un’esplosione di luce e anche solo per questo ne sarà valsa la pena”

P. Coelho


RINGRAZIAMENTI

Grazie ai miei compagni d’avventura, che hanno reso indimenticabile l’esperienza qui narrata.
In particolare ad Andrea Gigliuto, per l’attenta revisione, a Micaela Casartelli, per non aver apportato troppe censure; ad Anna Merlini e Fernando Bellotti per i loro preziosi suggerimenti, ritocchi e ricordi.
A Gianluca Norini, che viene citato più volte solo per cognome, per dare il giusto peso al ruolo che ha ricoperto, ma che in realtà è stato un caro compagno. A Gianluca Groppelli e Lucia Capra per il valido sostegno, a “Icchellè” Marco, Lorenzo e tutti gli altri “messicani adottivi”, che in silenzio continuano a fare la dura vita del ricercatore.
Un grazie a tutte le persone che si sono adoperate affinché questo viaggio si realizzasse, dai miei genitori e amici, a tutti coloro che, anche solo con un semplice sorriso, ci hanno infuso il coraggio per proseguire.
Non vi dimenticherò mai.


Alto quanto un vulcano - Cinque giovani geologi all’avventura in Messico

Intro

“Va bene se ci sediamo qui all’angolo?”
“Per me OK” rispondo “Tu, Mic, mettiti a capotavola; io mi siedo accanto ad Andrea…”
“Allora io e Nando ci mettiamo di là” interviene Anna.

***

Mi sembra ieri: seduti ad un tavolo tutti insieme. Ed invece sono passati quasi cinque anni dall’ultima volta.
Ci ritroviamo in una pizzeria del Naviglio Grande per ricordare il nostro viaggio. Andrea ed Anna ci aggiornano su Coatepec, hanno recentemente visto Julian, che nel suo giro per l’Europa è riuscito a passare anche qui in Italia; io purtroppo ero in trasferta a Falconara M.ma – ufficio ad un passo dal mare, treno e sirena del doppio turno che scandiscono il tempo, il ritmo di una raffineria, tutta un’altra storia.
Coatepec Harinas è il paese dove nell’ormai lontano 2003 con le persone qui radunate passammo qualche mese immersi in un altro mondo. Si trova ad un centinaio di km a Sud Ovest di Città del Mexico, nello stato di Mexico, la cui capitale è Toluca.
L’abitato, insieme a quartieri e frazioni sperdute è un paese di circa 20.000 anime, di cui la metà emigrate in USA, posto sulle pendici di quello che sarebbe diventato il “nostro” vulcano, il Nevado de Toluca o Xinàntecatl, la quarta montagna più alta del Mexico.


I preparativi

Il mio viaggio iniziò almeno un anno prima, forse nella primavera del 2002, quando vagando nei cupi corridoi dell’università, tra l’auletta rocce e la laureandi in cerca di un buco dove mettermi a sistemare gli appunti, mi sono imbattuto in Andrea, che, raggiante, usciva dall’ufficio del professor Pasquarè e Groppelli.
Era in cerca di qualcuno che volesse partire con lui entro dieci giorni per la conquista del Popocatepetl!
La catena inevitabile passa da qui: il Grop s’intorta Andrea, e lui, con l’entusiasmo con cui convince tutti quando ha in mente un’impresa delle sue, che sia la scalata di una parete di montagna o sia infilarsi per 400 m sottoterra in una grotta umida e buia, ci rende partecipi. Per strada perdiamo l’esclusiva del Popo, ma raccattiamo solidi e certi compagni d’avventura…. prima Micaela e infine, poco prima della partenza, che nel frattempo è stata posticipata all’anno nuovo, anche Anna e Fernando.
La meta è appunto il Nevado, 4680 m di montagna tutta da scoprire. L’Universidad Nacional Autonoma de Mexico (UNAM) ci fa, per così dire, da sponsor; l’aggancio è una vecchia conoscenza: Lucia, che al momento è ricercatrice presso il dipartimento di Geografia a Città del Messico.

