Il cantore del Ciùspi

di

Piergiorgio Bortolotti


Piergiorgio Bortolotti - Il cantore del Ciùspi
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa
15x21 - pp. 274 - Euro 14,50
ISBN 978-88-6587-3502

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In copertina: «Ritorno dai campi» fotografia dell’autore


Il presente romanzo è opera di pura fantasia.
Ogni riferimento a nomi di persona, luoghi, avvenimenti, fatti storici, siano essi realmente esistiti o esistenti, è da considerarsi puramente casuale.


Prefazione

Piergiorgio Bortolotti, con il suo libro “Il cantore dei Ciùspi”, rappresenta in modo umanamente affascinante e pervaso da profonda sensibilità, le vicende d’una famiglia con i suoi protagonisti e riporta alla luce i loro sentimenti, riuscendo a restituirli con nuova forza: riconoscimento ultimo d’un sigillo testimoniale della grande avventura che è la vicenda umana.
Il suo intento è scrutare la vita andando oltre la superficie e le apparenze, fino a giungere a ciò che è veramente importante nella vita: il desiderato approdo alla verità.
Con il pretesto narrativo di un casuale incontro con don Andrea, racconta la vicenda familiare di Lino, attraverso un recupero memoriale che si fa essenza stessa della vita, linfa che spinge gli esseri umani a percorrere cammini imprevedibili, costellati da difficoltà esistenziali, alle prese con relazioni sentimentali e le immancabili contraddizioni del vivere.
Nel mare magnum delle narrazioni riportate, seguendo l’itinerario storico familiare, Piergiorgio Bortolotti accompagna nella cronaca memoriale raccontando che Franzele si era invaghito e aveva sposato Minica, figlia di Giovanni Nane Gramola, della famiglia dei Ciùspi, che in dialetto significa “capelli arruffati”. Poi, il destino vuole che Franzele si innamori di Agata, donna meno bella di Minica, ma capace di ammaliarlo e, anche dopo il matrimonio di Agata con Ciro, la loro relazione rimarrà segreta: infatti, la moglie Minica resterà all’oscuro del rapporto. Nonostante tutto, dal loro matrimonio, nasceranno Tomasin, Catarina, Teresa, Bortolo e Giacomo, che sarà appunto il padre di Lino, l’uomo incontrato da don Andrea all’inizio del romanzo.
Ecco allora dipanarsi la storia di Tomasin e della sua relazione sentimentale con Ita, della famiglia dei “pinciòrli”, e le esperienze di vita del timido Giacomo che sposerà Annarita, donna che possiamo definire non esattamente “affidabile”.
Credo siano sufficienti questi rapidi cenni per far capire che ci si troverà davanti ad una saga familiare, che risulterà una sorta di narrazione epica con il sapore del tempo passato.
In un susseguirsi di riferimenti a vicissitudini familiari si giungerà, dopo le sofferenze ed i dolori causati dalla guerra, al ritorno in patria di Lino che sposerà, nel 1950, la sua amata Matilde. Purtroppo lei si ammalerà e Lino si ritroverà “solo”, ancora una volta, a fare i conti con la vita ed il destino, ma la vita riserva sempre sorprese e Lino diventerà amico di don Andrea che sarà anche il suo confessore.
Piergiorgio Bortolotti utilizza le sue testimonianze come possibili chiavi narrative per aprire nuove porte e calare la sua saga familiare in un cieco precipitarsi degli eventi con la lucida certezza che la scena del mondo, intorno a noi e dentro di noi, muta continuamente e la stessa narrazione modifica il ricordo di “ciò che è stato”: i personaggi diventano così presenze di una dimensione parallela ed il ritorno nei luoghi del passato fa riapparire di colpo l’atmosfera di un’epoca, dando seguito ad una precisa volontà di rendere una testimonianza straordinaria del significato stesso della vita.
Come sempre accade nelle opere di Piergiorgio Bortolotti, il “mondo del tempo passato” assume un significato simbolico e, con la sua capacità evocativa che permea ogni pagina, riconduce al continuo flusso memoriale che illumina i ricordi e le figure narrative che rendono in modo fedele un lungo periodo della nostra storia.
La coscienza della memoria è fondamentale e quando viene ammantata da intensità attrattiva come in questo romanzo allora siamo di fronte al cammino dell’Uomo: sicuramente arduo ma sempre rivelatore del perenne mistero della nostra esistenza.

