Opere di

Patrizia Rigoni

Con questo racconto è risultata 8^ classificata – Sezione narrativa alla XVIII Edizione del Premio Letterario Internazionale Marguerite Yourcenar 2010


«Mal essere»

occhi

Spazzolino, crema da barba, pomata contro le scottature. Tutta qui, la mia valigia, nessun abito, nessuna giacca. E pensare che soltanto vent’anni fa ogni partenza voleva dire borse pesantissime, carichi sovrumani, lucchetti contro i furti. Adesso è così semplice, tutto si è alleggerito; ma due cose non mi posso mai dimenticare: la valigia degli obiettivi, lo strumento del mio lavoro, e quella più preziosa degli occhi di ricambio. Come fotoreporter di guerra ne ho raccolti una collezione intera.
Tutto era cominciato per caso, nel 1980, in Afghanistan: un ragazzo prima di morire mi aveva chiamato: la prego, prenda i miei occhi, mi aveva detto, vedrà le cose in un altro modo. E io l’avevo ascoltato. Due occhi verdi acquosi, giovani, che avevo indossato per un mese intero in quelle zone: riconoscevano i contorni delle cose in modo chiaro, nitido, abituati alla luce di quegli altopiani. Il servizio aveva avuto un successo straordinario. Avevo guadagnato subito moltissimo, e il mio direttore era entusiasta. Quando sono partito per l’Iraq ho avuto la fortuna di ripetere l’esperienza: sembrerà strano, ma i soldati che cadono sotto le bombe hanno sempre il desiderio che qualcuno continui a guardare per loro. Ed erano stati la seconda coppia di occhi, che ricevevo in regalo: erano più gialli, con piccolissime stelline incise tutt’intorno alla pupilla, che mi sembrava potessero vedere anche al buio. Vedevano di più dei miei infatti, anche nelle notti così nere di quei luoghi. Riuscii a godere dell’oscurità del deserto come se fossi nomade da generazioni intere. Eppure mi fu più difficile indossarli a lungo; mi confondevano, non potevo prendere posizione. Quando mi accorsi che capivo e giustificavo i lunghi abiti neri delle donne, li levai e li misi nel cassetto. Da allora ne ho collezionati più di una ventina. Ne ho un paio a cui sono legatissimo, sono i due occhi strabici di una bambina di cinque anni a cui avevo tolto una scheggia di granata dalla spalla, troppo tardi. Sua madre mi aveva pregato di accettare.
E adesso, adesso che sto partendo e tutto mi sembra pronto per questi due giorni di vacanza al mare, con la mia compagna che si rifiuta di essere confusa con la borsa dei teleobiettivi e con spavalda femminilità mi ha chiesto solo di essere guardata a lungo, sì, sulla spiaggia, mentre la pelle le si brucia sotto i raggi e lei ne prova godimento, e tutto mi sembra pronto, lo spazzolino è dentro e anche la crema contro le scottature, corro a prendere la sacca preziosa, ma ho un attimo di imbarazzo, peggio, forse è panico quello che provo, come se attendessi l’esplosione di una bomba: perché per poter vedere questa donna al mio fianco non so proprio quali occhi portare.