D’altronde, come resistere ad Andrea?
Ero in piena crisi d’identità, ancora nel limbo dei postumi dell’Erasmus fatto a Madrid (un po’ come i reduci dalle vacanze con Costa Crociere) e la scelta del piano di studi finale che mi avrebbe portato finalmente alla sognata laurea in Scienze della Terra; sfidanzato e depresso dopo la mia prima vera storia d’amore, mentre con dedizione forzata infilavo la testa tra qualche noiosissimo libro di Geologia Applicata, la mia mente vagava nel vuoto e affioravano i ricordi delle levatacce fatte a Madrid; vita frenetica di 12 ore passate in università tra lezioni, studio in biblioteca e riposo tra caffetteria e prato del parco: questa era la vita universitaria madrilena! O le quasi altrettante passate a zonzo per la città, tra un locale e l’altro, a cena a scrocco da un amico, in un cineforum collegiale o imbucato in qualche festa Erasmus. Tutto ciò mi permetteva di dormire dalle tre alle cinque ore a notte per diversi mesi; senza abusare di caffè, avevo trovato il ritmo giusto, che mi permetteva di non rinunciare a nulla, godermi i tanti momenti di festa e relax, portarmi avanti con studi interessanti, seguito al meglio da un’equipe di ottimi professori. Insomma fuori di casa con tutte le responsabilità e i vantaggi che seguono.

L’idioma soave spagnolo risuonava alla carica con tutto il suo impeto.

Era periodo di transizione anche a casa, dove mia sorella aveva già preso il largo e puntava alla carriera economica, seguendo papà, ma stando attenta a mantenere bene le distanze; mio fratello, invece, aveva messo radici mentre era alle prese con la pratica per il tormentato esame di abilitazione alla professione d’avvocato; ed io ero lì, a ruota, che, pur sicuro di ciò che avrei voluto fare nella mia vita, ero ancora fermo al palo, con buone prospettive, ma senza il grande salto di qualità e forse anche un po’ cascato nella routine semplice e comoda della vita a Milano.
Solo una cosa era certa, già da piccolo mi soffermavo ad osservare quelli che tutti chiamano “sassi”, li raccoglievo, impilavo, catalogavo… La mia strada era già tracciata, già c’erano segni inequivocabili del mio interesse alle scienze naturali. Come il ragazzino de l’Alchimista, mi serviva solo il là per partire in una nuova avventura e scoprire il mio tesoro, che infine non è altro che la somma delle esperienze che una persona accumula nella vita, ma che non sempre si rende conto di avere, se non fermandosi un attimo ad osservarsi e a guardarsi da un’altra prospettiva, spesso lontana.
Giusto il tempo di espletare alcune formalità, verificare se la mia borsa di studio fosse compatibile con una tesi di laurea dall’altra parte del mondo e via, il mio OK ad Andrea è cosa fatta.
D’altronde, per quale motivo le problematiche ambientali di Seveso, per cui, impegnandomi a scegliere un indirizzo universitario a carattere ambientale che le affrontasse, avevo ricevuto una somma dalla Fla – Fondazione nata sull’onda delle vicende accadute nel mio paese nel 1976, non avrebbero potuto essere esportabili in un paese in via di sviluppo come il Messico?

Iniziano i preparativi, ore e ore di ricerche bibliografiche, raccolta di materiale, primi contatti con Grop e Lucia; eh già, perchè se Andrea e Micaela sono già una squadra fatta e finita, io con il professore Groppelli non ho ancora avuto nulla a che fare.
I miei due soci infatti avevano già collaudato il loro affiatamento in un precedente lavoro sull’Etna in compagnia di Emilia, brillante compagna che era già in dirittura d’arrivo verso l’agognata laurea; io invece per la partenza in Spagna ho rinunciato all’uscita a Lesbos e al rilevamento sull’Etna.
Di vulcanico ne so proprio poco, ma per fortuna, per uno che fa colazione con le formazioni allostratigrafiche dell’Anfiteatro glaciale del Garda e ha fatto scuola di strutture e pieghe con Bersezio nel cuneese e di facies metamorfiche in Val d’Aosta con la Spalla non ci sono problemi a comprendere cosa sia un Sintema! C’è ancora tempo prima di partire, gli esami di Geologia Regionale e Vulcanologia diventano priorità irrinunciabili.
Intanto inizia il primo impegno, che a poco a poco si trasformerà in incubo: arrivano le prime mappe dal Messico e, oltre a scrutarle ammirato, c’è da trasformarle in un formato utilizzabile ai nostri scopi. E allora via all’ingegno che ci porta prima a ricalcare tutte le curve di livello su lenzuoli di lucido con il rapido 0.1, poi a scansire il primo puzzle abilmente ricostruito, ripulire l’immagine e trasformare quelle semplici linee in un file vettoriale fatto e finito… Magari! E qui inizia il paziente lavoro di unione delle spezzate e quotatura delle curve, che si concluderà solo in una fresca serata di febbraio alla luce di un lume di candela già in Messico. Sere e sere unendo linee e dando numeri, ancora oggi mi rigiro nel letto con un leggero torcicollo e un crampo alla mano destra dovuto alla posizione davanti al computer ed al movimento ormai fatto in automatico sempre sui medesimi tasti.
Ma il risultato è eccezionale: un modello digitale del terreno (DTM) dell’intero vulcano Nevado de Toluca e dintorni per un raggio di 40 km con una precisione decametrica: neanche all’Istituto Geografico Militare avrebbero potuto fare di meglio.
Le mie successive elaborazioni ringraziano la topografia di base abilmente ricostruita durante quelle serate.