Massimo Barile


Il cantore del Ciùspi


I

Per quale oscura ragione, sempre che ce ne fosse una, ora si trovava lì, in compagnia di quell’uomo, evidentemente alticcio, che gli suscitava dentro sentimenti opposti? Di commiserazione e di sincera pietà, da una parte, e dall’altra un senso di fastidio che si studiava di mascherare al meglio. Oh, lui era abituato a questo ed altro, e neanche faticava a stare in compagnia di persone petulanti, attaccabrighe, o mezzo delinquenti che fossero. Anzi, ne aveva fatto il suo ministero principale, se vogliamo dirla tutta. Stava bene in compagnia di quanti sono sbrigativamente giudicati degli scarti, nella mentalità corrente. Soltanto che quel giorno don Andrea, per tutti semplicemente Andrea, si era preso una pausa di tempo dai suoi molteplici impegni, e in compagnia dell’amico Gino, era uscito a fare un giro in macchina.
Avevano viaggiato per un’oretta lungo strade panoramiche, beandosi del paesaggio autunnale, per poi fare una sosta ristoratrice presso quel bar sperduto lungo via, che sembrava messo lì appositamente per consentire loro di dissetarsi, continuando nella conversazione avviata.
Invece accadde che si avvicinò l’uomo che ora gli stava seduto di fronte e che s’era messo a conversare, non senza prima averne chiesto il permesso, cosa che il Don s’era ben guardato dal rifiutargli. E come avrebbe potuto? Certo, avrebbe preferito esser lasciato in pace a conversare con l’amico Gino, se avesse seguito il proprio istinto. Ma lui era fatto così. Lui non si sarebbe mai rifiutato a nessuno, nemmeno se fosse stato stanco morto.
Era quasi una sua seconda pelle la disponibilità verso le persone. Una pelle non connaturata; se non in parte. Piuttosto frutto di maturazione umana e spirituale che aveva comportato anche le sue fatiche, ma che gli aveva fruttato non poche gioie, tanto da non poterne ormai più fare a meno.
Quando, infervorandosi, durante qualche sua conversazione, oppure parlando durante qualche dibattito al quale era chiamato a partecipare, affermava che la misura del cristiano è l’amore praticato nel quotidiano, non per dovere, ma per intimo convincimento, sapeva bene di usare un concetto evangelico, ma lui poteva asserirne la verità, semplicemente perché la viveva.
Lino, questo il nome dell’uomo che gli stava seduto accanto, con due bicchieri di vino rosso. Uno, se lo era portato appresso quando era uscito dal bar per salutare i nuovi arrivati; un altro glielo aveva portato l’amico col quale stava bevendo in precedenza, pochi istanti dopo.
«Ma non lo hai ancora terminato? Cosa aspetti?» lo rimproverò l’amico, portandogli il bicchiere colmo di vino.
«Non rompere i coglio…ni. Domando scusa», aggiunse rivolto a don Andrea. «Non per la parola coglioni, che in fondo non è poi una gran parolaccia, ma perché solitamente non tratto così gli amici. È solo che mi ha interrotto e a me non piace essere interrotto mentre parlo. Dico bene?»
«A me non ha dato nessun fastidio», spiegò il prete, sforzandosi di comprendere il ragionamento.
«Non ha importanza… Bevi qualcosa? Cosa posso offrirvi?» s’infervorò rivolto ai due amici.
«Niente; grazie. Abbiamo già ordinato da bere», osservarono all’unisono gli interpellati.
«Va be’ non insisto, però vorrei che fosse chiaro che io vi ho offerto da bere. Che io non sono uno spilorcio come certe persone… so ben io di chi parlo…»
«Vi ringrazio… come avessimo accettato…», provò ad aggiungere don Andrea, subito interrotto da Lino, che chiese perché mai gli desse del voi. «Io do del tu a tutti, ma non è per mancanza di rispetto, sai», aggiunse. «Credo che il rispetto per le persone consista in ben altro che usare il lei o il voi: non ti pare?»
«Sì, sono assolutamente d’accordo!»
«Meno male! Vorrei anche vedere che non fossi d’accordo. Tu sei un prete, mi hai detto, quindi dovresti sapere meglio di me che far del male alla gente, questo è peccato. Non certo dare del tu a qualcuno…»
«D’accordo!»
«D’accordo un bel niente! Non devi mica darmi ragione per forza, se pensi diversamente».
«Dico che son d’accordo perché condivido quanto dite», rispose il Don, continuando a usare il voi, per un innato senso di rispetto che in lui era molto forte.
«Io non ho ancora capito cosa sia un peccato mortale», continuò Lino, quasi seguendo un suo personale ragionamento, e interrogando indirettamente il suo interlocutore.
«…Per esempio tradire la sposa…» provò a spiegare il prete.
«No, non sono d’accordo…», commentò Lino, grattandosi la barba bianca e portandosi il bicchiere alla bocca. Le labbra carnose, color vermiglio, baciarono il bicchiere con voluttà, facendo scorrere dentro la gola dell’uomo un paio di sorsi della bevanda inebriante. Poi si ritrassero in una sorta di sberleffo di gradimento, mentre la lingua le accarezzava amabilmente.
La mano destra posò il bicchiere delicatamente sul tavolo, quella sinistra, callosa e con le unghie nere come la prima, lisciò la fronte spostando all’indietro il cappello di paglia calato sulla testa, illuminando di una luce nuova il viso dell’uomo.
«Non sono d’accordo», riprese il ragionamento l’uomo, accendendosi una sigaretta. «Una sveltina con un’altra donna non può essere un peccato mortale. Ti spiego anche il perché…» Prese tempo, aspirando una boccata di fumo. «Perché non ci si mette sentimento… Capisci? È una sbandata; en slipegon1…» Con questo era convinto di aver persuaso il suo ascoltatore, perché l’assioma gli appariva così logico e lineare, da sembrargli inattaccabile da ogni punto di vista.

