Opere di

Renzo Stio

Con questo racconto è risultato 5° classificato ex aequo – Sezione narrativa alla V edizione Premio di Scrittura creativa Lella Razza 2009


Eskimo e Polacchine

La stanza bianca, l’arredamento 
essenziale, la finestra in ferro 
stancamente riverniciato e chiusa da sempre, le tende a strisce verticali davano l’idea di un vecchio ambulatorio medico. Entrando, sulla parete a sinistra, un cartellone con un istogramma a barre crescenti e con un titolo: “Costruttori del vostro successo!”. A destra la donna, non proprio giovanissima, seduta alla scrivania, era tutta presa a rintuzzare le blande cattiverie dello scapigliato collega che le sedeva accanto e al quale – si poteva facilmente intuire – aveva appena mollato qualche sberla. Portava i capelli legati in alto con un fermaglio di legno che sembrava rubato al tavolo di un ristorante cinese. Il resto, di un biondo che nessuno avrebbe detto naturale, era variamente distribuito sulla testa, ma senza uno specifico progetto. Il collega, un giovanotto poco più che ventenne, indossava una giacca blu di taglio classico che copriva la camicia bianca decisamente informale, sulla quale una cravatta nocciola contrastava come un dattero sull’Himalaya.

Un’occhiata alla porta, qualche rapida mossa di riassetto e poi:
«Prego, si accomodi. Come si chiama?»
«Chiara Mandelli».
«Bene. Questa parte con i suoi dati la compilerà dopo. Per adesso dovrebbe cortesemente rispondere ad alcune domande».
«D’accordo».
«Perché pensa di accettare questo lavoro?»
«Sono disoccupata. Tutto qui».
«Pensa di essere la persona giusta per questo lavoro?».
«Come faccio a saperlo. Dovrei conoscere le altre candidate. E poi se non provo a farlo… No?
«Ha mai fatto lavori per i quali era richiesta una particolare capacità comunicativa?».
«Diciamo di sì. Parlavo a un sacco di gente, parlavo, parlavo. Ma credo che il target qui non sia proprio lo stesso».
«Ha qualche motivazione particolare che la spinge ad accettare questo lavoro?».
«Gliel’ho già detto. Ho bisogno di lavorare. Nulla di più».

Le domande, poste con la stessa inflessione di un bambino che recita la poesia di Natale e al quale la maestra ha prudentemente insegnato a dimenticare come parla la gente comune, le aveva fatte il giovanotto. La donna prendeva appunti, o almeno sembrava che lo facesse. In realtà era del tutto incapace di valutare, sintetizzare e annotare, che è ciò che si fa quando si prendono appunti. Infatti si limitava a crocettare alcune schede prestampate dividendole tra “cartellina verde” e “cartellina gialla”.

Il colloquio durò pochi minuti e alla fine Chiara non aveva nessuna ragione per sperare in quell’impiego. Non ne aveva già prima del colloquio stesso. “Vendere a domicilio biancheria per il corredo!” Lei, che s’era sposata al Comune – eskimo e polacchine – in un piovosissimo ottobre trascorso tra sit-in e striscioni a sostegno del divorzio. E dopo averne parlato per anni a manifestazioni e riunioni di collettivo, trattandolo con la competenza del fan più appassionato, finalmente l’aveva conosciuto di persona.
Diciannove anni insieme. Tanti impegni, tanto lavoro, poche questioni, un sostanziale accordo su tutto. Niente figli. Problemi di sterilità: forse lei, forse lui. Non ebbero tempo e forse neanche voglia di approfondire. Poi, un giorno, uno di quelli dove tutto accade per pura necessità, la scoperta di essere troppo profondamente diversi.
Strano! Ma non si diceva che gli opposti si attraggono? Certo, ma si diceva anche che ci si prende per somiglianza. La verità è che ci si prende e basta. E, come al solito, quando non siamo capaci di dare una ragione alle cose, inventiamo categorie vuote che mettono tutti d’accordo. Come un buco nella barba: se sei ammorbato dalla fotocopia delle tue giornate, è alopecia da stress; se sei notevolmente preso da tanti piacevoli impegni, è sempre alopecia da stress.
Era tutt’altra cosa il “suo” divorzio da quello raccontato nei collettivi. Altro che conquista di libertà! Altro che espressione di civiltà! Muta sofferenza, spasmo dell’anima, ulcera del cuore.
E adesso, alla ricerca di un qualsiasi lavoro per sbarcare il lunario. Già, perché i soldi a casa li portava lui. No, no, non si era mai piegata al ruolo di geisha. Solo che l’impegno politico e sociale era diventato l’unico argomento del suo esistere nel mondo. D’altronde la loro era una vita essenziale, senza orpelli, griffe e argenterie. Sessanta metri quadrati di bilocale, ereditato, nei pressi del centro e un camper di seconda mano per le vacanze.
Dopo il divorzio, però, gli assegni-spese che cumulava tra la presidenza di sezione del partito e quella della L.I.P.U., un tempo utili a concedersi qualche cenetta a ristorante, rimanevano sufficienti solo per qualche cenetta a ristorante. E di che vivere fuori dal ristorante era il problema che l’aveva condotta a quel colloquio.