L’arrivo a Coatepec Harinas

Stasera “Pagliuccio”, come viene amorevolmente chiamato Andrea per la sua stazza minuta, tiene banco.
Ed io penso a quanto, seppur cambiato moltissimo, si riesca a riconoscere in lui le sue doti e stravaganze al primo sguardo, a quanto sia preciso e meticoloso, a quanto abbia chiare le idee e sia decisamente un leader.
Non a caso Micaela lo chiama a volte Kaiser dopo l’esperienza in Messico.
È cresciuto molto, ma quel ragazzino che cerca comunque sempre il tuo appoggio quando se ne inventa una nuova ed è deciso a perseguirla, ma solo se il suo spirito d’altruismo lo porterà a concluderla insieme a qualcun altro, è ancora individuabile. Solo d’aspetto ora è diverso: da quel ragazzino dei primi anni di università con occhiali, baffi e pizzetto che tradivano già al primo sguardo le sue origini siciliane, ora ha un viso più maturo, più sicuro di sé.
Micaela non ci sta a lasciargli la parola per più di due minuti, trova lo spiraglio giusto e ci s’infila – come sempre le viene naturale ed ora il discorso verterà inevitabilmente su di lei. Si parla di case, a breve vien pronta quella di Andrea, Mic è al rogito, io ho approfittato del mio trentesimo compleanno per allontanarmi ed andare a vivere da solo in quella che era la residenza di mio nonno, ristrutturata. Anna è già sposata da un paio d’anni, l’unico ancora con i suoi è Nando.
Andrea, da una delle sue infinite tasche e taschine dove si porta dietro sempre tutto, tira fuori una piantina e con questa alla mano, come un professionista, sta spiegando la disposizione delle camere della sua nuova mansarda.
Micaela interviene: “Vi ricordate le scale Maya?”

***

La nostra casetta nella piazza di Coatepec, presa in affitto dalla dueña del bar centrale, posto proprio al di sotto, era raggiungibile da una porticina di una via laterale che dava appunto su delle scale; se la prima rampa che conduceva al primo piano dove c’era un locale comune, cucinino, bagno e anfratto, trasformato in dormitorio da Andrea e me, era percorribile, per affrontare le rampe successive ci voleva un certo equilibrio ed un piedino da messicano, appunto ribattezzato “maya”. La casa era un vero labirinto, posto su più livelli: la seconda rampa portava ad uno slargo o anticamera dove alloggiavano Nando e Norini, il dottorando che ci ha accompagnato per tutta la ricerca, e poi alla stanza di Micaela e Anna, che già al primo giorno erano riuscite a trasformare con quel gusto che solo il loro tocco femminile può permettersi. Una porta dava accesso ad una veranda, utilizzabile solo per il bucato ed il deposito dato l’alto tasso di umidità e l’elevata escursione termica giornaliera dovuta agli spifferi delle vetrate, ed infine, un’ulteriore scaletta portava sul tetto dove era alloggiata la cisterna dell’acqua e si poteva ammirare, nelle giornate limpide, l’intero paese, dalla collina della chiesa a sud, che nascondeva la piana di Ixtapan de la Sal, alla vetta del Nevado a nord.

