Quando riuscirai a fermarti?

di

Paolo Fiore


Paolo Fiore - Quando riuscirai a fermarti?
Collana "Le Schegge d'Oro" - I libri dei Premi - Narrativa
14x20,5 - pp. 234 - Euro 14,00
ISBN 978-88-6037-9061

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In copertina: «Casa su costone roccioso» illustrazione di Irene Fiore

Nel retro copertina: «Casa con terrazzo ed isole sullo sfondo» illustrazione di Irene Fiore


Opera finalista al Concorso letterario Jacques Prévert 2009 – sezione narrativa.


Prefazione

“Quando riuscirai a fermarti?” di Paolo Fiore rappresenta simbolicamente il romanzo della salvazione dell’anima, nonostante la constatazione della dispersione dell’essere umano nel destino del tempo, quel tempo che scorre inesorabile ed implacabile, scandito dalle lancette dell’orologio che il giovane Rocco osserva quotidianamente, seduto sulla sua sedia impagliata, ed in quel ritmo del tempo, che lui asseconda con il suo perenne dondolare avanti e indietro, come fosse il detentore di quel perfetto moto pendolare che scandisce lo stesso svolgersi della vita d’ogni giorno nella sua famiglia.
In questa cicatrice del tempo, la vita oscillava tra l’ossessione della ripetizione di quel movimento e l’angoscia per il possibile delirio, il dramma da vivere vicino al fratello, malato e imprigionato nel suo mondo muto, da parte di Riccardo che ripeteva dentro di sé, assecondando quella stessa ossessione, la solita domanda: “Quando verrà quel giorno in cui riuscirai a stare finalmente fermo?”.
Le profonde e penetranti parole di Paolo Fiore formano la trama di quel vissuto che, solo in apparenza, conduce a perdere il senso dell’esistenza, il contatto con la vita cosiddetta normale, ma, in realtà, restituisce l’Uomo alla sua vera essenza, alla sua fragilità ontologica e alla sua temporanea follia, alla necessità di sublimare il tormento ed accettare la presunta diversità di un fratello universale, non come rovina e vergogna da nascondere come crede giusto sia fare il padre che, in fin dei conti, nasconde se stesso davanti al mondo, incapace di un minimo contatto emotivo con quel figlio che è considerato una “macchia nera” da pulire, da eliminare, bensì, come giungerà a fare Riccardo, e cioè, riuscire ad incarnare nel corpo di suo fratello Rocco, la presenza di un testimone muto, testimone del tempo, sanante le sofferenze più profonde, (di uno “spettatore capitale” come scrive Paolo Fiore), di ogni evento importante della sua vita e farlo assurgere a simbolo di una croce morale che ferisce e, al contempo, fortifica.
Ecco allora che il ricordo della vita, scandita dai soliti movimenti e dai consueti gesti, come lo sguardo fisso di Rocco davanti al grande orologio, deve fare i conti con la loro presenza proprio nel momento in cui possano venire meno: in quei rari istanti di una eventuale incertezza, di una imprevedibile sospensione dei consueti gesti, v’era il destino del tempo, la possibilità di un mutamento, di un cambiamento in quel lento scivolare nelle tenebre e la speranza di riuscire ad accettare le paure, la propria storia reale senza fuggire nelle illusioni e nelle falsità della vita.