bocca

Non riesco più a parlare, accidenti. Una strana sensazione in gola, come se avessi le pareti di metallo. L’esofago mi stringe, la trachea ha la piega di una cannuccia. Oddio, potrebbe anche essere lo strascico di un incubo, dormo malissimo, ultimamente. Ma qualcosa mi dice che stamattina non potrò più salutare la portinaia, n… quell’impicciona della camiciaia che mi guarda sempre dall’alto in basso, ancora per via di un vecchio litigio. Sono anni che non riesco più ad avere un rapporto facile, con i miei simili. Ho la casa piena di televisioni, di radiotelefoni, di video libri. Lavoro sugli ipertesti e sui multimedia. E dopo dieci anni di questa vita, eccomi qui un mercoledì, un mattino come tutti gli altri, senza più voce. Senza più voce umana, almeno. Corro allo specchio: la gola è rosata, non di plastica al poletilene. I denti non sono caduti e la lingua non ha placche purulente. Ma non parlo. Nemmeno tra me e me, non riesco a raccontarmi i pensieri. Non odo la mia stessa voce. Mi sale soltanto un brusio sommesso e lento, come se mi stessi inventando una primavera. Rondini nere sembrano in picchiata contro i miei vetri. Ma io non sto pensando alla primavera delle gemme e delle nubi dietro i tetti, parlo di una mia primavera muta dei cinquant’anni, solitaria, improvvisa, sconvolgente. Nemmeno dopo essermi lavato i denti ho qualche beneficio. Tendo i muscoli del collo, nulla. Qualche esercizio alle mandibole. Il richiamo abituale del presidente sul video è confuso. Probabilmente c’è un temporale in corso e la mia una manifestazione di raucedine normalissima, a cui sto attribuendo un’importanza eccessiva solo perché stamattina ho quella relazione da presentare al convegno: Marketing and communication.
Certo è un guaio, faccio fatica persino a spiegarmi al telefono con il presidente, poi tentenno sui tasti del portatile quando devo inviargli i documenti, lui capisce che la situazione è allarmante, mi sollecita a presentarmi comunque, non può saltare tutto, siamo agli esiti finali e io non posso tradirlo proprio adesso, ha ragione. Devo vestirmi. Ho paura, potrebbe anche essere un embolo incuneato sulla zona del linguaggio, penso, quando ho il microfono in mano, e tocca a me parlare. Il presidente mi sfiora la spalla, affettuoso, paterno. Incoraggiante. Ed io gli credo, credo a quella mano: inspiro, deglutisco ancora, ho l’illusione di poter partire: ma ecco che con me, che girano nella mia gola come boe per scialuppe in tempesta non sono più parole in fila, n… funi di consecutio, attraverso la sensazione del buio improvviso, le consonanti scappano tutte lontane da me, svanisce la mia memoria di industria, di profitto e di obiettivi, e quello che mi esce è un canto di uccello, proprio quello delle rondini del mio balcone, non si può dire che io non stia parlando, mancano le lettere dell’alfabeto, eppure le rondini si sono sempre capite, sanno di appartenersi, ancora di più quando avvertono il mutare delle stagioni, adesso mi è più chiaro, io sto parlando al cielo e nessuno di quelli che ho di fronte mi può capire.