Don Andrea si limitò ad ascoltare senza fare commenti. Gli sembrava di capire che l’uomo desiderasse soltanto poter parlare, esprimere la sua opinione; essere ascoltato, e che non fosse in cerca di pareri, consigli, approvazione o tantomeno benedizioni.

Lino acchiappò il bicchiere mezzo vuoto con la mano destra, lo portò alla bocca, vuotandolo d’un fiato; poi, depostolo sul tavolo, si asciugò la bocca con il dorso della stessa. Nella mano sinistra, tra il pollice e l’indice, reggeva il mozzicone della sigaretta. Portatolo alla bocca, aspirò un’ultima boccata di fumo, facendo cadere della cenere sul davanti della camicia. Soffiò per toglierla e inavvertitamente finì col soffiarla in parte addosso al prete.
«Scusa, scusa, son proprio un casinista», disse, allungando una mano per ripulirgli la giacca che aveva imbrattato.
«Non è successo niente. Che volete che sia…», rispose Andrea senza scomporsi, e ripulendosi, sbattendo una mano.
«Adesso devi accettare che ti offra una birra», riprese Lino. «Va bene una birra anche per te?» chiese rivolto a Gino, che in precedenza aveva bevuto un caffè. Poi, senza attendere risposta, emise un forte fischio, accompagnandolo con un: «Berto, porta due birre per i miei nuovi amici!»
«Se non ti dispiace», intervenne Gino, «preferirei un’aranciata».
«Ormai ho ordinato!» tagliò corto l’uomo. «Se vuoi un’aranciata, va’ a dirlo tu al barista».
Gino incassò senza replicare; si alzò, andando a chiarire la questione dentro il locale. Berto, il barista, in realtà aveva udito sì il fischio, ma non l’ordinazione, perché intento a tener testa, nella conversazione, all’altro uomo, anche più brillo del compare che stava fuori.
Quando uscì nuovamente all’aperto, sedendosi dove stava seduto prima, si accorse che Lino, ancora intento a conversare, o meglio, a continuare nel suo monologo avviato poco prima, aveva assunto ora un altro tono. Gli parve lacrimoso nel parlare.
«Io a mia moglie ne ho combinate un po’ di tutti i colori…» stava dicendo. «Però mi capiva, ah, se mi capiva… povera donna… Non mi crederai», disse, trafiggendo con lo sguardo il prete che gli sedeva di fronte, «ma le voglio più bene adesso che è morta che quando era viva…»
Don Andrea annuì senza proferire parola.
Tirando su col naso, asciugandosi qualche lacrima che era rimasta incerta sulle gote, poco sopra l’inizio della barba, aggiunse con tono sconsolato: «I giovani questo non lo possono capire… eppure è la sacrosanta verità…»
«Avete figli?» domandò con delicatezza, il prete.
L’uomo annuì e si portò il bicchiere colmo di vino alla bocca. Ne bevve un sorso, poi riponendo il bicchiere aggiunse: «Due; due femmine… Ma ormai sono grandi e vivono per conto loro».
«Dunque vivete da solo», osservò il prete.
Lino si strinse nelle spalle e senza aggiungere alcuna spiegazione, riprese a ragionare a voce alta, quasi risollevato: «Quando ero più giovane, ero un tipo telepatico». Il viso gli s’illuminò, mentre puntava con lo sguardo il suo interlocutore. «A mia figlia trasmettevo dei pensieri… tanto che quando glieli manifestavo verbalmente; quando glieli dicevo a voce alta», aggiunse a mo’ di chiarimento, «lei mi diceva: ma papà, me lo hai già detto! Pensa! Incredibile, no?»
