Opere di

Piero Malagoli

Con questa opera è risultato 1° classificato nella XVII Edizione del Premio Letterario Città di Melegnano 2012 – Sezione narrativa


Questa la motivazione della Giuria:

«La graffiante, amara e al contempo pietosa ironia di quest’autore sagace e colto, pervade questo racconto, che è uno squarcio di storia francese, sotto il regno di Luigi XIV, il celebre Re Sole, durante il conflitto intrapreso tra la Lega di Augusta e la Francia, iniziato nel 1668 e conclusosi nel 1697, con la pace di Riyswijck, che la Francia sottoscrisse dopo essere stata battuta inesorabilmente sul mare.
La contrapposizione tra la miseria materiale e culturale del popolo, e la lontananza e il dispregio dei regnanti, chiusi nel loro criptico mondo intangibile e sconosciuto, sono rappresentati qui dal protagonista, Dominic Legrand, affetto dalla malattia dei miserabili sottoalimentati, la scrofolosi, una sorta di tubercolosi allora inguaribile, che doveva questo nome all’aspetto porcino che assumevano i malati, con piaghe e tumefazioni putride e mefitiche sul volto, sul collo, sul corpo.
Dominic, oltre a perdere la salute per le sue degradanti condizioni di vita, perde anche l’amore della moglie, a causa del fetore delle sue piaghe, e in un delirio di fede popolana, si appella incrollabilmente alla credenza che il tocco della mano del re possa guarirlo: era questa un’indiscussa quanto leggendaria tesi comune al popolino.
Intraprende il pellegrinaggio per esser guarito dal tocco regale, e ogni attimo di questa sua terribile avventura è contrassegnato da una volontà fideistica talmente radicata e positiva, da suscitare una pietà sconfinata e accorata nel lettore.
Ma nel finale, sarcastico e corrosivo, la cruda realtà vince ignobilmente sul suo afflato di salvezza: sarà ingannato e non sarà toccato dal re, malato egli stesso, ma da un suo sostituto.
Dominic non solo non guarirà, ma sarà anche mandato in guerra a sua insaputa, insieme a tutti gli altri pellegrini malati, ritrovandosi sul campo di battaglia d’improvviso, ad attendere la morte.
L’autore osserva mirabilmente la vicenda, scandendo l’interiorità del personaggio e i fatti storici nudi e crudi, senza mai intervenire, senza esprimere giudizi morali o partecipazione diretta alla sventura dell’ignoranza, della povertà, del male.
Delinea così un panorama essenzialmente giornalistico, ma di un’intensità corale, oscura e ammaliante, che cattura il lettore e permette di entrare nello scritto, e vivere all’interno del personaggio con forza trascinante.
Eppure, il male non risparmia nessuno: lo stesso re morirà anni dopo di un’orribile cancrena, e i suoi figli di vaiolo.
La miseria della carne non risparmia nessuno, e Dominic è quasi un simbolo di tutti noi, con i nostri mali, le nostre salvifiche suggestioni, la nostra lotta inane contro il potere occulto, le nostre sconfitte, e il nostro desiderio di resurrezione.
Una lode a questo scrittore, così intenso, incisivo e decisamente pieno di talento».

Alessandra Crabbia


Il tocco del re

Sulla piana di terra brulla antistante alla collinetta da cui si dominava la cittadina di Fleurus, Dominic Legrand se ne stava accovacciato, col ginocchio destro poggiato a terra, l’altra gamba piegata in avanti, stringendo con entrambe le mani la sua lunga picca di legno grezzo, cui era stata applicata una punta di ferro a forma di cono, infilata sulla sommità e fissata con tre grossi chiodi. La base dell’asta era poggiata dietro di lui, incastrata in un piccolo buco nel terreno retrostante, in modo che quando la cavalleria nemica avesse caricato, lui e i suoi sfortunati compagni della prima linea, avessero potuto alzare le picche all’unisono, tentando di rallentarla, infilzare il ferro nello sterno del primo cavallo che arrivava a tiro e fare leva verso l’alto, cercando di impalare animale e cavaliere; seicento chili lanciati al galoppo contro di lui, così carichi di ferraglia che a stento riusciva a intravedere gli occhi di entrambi.
Questo era il compito affidatogli, e come unico strumento, oltre al palo di legno, aveva ricevuto un leggero elmetto di latta, che sarebbe stato ammaccato da una semplice sassata.
Ma Dominic si sentiva abbastanza bene. Era convinto di migliorare di giorno in giorno, almeno così gli pareva, anche se le ultime giornate erano state piuttosto dure.
Vedeva le truppe nemiche sistemate su due linee, senza sapere chi fossero ed inalava l’aria mattutina impregnata dal tanfo sprigionato dalle piaghe suppuranti sul suo collo sudato. Gli pareva di riconoscere gli stendardi inglesi, bianchi e rossi, e quelli tricolori delle province unite olandesi, in un via vai indaffarato, dove maestosi cavalieri erano supportati da una masnada di poveracci come lui, vestiti di stracci. Dietro le spalle, tra le sue linee, si svolgevano le stesse scene. Dragoni corazzati su cavalli da guerra in gualdrappa rossa, parevano attori che ripassavano la loro parte prima di uscire sulla scena in un teatro gremito. Ma non si voltava indietro; cercava di ripensare al perché fosse lì e convincersi che in fondo era un giusto prezzo da pagare per la guarigione che si attendeva al più presto.