il corpo intero

Ah, la scrittura, alle sette del mattino, quando il primo camion della spazzatura della città fa il suo giro e il rumore rimbomba, passa sopra le foglie dell’edera e starnazza alle pareti, e il sogno di scrivere è ancora perfetto, la costruzione della frase che lo descrive è perfetta, un’incisione nel legno, il pensiero si ferma nel contemplarlo, l’effetto è sicuro, ma il gesto per alzarsi a scrivere non è ancora così tempestivo, le braccia escono allo scoperto nella stanza, si allungano nel vuoto e la pelle tutta deve svegliarsi ancora, i caratteri sono belli, anche da vedere, le vocali in ritmo alle consonanti, ma il camion butta fumo ora, e il rumore è talmente forte da fare aprire e subito richiudere le finestre, ah la scrittura, quando con questa pioggia ci sarà da prendere l’ombrello per evitare la metropolitana, troppo affollata, luogo di compressione senza una sedia per poter leggere altre parole e quelle luci bianche al neon che ubriacano gli occhi come per tenerli addormentati e prolungare la scelta subita del sonno, ah la scrittura, quando il telefono già suona, e sono le sette e dieci, bisogna fissare un appuntamento per la casa di riposo della mamma, ne abbiamo già viste una dozzina, tutte così inquietanti le premesse della morte, tranne quella villa riadattata, con le peonie sui camini e quella proprietaria dai capelli cortissimi e i piedi come due sassi di granito senza dita, scarpe come scatole nere stringate, come se nella volontà di trasformare la sua villa privata in casa per anziane donne non autosufficienti avesse a sua volta dovuto difendersi dalla paura di volare via negli aliti delle sue ospiti, un colosso d’argilla che ha la faccia della volontà universale, e il telefono manda tre squilli, e il cuore ha un battito già diverso, non è più così liquido, quella frase del primo risveglio ha un primo contraccolpo, l’immagine non è più nitida, qualche ritmo è saltato come tra brocche di terracotta, ma l’idea è ancora lì, sicura, basta tenerla ferma, il titolo del racconto è sicuro, bisogna decidere quali suoi abiti portare in valigia per questo lungo e forzato soggiorno e quando telefonare per il sussidio di invalidità, non possiamo farcela altrimenti, ah la scrittura, e anche il figlio ti chiama, è il primo piacevole disturbo della mattina, il primo piacevole sentire, quel ‘mamma’ che fino a un anno fa non sentivi e ti ha riempito la coscienza di fronte al mondo, perché quella voce ha parlato da subito con te, anche quando nella prima notte di vita di nascosto da tutti, contro il parere di tutti, invece del latte l’hai appoggiato alle labbra, le sue orecchie ben strette alla tua bocca, e l’hai nutrito di parole, gli hai spiegato quanto eri felice nel toccare ora i suoi piedi, nel saperlo vivo, vivo con te, e ora non puoi maledire se lui per anni, decenni, ti chiamerà, sempre, appena il dubbio lo assale, appena ha fame ancora e non di latte, ma di quelle parole alle orecchie e di quel seno caldo contro la pancia, ‘mamma’ e ora le prendi in braccio, e sono le sette e trenta, e in fretta lo devi vestire, devi portarlo all’asilo, l’importante è ripetere tante volte quella prima frase che apre il racconto, difenderla dalle circostanze avverse, tenerla scolpita fino a quando potrai, con la penna in mano, anche quando sei già in macchina, e parte la chiave, il faticoso rumore del motorino d’avviamento che con la pioggia dorme, ma bisogna chiamare il materassaio che ha lasciato il suo furgone proprio davanti alla macchina, è gentile, premuroso, accorre subito e offre un bacio al pargolo, come si fa a non rispondere alla cortesia proprio nel momento in cui guardando lo specchio retrovisore ti accorgi di esserti dimenticata di metterti la cipria e l’ombretto, perché in quella frazione di secondo in cui il bimbo era alle prese con la sua autonoma vestizione sei corsa a vedere se l’acqua di questa notte aveva spezzato le rose, ti hanno dato così gioia d’altra parte, si sono ripresentate anche questa primavera fedeli e ti hanno confermato come tagliarle, come scegliere i loro rami, è un po’ se anche loro fossero state maternizzate, ecco che la macchina è libera, il furgone è sceso dal marciapiede, è bello baciare il bimbo, non piange, è cresciuto con le sue dosi di amore, sa che sarà una separazione breve, provvisoria, ma quel bacio schiocca nelle orecchie e rompe ancora la frase, ti sei distratta, il titolo è ancora sicuro ma la prima frase si sta trasformando, non è più quella del sogno di scrivere, e uno dietro di te sta schiacciando il clacson, ha ragione lui, ti sei soffermata su