Eravamo giunti a Coatepec solo dopo 15 giorni di permanenza a Città del Messico; giusto il tempo di ambientarci in una città sterminata per tornare alla realtà del paesino di campagna.
L’apparenza era quella di una squadra di gringos alla conquista del mondo: i nostri due maggiolini risplendenti e il fuoristrada bianco dell’Università pieni di bagagli e attrezzi vari, all’arrivo in fila nella piazza centrale, erano una vera e propria carovana pronta per una missione.
Il gruppo era formato da Anna, Micaela, Fernando, Andrea ed io, tutti studenti e lì per la nostra tesi di laurea, Norini, dottorando che aveva già passato alcuni mesi nella zona un paio di anni prima per lo stesso nostro motivo e Lucia, la ricercatrice che ci supportava dall’Università Messicana e che, vista la sua recente gravidanza, provvide unicamente ad accompagnarci nel paese. Il professor Groppelli sarebbe giunto più tardi per il controllo finale del lavoro svolto, fermandosi solo qualche settimana.
Sette stranieri alti e pallidi chi li aveva mai visti aggirarsi da quelle parti? Mentre sostavamo davanti all’alberghetto dove ci sistemammo i primi due giorni, il paesino era già in fermento e ronde di ragazzotti ci passavano davanti incuriositi facendo rombare i motori dei loro immensi PK in segno di sfida o come semplice dimostrazione di forza ed esibizionismo. Intanto la voce nel paese si diffondeva: dei gringos cercano casa da queste parti, qualcuno è disposto ad affittare loro dei locali che siano abitabili?
Un tizio, curvo e pieno di rughe, segnato dal tempo e dal lavoro, si avvicina al nostro gruppo nella piazza centrale offrendo un casolare diroccato fuori paese, Lucia gli spiega esattamente cosa stiamo cercando, ed alla fine viene condotta al bar centrale. L’avida dueña del bar non si fa scappare l’occasione: affittare al doppio del suo valore quell’accozzaglia di locali utilizzati a magazzino che ha sopra la sua attività, quale miglior investimento? La polvere e l’infinità di vettovaglie presenti un po’ ci scoraggiano, ma 300 dollari al mese diviso per sei, 50 dollari a testa, non è poi così ingestibile. Micaela abituata ai 250 euro che sborsava da sola per la condivisione di una camera doppia a Lambrate quasi non ci crede. Accettiamo. C’è da sistemare un po’, acquistare giusto un paio di brande e uno scaffale, il resto la dueña si offre di metterlo lei, forse perché si sente in colpa della cifra che è riuscita a strapparci senza alcun tipo di contrattazione. Solo su una cosa è intransigente: dopo aver appurato che le due ragazze che ci accompagnano non sono sposate, le obbliga a sistemarsi insieme, nel letto matrimoniale del secondo piano, nell’unica stanza che, forse, è corretto chiamare tale.
Nei primi giorni è tutto un gran da farsi: di giorno i primi contatti con i versanti polverosi della montagna e, di sera, la sistemazione del nostro alloggio.
Io e Andrea ci adoperiamo per rendere accogliente il nostro sgabuzzino, dove ci stanno giusto le nostre due nuove brandine, acquistate alla bottega meno lurida avvistata nei paraggi, e una scarpiera in plastica a più livelli utilizzata come cassettiera/armadio. Purtroppo per i vetri delle finestre fatti a listarelle non c’è una semplice soluzione, alcune vengono ri-agganciate alla bene in meglio, le altre riusciamo a sistemarle con un po’ di nastro isolante. Gli spifferi sono all’ordine del giorno; il mio sacco a pelo invernale da -5° C si rivelerà più utile di quanto pensassi… fortuna che chi mi salutava dall’Italia credeva che andassi in Mexico a prendere il sole, ed, in effetti, il sole non ci tradirà per tutti e quattro i mesi di escursioni. Chi mai avrebbe immaginato, seppur in febbraio e a 2700 m s.l.m., che la temperatura di notte a 20° di latitudine scendesse così tanto… In realtà sarebbe bastata una finestra normale, ma sembra una richiesta eccessiva. I problemi maggiori saranno dovuti alla luce del lampione della strada, perché le persiane non sono nemmeno contemplate, senza dimenticare il rimbombo del jukebox del bar al di