Tutto era cominciato poco meno di un mese prima, quando era partito dal suo villaggio vicino a Chaumont, per raggiungere Parigi, dopo un viaggio di oltre duecento chilometri. Era andato senza avvisare sua moglie Léontine, che avrebbe senz’altro intuito le sue intenzioni e di cui sentiva la mancanza più di ogni altra cosa. Anche se lei non sopportava più di vederselo intorno in quelle condizioni e lo obbligava a dormire fuori, sul retro della baracca, per non ammorbare l’angusto spazio della loro abitazione con il puzzo orrendo della sua malattia.
Era iniziata con il gonfiore di alcune ghiandole alla base del collo e sotto la mascella, ma per lungo tempo aveva sperato si trattasse di qualcos’altro, magari anche più pericoloso, ma non così umiliante. Quando però erano apparse le piaghe ed i suoi polmoni avevano cominciato a soffrire per i liquidi che li opprimevano, non aveva più potuto evitare la visita del cerusico del paese che aveva proferito la sua facile diagnosi senza nemmeno toccarlo: scrofolosi.
La forma tubercolare era così diffusa, che anche un buono a nulla come lui poteva vantarsi di riconoscerla a prima vista.
Jildaz Rolland, a dire il vero, le sue capacità le aveva. La velocità con cui operava, nel togliere denti o amputare un arto dilaniato, lo faceva apprezzare in tutto il circondario, ma con tonici, unguenti ed erbe era un vero disastro. D’altronde da un fabbro ferraio, sua primaria professione, non ci si poteva aspettare molto di più. Così, dopo l’infausta sentenza, sua moglie aveva cambiato radicalmente atteggiamento nei suoi confronti, nonostante gli sfoghi della malattia si fossero concentrati sul suo povero collo, deturpato da masse crescenti, ma gli avessero risparmiato il viso, così che d’inverno i baveri alzati e le sciarpe avvolte fin sotto il mento, avessero buon gioco nel camuffarne i sintomi.
Unguenti e suffumigi non avevano dato nessun risultato apprezzabile, così Dominic si era ritrovato ai margini della poca vita sociale che poteva permettersi, col suo lavoro di tagliatore di pietre.
Ma lui conosceva l’unico rimedio per quel male immondo che lo assillava. La scrofolosi era una piaga che gli uomini conoscevano da centinaia d’anni, e le uniche guarigioni certe di cui era a conoscenza erano tutte avvenute in un unico modo: con il tocco reale.
Due erano i monarchi che avevano il taumaturgico potere di guarire la malattia con il semplice tocco della loro mano: quello di Francia ed il suo collega inglese. Qualcuno gli aveva parlato anche del Papa di Roma, ma la cosa era per lui indifferente, perché il Borbone si trovava ad una settimana di viaggio da lì. L’unto dal Signore e la grazia della sua mano destra avrebbero potuto guarirlo, ridandogli la sua vita, la salute, e sua moglie Léontine, bastava un po’ di fede nel suo Re. D’altronde i racconti di guarigioni miracolose si susseguivano e spesso giungevano carte, anche a Chaumont, che venivano affisse fuori dalle chiese, in cui i miracolati raccontavano la loro esperienza e fior di medici ne attestavano la veridicità.
Aveva provato a proporre la cosa a Léontine, che aveva reagito così male da farlo desistere alla precedente chiamata, nel giorno della Santissima Trinità, quando Re Luigi avrebbe toccato gli scrofolosi. Ma pochi giorni dopo, quando il Gran Prevosto fece affiggere l’avviso per la galleria del Louvre, nella vigilia di Pentecoste del 1690, Dominic lasciò il paese quella mattina stessa, con un pezzo di formaggio di capra, per affrontare il viaggio verso Parigi e la sua guarigione.
Arrivò nella capitale dopo una settimana, il giorno precedente a quello dell’incontro. Dormì ai bordi del fiume con una miriade di altri ammalati che condividevano con lui la stessa speranza, tutti con addosso i segni più o meno evidenti di quello che da secoli era conosciuto come il Mal Reale, proprio per il potere di guarigione che Dio infondeva sul malato tramite la mano del regnante.