«Non stento a crederlo; è possibile…», borbottò Andrea, senza troppa convinzione.
«Eh, i figli!» riprese. «Ma tu non puoi capire, sei un prete… Scusa, sai, ma bisogna averne per poter capire cosa significa».
«Non posso darvi torto».
«Lo credo…», mormorò, accendendosi un’altra sigaretta e bevendo un sorso di vino. «Prima di dire qualcosa a un figlio, bisogna pensarci almeno dieci volte…» osservò con tono pacato, accarezzandosi la barba. «Perché vedi», cercò di spiegare, soffermandosi un istante, quasi a voler precisare meglio il pensiero, «se fai loro qualcosa di bene», aggiunse con convinzione, e scandendo le parole, «lo dimenticano. Ma se fai loro un torto, ah, quello non se lo dimenticano mai! È garantito!»
«Questa me la devo segnare», intervenne Gino, accennando un sorriso.
«Trovi che sia vera?» s’informò, Lino.
«Non saprei, però la trovo interessante…»
«Sei un prete anche tu?»
«Certo che no! Ti pare abbia la faccia da prete?»
«E che vuol dire? Anch’io non ho la faccia da prete, magari un po’ da frate…»
«Per via della barba?»
«Per via della barba… ma solo per quella», ridacchiò Lino, portandosi il bicchiere alla bocca. «Alla salute!» aggiunse, prima di berne un sorso. «No, perché a parlare, bisogna avere una certa dialettica; giusto?» interrogò, dopo aver posato il bicchiere. «Ero andato a prendermi del materiale per completare un lavoro, poi sono passato di qui e n’ho bevù ’n celet2…», chiosò, tanto per aggiungere qualcosa.
«Forse sarà il caso che ce ne andiamo…», intervenne a questo punto il prete, dando una rapida occhiata all’orologio.
«Ma dove volete andare? Che fretta avete?» interrogò Lino, mostrandosi dispiaciuto.
«È che dobbiamo tornare in città, altrimenti facciamo tardi» spiegò, Gino.
«Abitate a Trento?» domandò l’uomo.
«Esattamente!»
«Ah, ecco, adesso capisco… Allora tu sei quel prete che ho visto qualche volta in televisione. Mi sembrava di averti visto da qualche parte…», commentò Lino, improvvisamente illuminatosi per aver saputo accostare vaghi ricordi con conoscenze, sia pur parziali e inesatte, attorno alla persona con la quale si era venuto a trovare casualmente in compagnia. Ora si ricordava più chiaramente che il nome del prete non gli era tornato del tutto nuovo, fin dall’inizio. Che di lui aveva sentito parlare in varie circostanze; di aver letto di lui anche talvolta sui giornali. Insomma, di essere alla presenza di un personaggio noto per il suo impegno pastorale.
«Potevi dirmi subito chi eri», si rammaricò Lino.
«E che differenza avrebbe fatto?» si schernì il Don. «Sono soltanto un uomo…»
«Hai ragione! In fondo sei un uomo tu e… forse anch’io», aggiunse un po’ sconsolato.
«Lo siamo entrambi!» rispose Andrea, con convinzione.
«Sarà!… Io forse un po’ meno». A questo punto Lino prese a narrare del suo amore per la lettura, aggiungendo che però a lui piaceva leggere cose riguardanti la vita reale, non romanzi, per intenderci, perché quelli, sì, potevano essere anche interessanti, ma non potevano competere con i libri che parlavano di cose realmente accadute. Si mise a fare un elenco di libri letti, a iniziare da Centomila gavette di ghiaccio, passando per il Sergente nella neve, ad altri di più recente edizione. Si capiva che riguardo ai primi due libri nominati aveva una conoscenza che non era soltanto legata alla lettura di quei testi. Doveva riallacciarsi a qualcosa di più personale, ma a questo riguardo non volle aggiungere nessuna spiegazione.