sotto, che, ad occhio e croce, è ubicato più o meno a 1 m dalla mia testa, quando sono sdraiato sulla branda. A parte le prime notti insonni passate incurvato nella rete poco stabile del letto fissando il lampione posto alla mia altezza, poi tutto si sistemerà, la stanchezza prenderà il sopravvento ed il ritmo della cumbia a tutto volume fino al coprifuoco sarà solo una ninna nanna per le mie orecchie. Un po’ di carta di giornale e un poster sulla porta, che dà sul balconcino che si affaccia sulla piazza, elimineranno i maggiori spifferi e la luce diretta mattutina. Il poster sarà successivamente sostituito da uno più degno con una donna in costume, anche se il cartellone pubblicitario dei jeans che cercammo di portarci via senza successo da un negozio di un centro commerciale di Metepec sarebbe stato più adatto; purtroppo le commesse dell’esercizio, alla mia richiesta in effetti un po’ bizzarra, mi risposero picche!
Pavimenti e antine abbandonate, dopo il nostro passaggio, hanno cambiato di colore, si nota anche dalla faccia sorridente della dueña alla sera, che per ora, si fa la cresta anche con gli hamburguesa che ci rifila per le prime cene.
Il cucinino, già misero, è occupato per metà da un congelatore, dove la stessa ci tiene le riserve del bar in modo tale da mantenere un controllo sui nuovi stranieri. I fornelli, dopo un intenso lavoro di scrostatura, sembrano funzionare – i primi giorni saranno sottoposti a rigorosi controlli per evitare il botto. Altro non c’è, se non una piccola credenza dove la dueña ci ha fatto trovare posate e stoviglie per la minima sopravvivenza.
Il riscaldamento anch’esso è a gas e, dopo qualche giorno, scopriamo che la bombola è proprio sopra la testa di Nando. Rimaniamo infatti al freddo per un po’, poi, aprendo l’intercapedine sotto la quale Nando ha infilato il letto in anticamera, troviamo il boiler dell’acqua calda; è diverso tempo che non viene utilizzato e fa fatica a ripartire, ogni tanto si spegne e ci toccherà più volte fare la doccia al freddo. La prima volta l’accensione è complicata, consumiamo un intero pacchetto di fiammiferi, poi la mano si fa più esperta ed il controllo, da parte di Nando, che passa qualche giorno insonne si farà più scrupoloso.
È giunto il momento della prima pasta fatta in casa, sono quasi tre settimane che non ne mangiamo, e quando si prospetta la prima serata in casa tranquilla, nessuno riesce a stare con le mani in mano, il gruppo intero si adopera per la preparazione. C’è chi sciacqua cipolle e carote per il soffritto, ancora rigorosamente utilizzando l’amuchina, chi controlla la bollitura dell’acqua, chi prepara la salsiccia per rendere più sostanzioso e gustoso il tutto in mancanza di altri piatti d’accompagnamento ed infine rimaniamo in adorazione contemplativa degli spaghetti che ribollono nel pentolone in attesa della scolatura finale che, in assenza dello scolapasta, si rivela molto difficoltosa. Fernando, l’unico che dopo la giornata di fatiche è in grado di reggere sia il pentolone pieno che il sottopentola, fatto con un grosso ceppo di legno, mostra sorridente ed orgoglioso il risultato all’obiettivo della macchina fotografica.
Parte in automatico all’unisono il primo inno di Mameli che nasce dal cuore.
Ce ne saranno molti altri, sempre in questi magici momenti, che ci porteranno a cantare tutti insieme, ora solo per una piccola soddisfazione per la prima cena a base d’ingredienti nazionalpopolari, più avanti per ogni goliardata o lavoro di squadra o semplicemente per infonderci coraggio nei momenti difficili.
Il più schizzinoso Norini si accaparra uno sgabello in plastica, insieme a Nando raccatto una cassetta in legno e cedo le uniche due sedie sane ad Anna e Micaela, la poltroncina ancora in pessime condizioni igieniche è per Andrea, che cautelativamente ci mette un telo in plastica sopra, … tutti si tuffano soddisfatti nel loro piatto fondo senza chiedersi altro, senza bisogno di nessun’altra cosa per sentirsi felici…

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