Paolo Fiore racconta in modo stupefacente la condizione umana di Rocco, l’esperienza esistenziale di Riccardo, dell’altro fratello Marco e della sorella Maria, le contraddizioni esistenti tra i componenti del nucleo familiare e l’umanità delle persone che incontrano, in un susseguirsi di sofferte e travolgenti emozioni, di estenuanti tentativi di ricercare l’origine del disturbo psichico da sanare, della lenta maturazione umana che accetta la propria lacerante storia.
Nella scrittura di Paolo Fiore, profondamente e umanamente avvolgente, ecco allora che la figura di Rocco domina l’intera scena, scandisce i ritmi narrativi, rivela e svela, in un più ampio poema umano, la visione salvifica, proprio attraverso la scansione del tempo della stessa vita di Rocco: la percezione del mattino era il ticchettio del grande orologio, con il corpo di Rocco, come al solito, seduto sulla poltrona davanti ad esso, “non guardavamo l’orologio ma Rocco che lo guardava”; l’ora di pranzo era annunciata dallo stridore della vecchia sedia impagliata che si portava dietro per tutta la casa e dalla quale non si staccava mai perché era il regalo di suo nonno; la sera era contrassegnata dal tintinnio provocato da Rocco con un martelletto, colpendo l’inferriata e seguendo un suo personale ritmo; e, infine, quando era ormai notte, scuoteva la rete di recinzione del podere, continuando a far abbaiare i grossi cani da guardia, ondeggiando con il corpo avanti e indietro al solito ritmo instancabile.
Rocco non aveva parole, non si riusciva a comunicare con lui, ma i suoni che “creava” con il linguaggio delle cose, offrivano tutte le informazioni necessarie: lo stridore della sedia, il tintinnio dell’inferriata, l’abbaiare dei cani, il ticchettio dell’orologio, diventavano, come scrive Paolo Fiore, una sorta di linguaggio cifrato e, direi, un codice di riconoscimento della propria presenza.
Rocco aveva il suo spazio inviolabile contrassegnato da un fragile equilibrio che poteva “rompersi in ogni momento” e condurre ad un delirio: eppure era sempre al suo posto nel momento esatto.
Poi, capita che una mattina la poltrona davanti all’orologio è vuota e si evidenzia il precario equilibrio su cui è fondata la loro esistenza: il ritmo giornaliero di Rocco scandiva il tempo e la sua assenza significava l’angoscia.
Guardare dentro se stessi ciò che è stato vissuto, diventerà ricchezza di vita, un cammino verso l’umiltà, una discesa nelle tenebre per vedere dentro di sé, l’ultimo tentativo di un’apertura alla verità per scoprire il mistero nascosto del nostro Essere: la dedizione totale e l’amore infinito di una madre per il figlio, l’indifferenza e l’assenza di un padre che reputa il figlio una vergogna da nascondere, il destino dell’Uomo che è inconoscibile e sempre ammantato dal sapore amaro della sofferenza.
Paolo Fiore offre un romanzo che contempla la materialità della carne e la sostanza invisibile dell’amore, e attraverso l’estrema sensibilità e lo svelamento dell’anima, estrapola l’assunzione del principio di realtà e fa emergere dall’atonia dell’anima, la preziosa ricchezza di semplici gesti che diventano l’unico modo di aggrapparsi alla vita, un dono da custodire e difendere, perché esso solo conduce verso una liberazione del cuore.