Il mattino successivo li fecero tutti entrare nel palazzo del Louvre attraverso il portone sul retro. Dominic non riuscì a raggiungere la Galleria, luogo deputato al passaggio del Re, ma fu stipato con altri in un cortiletto interno, dove furono rifocillati dall’acqua fresca di un pozzo e da alcuni canestri di pane non troppo raffermo. Lì, alla luce del giorno, Legrand si rese conto delle brutture che gli stavano intorno. Malati così colpiti da avere ghiandole grosse come arance che deformavano loro l’espressione del viso e tumefazioni che interessavano naso e labbro superiore, tanto da far loro assumere quell’espressione porcina che aveva suggerito il nome di quella malattia. In breve tempo l’aria divenne irrespirabile al punto che un paio di guardie che vennero a disporli lungo due file ordinate, tenevano costantemente una pezzuola imbevuta di profumo premuta sul viso. I poveretti stettero così ammassati, per tutta la mattinata e parte del pomeriggio, scambiandosi pochi commenti sulla loro provenienza ed il decorso della loro malattia, con il semplice frasario dei diseredati costretti a questi incontri di gruppo. Si diceva che i nobili e gli abbienti ottenessero incontri privati col Sovrano perché toccasse loro le ferite, e a Dominic pareva che ci fosse una certa giustizia nel fatto che anche i ricchi ne fossero contagiati; una sorta di democrazia del dolore.
La fede nel suo Sovrano era così totale da non dubitare minimamente che il tocco veloce, che avrebbe ricevuto tra mille altri infermi, fosse potente e taumaturgico quanto quello che avrebbe potuto ricevere qualsiasi principe in una seduta privata e non nutriva nessun timore di aver fatto inutilmente quel viaggio della speranza.
Aveva sognato il Re quasi tutte le notti da quando era partito. Il Re che gli imponeva la mano, che gli diceva di alzarsi e di tornarsene a casa guarito, il Re che arrivava a cavallo e chiamava il suo nome… proprio il suo, tra i tanti ad attenderlo.
Poi, verso le quattro del pomeriggio, ci fu un gran trambusto in fondo allo spiazzo, persone che venivano spostate bruscamente di lato, rumori di passi frettolosi che risuonavano, rimbombando sui muri delle pareti che racchiudevano il cortile interno. Prima due guardie, che si piazzarono ai lati del portone, poi altre, in rapida successione, che prendevano posto ogni pochi metri una dall’altra. Uscirono vari dignitari, con pergamene in mano, affrettandosi ad attraversare quello spazio maleodorante e brulicante di malati. Quindi un paio di gentiluomini, con bluse rosse e dorate, alte parrucche dai bianchi capelli aggiustati alla meno peggio ed infine, finalmente, lui… Re Luigi in coda al corteo… vestito elegantemente, ma in modo molto meno vistoso di chi l’aveva preceduto. Una blusa scura allacciata da una semplice cintura da cui pendeva la sciabola, il cui fodero tintinnava sulla fibbia degli stivali. Una semplice parrucca castana con i riccioli che ricadevano sul davanti a coprirgli la fronte e parte degli occhi. Subito calò il silenzio e le teste si abbassarono, tra il ticchettio dei tacchi sul selciato.
Il passaggio del Re fu un soffio. Un frusciare leggero di velluto e tela ricamata. Gli occhi bassi di Dominic si girarono appena quando avvertì la sua vicinanza, ma rimasero bassi, inquadrando solo una mano curata, con un singolo, semplice anello con una pietra verde sfaccettata, che gli sfiorò il collo, non direttamente sulle piaghe, ma dietro, vicino all’attaccatura dei capelli. Il Re non disse nulla, un gentiluomo che gli stava a fianco pronunciò per lui la frase di rito «il Re ti tocca, Dio ti guarisce» ed un magro frate dal naso adunco si prodigava, dispensando segni di croce all’indirizzo di nessuno in particolare. In trenta secondi tutto ebbe fine ed il piccolo corteo prese il portone di uscita sulla strada del fiume, dove lo sferragliare di carrozze in partenza si perse nel pomeriggio divenuto torrido.