Dopo una lunga disgressione sull’argomento, farcita di ragionamenti talvolta poco attinenti il tema di cui stava parlando, e condita da non poche lacune e imprecisioni, tornò improvvisamente a ragionare d’altro, prendendo lo spunto da quanto letto in un racconto di un noto giornalista, che, in un suo libro, aveva parlato del padre alcolizzato.
«È quanto di più bello il… abbia scritto», spiegò, ai suoi interlocutori. «Perché, vedete, il suicidio non è portarsi un coltello o una pistola alla testa: no. In quel caso tutti accorrono a prendertela di mano. Il suicidio è questo», aggiunse, mostrando quanto teneva in mano: il bicchiere e la sigaretta. «Questo è suicidio! Bere e fumare. Perché io so che fa male; lo sento sul mio corpo… ma nessuno me lo impedisce…»
Andrea e Gino seguivano il dire dell’uomo prestandogli attenzione e formulando, ciascuno nel proprio intimo, considerazioni diverse. Più dubbiose e interrogative, il prete; decisamente più giudicanti il secondo. Non che Gino non fosse una persona aperta agli altri e disponibile, tuttavia riteneva di avere convinzioni abbastanza sicure e certe, in merito a tutta una serie di questioni. Talvolta appariva perfino indisponente a talune persone, quando manifestava certi suoi convincimenti, come quando, ad esempio, parlando di dipendenze in generale, pontificava che bastasse un po’ di buona volontà per tirarsene fuori. A chi gli obiettava che con la volontà da sola la cosa non era fattibile, lui rispondeva portando se stesso come esempio.
Anch’io fumavo una vola, e neanche poco, diceva, poi è bastato che un giorno il medico mi mettesse in guardia, prospettandomi i rischi cui andavo incontro e, dalla mattina alla sera, ho smesso senza tante storie. Certo ci vuole carattere, aggiungeva, ma insomma, se si vuole davvero farla finita, ci si può riuscire.
Tralasciava di dire che da quando aveva smesso di fumare, si era preso un’altra abitudine: annusava tabacco da presa e la mattina non disdegnava neanche qualche bicchiere di vino bianco; di quello buono, aggiungeva, quasi per parare possibili obiezioni, oppure qualche aperitivo, comunque alcolico.
«Nicotina, cocaina, caffeina, tutto quello che finisce con ina è una droga», sentenziò a questo punto, Lino. «Ed io devo ammettere che assumo la mia parte, ma che ci posso fare? Così, sono fatto», concluse, con un’ultima bevuta.
«Beh, certo, fumare troppo non fa bene», intervenne Andrea, «e anche col bere bisognerebbe andarci cauti… Però si fa quel che si può…»
«Adesso hai parlato bene» disse di rimando Lino. «Bravo! Così mi piaci. Tra dieci giorni dovrò ricoverarmi in ospedale. È già stata fissata la data; il cinque ottobre».
«Mi dispiace, sinceramente», lo interruppe il prete.
«A me anche di più», scherzò l’uomo. «Ma devo farlo. Ho problemi di circolazione alle gambe. Mi hanno detto che devono farmi un intervento di angio… so ben mi cossa3. In pratica, così mi ha spiegato il professore, m’inseriscono un palloncino in una vena…» e qui si mise a ridere divertito, probabilmente immaginando un palloncino come quelli colorati che si regalano ai bambini.