Massimo Barile


Quando riuscirai a fermarti?


I.

“Quando verrà quel giorno in cui riuscirai a stare finalmente fermo?” Continuavo a ripetere tra me, mentre le pozzanghere di un attimo prima erano ormai dei laghi su cui si allungavano le nostre sagome funeree sullo sfondo di nuvole indifferenti.
Le suole delle scarpe affogavano, come se la fossa dovesse inghiottire in quel momento anche noi mentre il vento increspava la fanghiglia crivellata dalla pioggia.
Tutt’attorno l’odore di muschio si mescolava a quello della polvere sollevata e inumidita dal temporale.
Sbattevamo convulsivamente le palpebre per scacciare le folate di sabbia rossa dagli occhi che gocce di pioggia grandi e dure come gli sputi inappellabili degli abitanti del cimitero impastavano nelle nostre orbite, scavate anch’esse dalle piogge e dagli anni, mentre l’uragano della morte di mio fratello mi appannava inesorabilmente la vista.
Avrei dovuto, invece, ricordare ogni attimo di quel rito, conservarne per sempre la memoria di ogni atomo poiché, con quel trapasso, si compiva il tempo anche per noi che eravamo lì.
Quanto tempo era passato da quando ripetevo ossessivamente quella frase: “Quando verrà quel giorno in cui riuscirai a stare finalmente fermo?”
Avevo detto: ossessivamente?…, possibile avessi usato quella parola? Ma… sì, sì, proprio quella.
Mi sovvenne un attimo di lucidità, nettissimo e cercai gli occhi degli altri, vicino, come per capire se anch’essi avessero partecipato in quell’istante della mia stessa, inconfessabile, supposizione.
Se avessero percepito, anche solo per un momento, il mio stesso, tremendo, timore;
O, quanto meno, fossero stati sfiorati dal dubbio.
Ma gli sguardi si incrociarono soltanto, rimbalzando verso le personali, incommensurabili solitudini e le antiche incomprensioni rendendo ancora più inquietante e verosimile quella paura.
Ossessivamente, continuava a piovere.
Ossessivamente, avevo ripetuto per tutti quegli anni quella frase ma me ne rendevo conto soltanto allora.
O, forse, non sarebbe stato possibile prima.
La nostra vita era stata scandita da quel suo ritmico movimento del busto avanti-indietro, lo sguardo fisso nel vuoto che si trascinava per ore davanti il grande orologio di cui aveva conquistato il tempo, inesorabile, cadenzato, uguale.
Talora ci soffermavamo a guardarlo mentre fissava le lancette forse nella impossibile aspettativa che quella nostra attenzione avesse richiamato la sua su di noi, ma invano.
Poi, ci distraevamo o, meglio, ci illudevamo di farlo, sprofondando in mille impegni più o meno importanti, ma quando si concludeva questa o quella incombenza e dovevi fare i conti con il tempo, chiederti preoccupato o annoiato che ora è, riappariva all’istante la sua immagine e quel ritmico movimento del busto come un orologio,… al posto dell’orologio.
Non sapevamo mai quando quel perfetto, circolare, moto pendolare sarebbe stato perturbato nel suo ritmo, rovinando nel ciclone del delirio, allorché il suo timbro possente, di un’età molto più senile della sua, dopo alcuni rantoli incomprensibili in cui pareva si tendessero le corde vocali incrostate da un silenzio innaturale, rimbombava attorno frasi che ci inchiodava negli occhi come ci condannasse in un inappellabile giudizio.
La nostra vita oscillava tra l’ossessione della ripetizione e l’angoscia del cataclisma, senza plausibili previsioni, segni premonitori, o anche semplici, piccoli, indizi.
Scrutavamo, spesso, con una attenzione puerile per sembrare indifferenti, ogni suo movimento, a cogliere dei cambiamenti nei movimenti, un rallentamento nella frequenza dei piegamenti del busto.
Di tanto in tanto succedeva e sembrava di vedere le sue palpebre che cedevano al sopore stesso della ripetizione uguale e senza storia di quell’oscillazione perpetua, ma, poi, di nuovo, il ritmo riprendeva, riconquistava l’unisono e la cadenza ritornava perfetta.
In quegli istanti di incertezza passava l’eternità, il destino del tempo, la possibilità di una svolta, di un cambiamento, ma quando riprendeva la stessa cadenza dell’orologio al muro ci riassalivano insieme sicurezza e delusione.
Ero lì, dinanzi a quel marmo venato di grigi, che ricordava le saette disegnate sui quaderni della mia infanzia.
Quel marmo che mi riportava ai preistorici giorni in cui il magma torrido e pestilenziale si era incuneato nella materia già plasmata per solidificarsi in eterno in quella forma lanceolata che divideva inesorabilmente la terra per lasciarci una traccia indelebile.
E lì davanti ripensavo ossessivamente al suo corpo.
Anche le sue spoglie erano state prepotentemente conficcate nella terra, ma nel suo caso, nel nostro, il tempo le avrebbe corrose lasciandovi solo uno stampo, un calco vuoto, la sagoma approssimativa ma caparbia di una vita passata.
Ma non riuscivo, nonostante scappassi e mi rifugiassi in altri pensieri, ad allontanare quell’ossessione: chissà se pure in quella estrema dimora, così piccola anche per potersi soltanto rigirare, avvolto dall’involucro stagno di zinco e legno, continuava, anche dopo il trapasso, quel suo movimento instancabile, da ora forse veramente perpetuo.
Anzi, mi pareva che gli sguardi interrogativi degli altri presenti nascondessero proprio questo tremendo dubbio.
La pioggia aveva ormai guadagnato le soglie delle tombe più basse mentre il vialetto, trasformato in uno stagno, cominciava a popolarsi di quelle bestiole anfibie di cui ignori l’esistenza finché non le vedi.
Così che un rospo gonfio e viscido di fango sembrava emergere dalla pozza sollevando grosse bolle dal fondo della terra.
Due lumache screziavano di muco le larghe foglie di una galla rallentando ancora il tempo.
L’indomani le avrebbe trovate appena un metro più in là, magari accartocciate nella coclea, quasi fosse un sepolcro, nell’attesa di una nuova pioggia, quando fosse arrivata.
Il becchino aveva ormai suggellato di malta gli spigoli della tomba e con la cazzuola graffiò nel cemento il nome di mio fratello.
Mi passai il pollice sulla fronte per liberarla dalla pioggia e dal sudore mentre il vento via via più vigoroso mi gelava addosso il vestito quando, ad un tratto, spiovve.


II.