«È permesso? Posso entrare? Vedrà che le campionature che le ho portato la lasceranno di stucco. Diciotto colori per ogni modello! Non è meraviglioso?».

Dopo tre giorni la signora col fermaglio di legno tra i capelli l’aveva chiamata, proponendole di iniziare a lavorare con un fisso di seicento euro al mese, più il tot che sarebbe stata capace di guadagnare persuadendo i clienti. Accettò per pigrizia e perché – non avendolo mai fatto in vita sua – si era già stancata di chiedere.
In otto mesi riuscì a vendere meglio dei suoi colleghi più navigati. Guadagnava bene.
Adesso ai piedi portava scarpe con un tacco contenuto ma sufficiente ad esaltare il profilo di una gamba che, dopo anni di segregazione, poteva finalmente godere di numerosi incentivi all’autostima. Addosso un cappotto leggero che copriva un abito di taffettà altrettanto leggero ed aderente: anch’esso generosamente votato a sottolineare le differenze di genere della specie umana.
Un’altra donna! Certamente. La metamorfosi era avvenuta rapidamente e senza apparente disagio da parte sua.

«Le faccio un assegno?».
«Come vuole. Può anche lasciare solo un acconto e poi dare il resto alla consegna».

Sta chiudendo l’ennesimo contratto a casa dell’ennesima nonna arresasi all’idea di non poter salutare questo mondo senza lasciare “un segno evidente e duraturo del suo amore” alla cara nipotina. Se i figli “so’ piezz e core”, i nipoti sono tutto l’apparato digerente: enzima dei libretti postali; via metabolica dei risparmi di una vita.
Dà un’occhiata al contratto mentre attende che la signora ritorni col carnet degli assegni. Una voce frettolosa di ragazza attraversa il corridoio accompagnata da passi leggeri e risoluti:
«Non tornerò prima delle undici».
Sì, è una ragazza. Diciassette, diciotto anni. Arriva nel salone senza accorgersi di Chiara. Rovista nelle tasche di una giacca appesa allo schienale di una sedia, si dà una rapidissima occhiata allo specchio a parete dell’ingresso, afferra un mazzo di chiavi dalla consolle e, mentre sta per prendere la porta ed uscire, si sente chiedere:
«Dove vai?».
Sorpresa dalla domanda di quella signora, risponde:
«Mi aspettano delle persone. Buonasera» ed esce.

Dopo circa un’ora, a tre isolati dalla casa dove Chiara ha chiuso il suo ultimo contratto, quella ragazza – eskimo e polacchine – si accalora in mezzo a un gruppo di coetanei, sostenendo, con la passione vergine della sua età, idee e teorie a difesa del protocollo di Kyoto.
Chiara è seduta nella sua auto, al di qua del muretto che delimita l’area entro la quale si trova il fatiscente edificio del Centro Sociale. Non riesce a staccare gli occhi dal portoncino dal quale è entrata la ragazza. Sta aspettando che esca, come aspetterebbe una madre.
Poi il suono sconcio del cellulare.
«Sì, signora. No, un piccolo contrattempo. Sarò da lei tra venti minuti. Sì… il lino toscano e i pizzi a tombolo… a tra poco. Buonasera».

Acqua benedetta che esorcizza i demoni del passato! Feticcio che salva dall’insostenibile ritorno alle fole di un tempo! Body-gard di un’anima in pena! Grazie, cellulare, grazie davvero.


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