«Potresti venire a trovarmi, quando sarò in ospedale», propose Lino, che aveva preso in simpatia il prete.
«Questo non mi sento di potervelo promettere, ma senza dubbio mi ricorderò di voi, pregando».
«Meglio di niente… La settimana prossima mi dovrò mettere a digiuno», continuò Lino, intendendo dire che in previsione del suo ingresso in ospedale avrebbe dovuto iniziare a stare più sobrio. «Ma basta che inizi una settimana prima. È sufficiente, per svelenire un po’ il sangue» aggiunse, del tutto persuaso. «Di andare in ospedale non ho mica paura sai», riprese, «e neanche di morire, se mai dovesse succedere. Tanto ormai la mia vita l’ho vissuta…», concluse, meno convinto.
«Penso che andrà tutto bene, vedrete», lo incoraggiò il prete, alzandosi e facendo cenno all’amico Gino che era il caso di avviarsi.
«Allora te ne vai davvero?» interrogò Lino.
«È così. Mi dispiace, ma ora dobbiamo proprio andare; si è fatto tardi».
Proprio in quel momento si affacciò alla porta del bar l’amico di Lino chiedendo: «Ehi, Condoglianze, bevi un altro bicchiere? Io bevo ancora questo», spiegò, mostrando quello che teneva in mano, «poi devo proprio partire perché devo sbrigare qualche altra faccenda».
«Ma sì, portamene ancora uno; tanto ormai per oggi è belle che compiuta…» disse di rimando, Lino, mentre si apprestava a stringere la mano a don Andrea e a salutare Gino, in procinto di partire.
«È stato un piacere!» disse al prete stringendogli calorosamente la mano. «E scusami se con le mie chiacchiere ti ho seccato».
«Nessuna seccatura, mi ha fatto piacere stare in vostra compagnia. Vi faccio tanti auguri e grazie per la birra», rispose il prete.
Gino si limitò a stringergli la mano, accompagnando il gesto con un sorriso di circostanza, poi si avviò verso la macchina seguito dappresso dal Don. Montarono in automobile. Dallo specchietto retrovisore Gino vide l’uomo salire su un piccolo furgone e immettersi sulla strada provinciale con una manovra che gli parve assolutamente azzardata.
«Speriamo arrivi a casa senza fare incidenti» disse rivolto al prete.
«Speriamo bene…» aggiunse Andrea, facendo suo l’auspicio dell’amico. «Povero uomo» aggiunse, «mi ha suscitato profonda compassione. Mi pare evidente che si tratta di una persona sola e con non poche difficoltà».
«Osservandolo bene», replicò Gino, «a me ricorda tanto Umberto. Ti ricordi quel fioraio ambulante che qualche volta incontravamo per via?»
«Quello che finì travolto da un autobus qualche anno fa?»
«Sì, proprio quello».
«Sai che hai ragione! Adesso che ci penso, direi che gli rassomiglia molto. Con una differenza di non poco conto: il fioraio non era un bevitore. Strambo, sì, però non ricordo che bevesse».
«Hai ragione, non beveva, però quanto ad essere strambo, lo era anche Umberto, e neanche poco…»
«Oh Dio, neanche noi due, scherziamo», celiò il prete.
Conclusero con una gran risata.


Note

1 Uno scivolone.

2 Ne ho bevuto un secchio.

3 Non so bene cosa.


[continua]


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