Molti anni prima… c’era stata una splendida mattina in aprile.
Passando nel corridoio non avevo visto Rocco seduto, come al solito, sulla poltroncina di fronte al grande orologio.
Andando di corsa, come sempre, non ci avevo fatto caso.
Stavo quasi per uscire quando mi chiesi che ora fosse per la prima volta quel giorno.
Ormai tutte le mattine, passando di là, non guardavamo l’orologio ma Rocco che lo guardava e sapevamo che erano le otto.
Così come sapevamo che nei pomeriggi di sole contemplava il tronco del grande castagno mentre quelli piovosi lo trovavamo sul vecchio dondolo del patio che modulava il pendolare del busto con la velocità della pioggia sulle larghe falde della veranda.
Noi conoscevamo l’irruenza del temporale dall’accompagnamento che Rocco ne faceva col busto.
L’ora dei pasti era segnata dallo stridore dei piedi della sedia impagliata e tutta sgangherata che a pranzo e cena faceva la sua traversata della casa per quattro volte ogni giorno, quasi fosse la statua del santo del paese.
C’era, infatti, un piccolissimo ripostiglio, un buco piuttosto, che era stato adibito nel passato all’abbandono di ombrelli ancora grondanti di pioggia e scope arricciate di ragnatele e polvere e che ora, invece, era la dimora di quella sedia speciale su cui il nonno lo sedeva ogni volta sulle sue gambe fino al momento prima di morire.
Lui la trascinava, silenzioso e deciso, fino al suo posto al grande tavolo della cucina.
Il rumore della sedia parlava per lui come il tintinnare dell’inferriata con un martelletto che aveva sempre con sé subito prima del calare del sole, fossero le nove di sera nei giorni d’estate come appena le quattro nei giorni d’inverno.
E le inferriate tintinnavano proprio alle nove d’estate e alle quattro d’inverno.
Ed infine l’abbaiare lontano dei cani, quando ormai era scesa la notte, ci informava che Rocco aveva afferrato la rete di recinzione del podere dei Caracciolo alla fine del lunghissimo viale verso nord, continuando a far latrare quei grossi cani dal pelo nero, i cui denti non riuscivano ad indietreggiarlo di un millimetro dalla rete che, invece, con forza faceva ondeggiare avanti e indietro al ritmo instancabile delle sue membra.
Ne avevano già fatto le spese i grossi pali in legno infilati nel terreno che con il passare degli anni erano divenuti sempre più instabili nelle loro buche, come denti cariati tra gengive stanche, destinati a cadere ad uno strattone più forte.
Rocco non aveva parole per noi, non ne aveva mai avute.
Nonostante fiumi di parole noi non riuscivamo a comunicare con lui ma il mondo circostante parlava a suo nome, ci raccontava le sue mosse, ci informava di lui.
Sembrava, come in uno specchio, che riuscisse a produrre quei suoni che non scaturivano dalla sua bocca attraverso il linguaggio delle cose con cui si relazionava in quel momento.
Per cui lo stridore delle gambe della sedia ci chiamava a tavola, il tintinnio dell’inferriata ci diceva che era sera, il ticchettio dell’orologio ci annunciava il mattino mentre l’abbaiare dei cani chiudeva la giornata.
C’era ormai un linguaggio cifrato che avevamo imparato ad usare empiricamente, sia pure senza conferme, senza accordi preliminari, bensì attraverso l’abitudine dell’uso, la fatica quotidiana dell’interpretazione con il tacito accordo degli occhi nel silenzio invalicabile degli sguardi.
Quel muro d’aria che ci divideva senza appello, senza deroghe, poiché era precluso il contatto, la pelle.
Rocco aveva la sua camera d’aria, così lo chiamavamo quello spazio inviolabile che lo faceva remota sostanza ad un palmo di naso dal mondo.
Ma quel filo inquietante di calma apparente poteva spezzarsi in un attimo, senza preavviso e i due capi tranciati, invisibili come lui, avvitarsi nella spirale del delirio.
Come un vulcano dormiente per anni esplodere senza indizi e dilagare, tracimare nello spazio intorno, sconvolgerne i contorni…

E quel giorno…
Non mi ero mai chiesto l’ora nei giorni precedenti, mi bastava sapere che a quell’ora Rocco era seduto lì, come sempre.
Ma quella mattina, non vedendolo, provai il bisogno, anzi, l’assoluta necessità di sapere che ora fosse.

[continua]


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