Opere di

Raffaele Porfidia


Con questo racconto è risultato 6° classificato – Sezione narrativa alla IX Edizione del Premio di Scrittura Creativa dedicato a Lella Razza 2013


Il nano Cucciolo

Tutti presenti all’appello secondo la più classica delle tradizioni partenopee. Nonna Rosa impartiva ordini a raffica a nonno Carmine che, nonostante l’età, era carico di borse come un mulo sardo ed insieme a papà Gino faceva la spola fra la stanza n°5 del secondo piano di oncoematologia pediatrica e la nostra vecchia Fiat. Zia Angela e zio Gennaro erano impegnati in scenette comiche per strappare un sorriso al mio piccolo Ciro mentre faceva l’ultima dose di antibiotico endovena. Ripensavo ai due mesi trascorsi in quella stanza, passeggiando lungo quel corridoio con un grosso e largo passamano verde, e le ore trascorse a pregare nella piccola cappella al piano terra. Quella era ormai la mia routine, conoscevo a memoria il numero di gradini dall’ingresso sino al secondo piano, ogni piccola imperfezione del marmo di quelle scale ed il numero di battiscopa che mancavano sui pianerottoli. Già. Guardo sempre a terra, è un difetto che ho da piccola e che da quando ero entrata in ospedale non avevo alcuna voglia di correggere. Mi faceva uno strano effetto sapere che da lì a qualche ora sarei tornata ad Aversa e che la sera avrei mangiato e dormito a casa mia. «Eccomi qua» disse il dottor Izzo «questa è la terapia domiciliare che Ciro deve fare per cinque giorni. Per qualsiasi dubbio ho segnato i numeri del reparto. Chiedete pure di me. Ci vediamo a controllo il 15 del mese prossimo». Quando si avvicinò a Ciro per dargli un bacio ed un pizzicotto su quelle guance prosciugate dai giorni di ricovero, realizzai che ero stata fortunata ad averlo incontrato lungo quella via crucis. Ciro gli strinse forte le braccia al collo ed io dovetti trattenere le lacrime con un nodo alla gola. Sembrava strano, avevamo vinto la prima battaglia di quella nostra guerra ma ci dispiaceva lasciare medici ed infermieri di quel reparto. Raccolsi le ultime cose mentre il resto della famiglia aspettava l’ascensore. Ciro era in braccio a zio Gennaro, il suo compagno di giochi, con il cappello di lana blu nonostante la piacevole giornata di maggio; i lunghi capelli castani erano ormai un ricordo e non volevo che patisse qualche colpo di vento. Scesi a piedi. La claustrofobia mi rendeva tachicardica. Giunta sul primo pianerottolo mi fermai di scatto: Cucciolo! Avevo dimenticato il peluche preferito di Ciro sul davanzale della finestra. Risalii di corsa ed afferrai la punta del cappello facendo molta attenzione a quell’orecchio destro che Ciro, accarezzando continuamente, aveva ormai consumato. Senza Cucciolo non si dormiva. Scesi nuovamente ed il solo pensiero di dover gestire la malattia di Ciro senza il supporto giornaliero dei medici, mi fece mancare l’aria. Non voleva entrare nelle narici. Il cuore galoppava come un purosangue. Giunsi al piano terra. «Signora non si sente bene?» mi chiese l’usciere. Ero piegata in due nel tentativo di far passare l’attacco di panico. Non sentii la sirena dell’ambulanza: ero ormai abituata a quel suono. Venni letteralmente scaraventata via da un gruppo di medici ed infermieri che spingevano una barella. Feci appena in tempo a vedere un bambino di colore, con la maglietta bianca solcata dal sangue rosso vivo, che accedeva al complesso operatorio. La donna di colore che seguiva la barella, nel vedere la porta della sala operatoria chiudersi alle spalle del gruppo di medici ed infermieri, restò immobile. Alta, capelli lunghi e folti raccolti in una marea nera di treccine, formosa e con tratti marcati. Dritta sulla schiena, sguardo alto e fermo, non cedette ad alcun isterismo. Si guardò intorno e venne a sedersi accanto a me. «Sei la mamma del bimbo?» le chiesi. «Sì» e continuò a guardarsi intorno senza lasciar trapelare alcuna emozione. «Mi hanno detto che George potrebbe morire» mi disse con voce ferma. Le chiesi cosa fosse successo ed inconsapevolmente iniziai ad accarezzare l’orecchio destro di Cucciolo. Ariane è camerunense. Mi raccontò della sua via crucis iniziata sei anni prima. Era al sesto mese di gravidanza quando Nassor, suo marito, decise di cambiare vita tentando di arrivare in Italia imbarcandosi dalle coste libiche. Il viaggio della speranza per Nassor finì dopo poche miglia. Un tonfo nelle acque fredde del Mediterraneo ed Ariane riuscì a vedere ben poco in quel buio denso che si tagliava a fette. Nessuna emozione trapelava da quel ricordo. Passò la notte ad accarezzarsi il pancione nel silenzio più loquace della sua vita. George nacque a Castel Volturno ed era l’unico essere vivente al quale Ariane prestava attenzione. Lo aveva abituato a stare al semaforo aspettando che lei vendesse qualche pacchetto di fazzolettini o qualche alberello deodorante. George aveva la sua sediolina, un vecchio pneumatico di tir, nell’aiuola del semaforo e passava intere giornate a giocare con pezzetti di canne di bambù, pietre e qualche bottiglia di plastica. Quella mattina era agitato ed Ariane gli aveva promesso in regalo un pallone, appena avesse guadagnato due euro. George aveva la stessa età di Ciro e quando vide che Ariane mise in tasca le monete appena guadagnate, incurante del verde, attraversò la strada. Un anziano automobilista lo colpì in pieno facendolo rotolare sul cofano della macchina. <> dicevano in ambulanza. Ariane raccontava e le mie mani tremavano nell’accarezzare Cucciolo. Gino venne a cercarmi. Quando gli dissi che non mi sarei mossa da quella sedia sino a quando George non sarebbe uscito dalla sala operatoria, lui non capì ma si adeguò. Due ore a parlare senza spostarci di un millimetro. Una donna diversa da me. Ariane aveva fatto della solitudine uno strumento per allontanare George dai pericoli che gli africani debbono affrontare a Castel Volturno; la mia numerosa ed onnipresente famiglia restava invece un porto sicuro. Ariane era abituata a soffrire e viveva la sua difficile vita con coraggio e determinazione; il dolore e la malattia di Ciro mi sorpresero rendendomi ancor più fragile, isterica ed ansiosa. Ariane era una donna corazzata, io avevo messo a nudo le mie debolezze. Due mondi, due storie, due donne unite da una panchina del pronto soccorso. La porta si spalancò, il medico in divisa operatoria aveva lo stesso incedere sicuro del dottor Izzo. «La mamma di George?» chiese. Ariane saltò in piedi. «Abbiamo dovuto asportare la milza ma fortunatamente i danni al torace ed al cranio sono poco preoccupanti. Fra una settimana tornerà a giocare! Lo ricoveriamo al primo piano stanza n°5 e fra dieci minuti potrà riabbracciarlo». Ariane finalmente si tolse la corazza, pianse di gioia e mi abbracciò. Restammo cinque minuti l’una stretta all’altra; il suo braccio scivolò sul mio e lo ritrovai ad accarezzare l’orecchio di Cucciolo.

Raffaele Porfidia



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