questo bacio come se avesse un boato di un temporale, ma è solo il bacio della mattina di tuo figlio, – come si fa a raccontare di un bacio boato? -, non puoi tornare alle quiete illuminata del letto, e su quel tronco dove avevi inciso la prima frase la corteccia si sfibra, sembra cambiare colore, uno schermo mosso dal vento, tutto si agita e le parole sembrano cadere a terra, si vedono delle ombre ma il senso si è già perso, coraggio, ricominceremo, ricominceremo dopo, tra qualche ora, compiuto il dovere, ah la scrittura, e la tentazione del silenzio assoluto, di una vita in un eremo, con matite e fogli bianchi, per chiudere gli occhi ed evitare questo semaforo, l’aria è irrespirabile, sarebbe bellissimo camminare in un giardino, dove poter pensare, ascoltare il pensiero puro, e non solo le organizzazioni del pensiero, non salire queste scale, non incontrare queste facce d’angoscia, mille buongiorno a te che non ne diresti nessuno, che tutti lo dicano pure e lo ripetano, alle otto della mattina, ma non tu, tu che non sei pronta alla vita, non sei viva, e l’unica tua sedia potrebbe essere una poesia di Ungaretti, e allora sì che sarebbe un risveglio, e l’energia di diecimila buongiorno sparsi nel mondo che si aprirebbero nella mente, sono le nove e hai già incontrato vite da ogni parte, intralci al tuo fiato sonnambulo, devi rispondere a chi ti cerca, consegnare quel biglietto, fissare altri appuntamenti con il direttore, non puoi cercare una penna e di nascosto scrivere quella frase, con quella luce, lo schermo della pagina ora è teso di nuovo ma è completamente bianco, le parole sono a terra, galleggiano o forse volano via, ah la scrittura, potessi raccogliermi in una conchiglia riuscirei ancora a prenderla, quella frase, ‘state tutti zitti per favore, sospendete’ urlerei tra i muri, ma il palazzo è vecchio, grigio, pieno di echi, l’androne immoto, la tua voce si perde, aleggia intorno e le donne ti chiamano, si spingono, vorresti solo un pezzo di mare e il bacio-boato, sì, e la poesia da leggere sulle vette del mondo, dove hai l’impressione che il genere umano non ti possa chiedere più nulla, che gli orari non esistano, non ci siano altro che pensieri liberi, immagini che corrono, anche nel buio, non importa, le parole sono libere di correre dove non ci sono ostacoli di muro e sei tu e la scrittura, ah la scrittura, mentre anche adesso tutte queste signore che parlano tra loro verranno a chiederti come affrontare gli anni a venire, chiederti soldi e parole, e tu allunghi la mano, stringi la penna nell’altra, come se ci avessi racchiuso tutti i segreti dentro, ah la scrittura, ma anche questa mattina finirà, finirà presto, io rientrerò in casa, la casa sarà immobile, all’una tutti mangiano, una pausa è umana e necessaria, anche tu dovresti mangiare qualcosa, no, mi nutrirò di scrittura, è di questo che ho fame, dovete credermi, all’una vorrei mangiare figure retoriche e ossimori incrociati, metriche del duecento e ermetismi nuovi, io vorrei che qualcuno mi parlasse all’orecchie e mi facesse musica dentro, non ti sei riempita il frigorifero, non importa, devi assolutamente staccare il telefono, la cornetta è viva, viva come un cane, è un altro figlio a cui devi rispondere, ogni trillo porta il respiro ansimante di chi ti vuole, anche la radio spegni, accidenti, ah la scrittura, mentre il governo è stato formato, non puoi non ascoltare anche questa, sono saliti ministri con passato fascista nella seconda repubblica, ma allora che cos’è la storia, la storia di decenni, la storia che è già parola, parola, parola, ah la scrittura, il foglio bianco davanti a me, finalmente, con la radio spenta, il balcone a posto, il figlio ancora a giocare, il telefono che non squilla, lasciatemi scrivere quello che così bene avevo capito questa notte e poi avevo visto questa mattina in quella luce burro delle pareti che con tanta meticolosità ho costruito, lasciatemi vivere mezz’ora di scrittura, un momento, ma le mani sono ferme, gli occhi tremolano davanti alla luce dello schermo, accarezzo la tastiera opaca, io sono stanca adesso, ho la testa piena, non ho assaporato il silenzio delle vette, devo cercare dentro di me quello che sapevo così bene alle sette, ma voi ce l’avete ancora in testa, l’avete capito? non sentite tutte quelle parole che vi sono cadute tra le gambe, non inciampate in loro? Che cosa devo fare dunque io, quale compito mi date? Ho sonno, ora, perdonatemi. Voglio dormire. Domani, domani riproverò.

Ho un giorno intero di vita da raccontare.

Monica Gorret


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