I villani ammassati nel cortile cominciavano ad alzarsi dalla loro posizione prostrata, alcuni in silenzio, altri facendo commenti, ma Dominic restò fermo ancora un momento, in contemplazione, ascoltando quel calore che gli stava scendendo giù nelle viscere, come un brivido tiepido. Gli parve di avvertire fremere tutto il suo corpo, formicolare le sue piaghe purulente, come se il demonio in persona ne fosse stato espulso, scappando terrorizzato da quella nuova forza che era scesa in lui.
Poi il frate che aveva impartito la benedizione rientrò nel cortile spiegando in un lungo discorso come adesso avessero bisogno di aria salubre e di un’alimentazione regolare, per coadiuvare la guarigione a cui il tocco regale aveva dato inizio. Iniziò anche un discorso in cui si chiedeva loro di fare qualcosa per il Re, dopo che esso aveva donato tanto. Così furono fatti uscire tutti quanti sulla strada, dove sei capienti carri trainati da muli, erano pazientemente in attesa. Furono fatti salire e partì il loro secondo viaggio, dopo quello sostenuto per arrivare fin lì.
Le due settimane seguenti furono quasi una vacanza per Dominic. I chilometri percorsi giornalmente erano tanti, ma venivano fatti gran parte sui carri, da cui si scendeva a brevi tratti per i passaggi più impervi. Le soste erano cadenzate dai pasti più che accettabili e da momenti di riposo in cui ci si poteva stendere all’ombra di qualche albero a gustarsi il clima mite od il sole calante della sera. Molti dei suoi compagni di viaggio attribuivano a quell’aria salubre il miglioramento che Dominic sentiva procedere dentro di se, ma lui era convinto che questo avesse un’origine ben più divina.
Non sapeva dove fossero diretti. Capiva che ci si dirigeva a nord, attraverso la Piccardia, ma poi i territori conosciuti finirono e non si accorse nemmeno di aver lasciato il suolo francese ed essere entrato in quello belga.
Quindi ci fu l’arrivo al campo di Fleurus, dove regnava un gran fermento e dove, due mattine appresso, si svegliarono con l’orizzonte ingombro di stendardi e truppe schierate. Non sapeva si trattasse dell’esercito del Sacro Romano Impero, né di essere lì a combatterlo agli ordini del Duca di Lussemburgo, ma sapeva che glielo aveva chiesto il suo Re, ed era pronto a farlo.
Da quando era arrivato, però, le piaghe avevano ripreso a bruciargli come l’inferno e la respirazione si era di nuovo fatta difficoltosa. Ma la sua fede rimaneva incrollabile.
Guardò lo sventurato al suo fianco, armato come lui di una lunga picca, inginocchiato ed ansioso.
«Tu non sei malato…» osservò Dominic notando la sua aria sana.
«No… sono un forzato; se non fossi qui, mi avrebbero impiccato venti giorno or sono… Dal tanfo che fai direi che sei uno di quei malati buggerati a Parigi la vigilia di Pentecoste…».
«Non sono stato buggerato. Il Re mi ha toccato ed ora sto guarendo. Sono onorato di fare questo per lui…».
«Sì… guarito…» osservò il forzato sudando copiosamente di paura, mentre dalle truppe di fronte a loro cominciò a salire un rullo di tamburi ed un crescendo di cornamuse.
«…Il Re non era nemmeno lì, quel giorno. Da oltre un mese è rinchiuso a Versailles, a curarsi la gotta… Tutta Parigi lo sa…».
«Ma come puoi…?! Io l’ho visto…!».
Alcuni cavalieri di fronte a loro compirono una specie di arco, al galoppo, e si unirono ad un grosso plotone che scendeva in diagonale verso di loro. Si alzarono urla di assalto e di paura.
«Tu hai visto il Duca di Villeroy… lo fa spesso, quando il Re è troppo occupato… o troppo pigro…».
Poi le sue parole si confusero con lo scalpiccio dei cavalli che arrivavano al galoppo e nessuno disse più nulla.
Dominic non ebbe nemmeno il tempo di stupirsi di quanto aveva appreso, abbassando la testa e stringendo la picca fino a farsi male, con un cavaliere armato di mazza che si avvicinava in una nuvola di polvere diventando più enorme ad ogni balzo del suo cavallo.
Non sapeva se fosse stato effettivamente buggerato in quel modo, ma una cosa ormai non poteva continuare a negarla: non si sentiva per niente bene.



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