Opere di

Paolo Brondi


Frammenti di verità

SINOSSI

C’è sempre una moria di nomi dentro di noi. Pochi si salvano e magari non sono neanche i migliori, si salvano per caso o per paura. Non è così per il nostro personaggio che dal dramma improvviso che sconvolge la sua vita riesce faticosamente a recuperare un insieme di frammenti, macchie d’olio che galleggiano sull’acqua della memoria: una memoria ostinata come una malattia legata a un passato a prevalenza di ombre. Il passato di un professionista affermato, psicologo, terapeuta, criminologo, la cui storia s’intreccia con esperienze estreme, come la lotta fra partigiani e nazifascisti, che pure non esclude la forza dell’amore; con segreti a lungo nascosti e infine svelati; dilemmi e tragedie familiari ; delitti e distruzioni provocati da perversità ideologiche ; psicologie giovanili fragili e vittime di predicazioni affabulanti ma estremamente nocive; mentalità depressive e scelte brute di chi medita tremende vendette o fugge alla ricerca di introvabile verità. Attento a cogliere le opposte vicende di quanto accade, oltre le pesanti coltri dell’ombra, cerca affannosamente ciò che porta rinnovata luce, nel gioco mitico esistenziale di Erinni che giungono inconosciute ad alimentare la sete di vendetta o a ingenerare pietà verso la miseria umana, o dell’Eros che stende le sue ali fascinose su occasioni d’amore, creando insperate atmosfere…


INDICE

PRIMA PARTE – Settembre 2000 – Dicembre 2002: Nel giro del passato e nella luce del presente

SECONDA PARTE – Dal 2001 al 2007 – Dal chiuso dello studio alla luce delle attività investigative

TERZA PARTE – 2007-2009- Varietà dell’esistere, amare, soffrire rinascere
QUARTA PARTE – 2009-2012 – Incompiutezza e speranza
QUINTA PARTE – Dalle ombre del passato alla luce dell’amore

TARGET LETTORI: Il mondo femminile; gli studenti; i professionisti, avvocati, medici, ingegneri, architetti; persone sensibili, istruite e non, bisognose di aprirsi allo stupore, al piacere, al divertimento, allo svelamento dei segreti


FRAMMENTI DI VERITÁ

Non vi è nulla di nascosto
Che non debba essere rivelato
Né cosa segreta
Che non venga alla luce
Sacre scritture


PRIMA PARTE
Settembre 2000-dicembre 2002

Nel giro del passato e nella luce del presente

1

Continuavo a percorrere una strada deserta. Mi ero messo precipitosamente in macchina, senza riflettere, su quale strada immettermi, ma deciso a smettere di pensare che la mia vita potesse essere diversa . Mi affidavo all’istinto per tenere la destra e rispettare la luce dei semafori. Guidavo immemore dell’ora e dello spazio, in balia di un drammatico ritornello. Improvvisamente mi trovai sul ponte di un fiume torvo e precipitoso. Posteggiai la macchina dietro un folto cespuglio, e m’incamminai su un viottolo in discesa fino a raggiungere il greto. I miei occhi, attirati dalla vorticosa corrente, pareva mi guidassero a farmi trascinare via. Restai immobile, seduto su quella sponda, in compagnia del nulla. Poi mi prese freddo e la voce possente del fiume mi riscosse. Cominciavo a dirmi di non disperare: dovevo fronteggiare quella situazione, dominarla, uscire insomma da quello che volevo fosse solo un brutto sogno. Tutto era nato da una serie di circostanze negative che mi avevano fatto dubitare sulla mia professionalità e sulle mie relazioni sociali e affettive. Ero stanco di vivere ? Ero depresso? Stavo vivendo la crisi dei quarant’anni? Non lo sapevo ! Non potevo darmi un’unica risposta! Non una verità, ma frammenti di verità avevano cominciato a interessare , drammaticamente, la mia vita. Intanto nel fiume cresceva il moto ondoso e le acque illuminate dal sole al tramonto, sembravano draghi impazziti. Mi appoggiai ad un ramoscello e cullato dall’eco ondoso mi addormentai. Rimasi lì fino all’alba del giorno dopo. Da tempo non riuscivo a dormire tante ore senza svegliarmi: per bere, per ascoltare i messaggi registrati e per poi tornare a letto insonne..


2

Il barbone
Ero così compreso nel travaglio dei miei pensieri che non mi ero accorto della presenza di una strana figura . Vestito di cenci, capelli tutti arruffati e lunghi, barba folta e ispida, ed occhi, di un blu intenso e profondo, molto mobili e vivi., se ne stava rannicchiato poco distante da me. Cominciò a parlare, come in un soliloquio, dicendo: “È bello tuffarsi nel mare sterminato dell’avventura umana per abbracciare le onde confuse del fondo… cogliervi il fluttuare di mille destini e intesserne poi i disegni nella propria immensa tela…”. Quelle parole, così strane, così inconsuete, mi colpirono. Sembravano una sorta d’invito ad accettare se stessi …per ritrovare un’immagine di sé più veritiera e accettabile. Era strano, tuttavia, il fatto che, nonostante i cenci e l’incuria di barba e capelli , da quell’uomo non partissero sapori maleodoranti, ma un profumo del tutto naturale. D’impeto gli chiesi- “Chi sei? Perché sei vestito così?” E il barbone con un mezzo sorriso, rispose: “Sono un viandante che un giorno ha smarrito la strada consueta ed ha scoperto nuovi sentieri e antiche verità…Mi vesto di stracci per mantenere le membra al cospetto delle leggi dell’esistere…quasi nudo e tutto povero…”.
Ascoltavo quell’uomo con crescente imbarazzo, sentendo crescere in me la paura che non a caso mi avesse incontrato . Dovevo essere vigile e cauto e con voluta noncuranza gli dissi: “Coperto di stracci, ritrovare l’umiltà e la fatica degli inizi, credo sia una buona terapia, ma ricominciare da zero questo è il vero impegno”. E il barbone:
“Il mio non è un ricominciare da zero, ma è voce del destino che invoca là, ove ogni tempo è sconvolto”. “Che cosa vuoi dire… vuoi forse farmi capire che sei destinato a morire?”. “Non domandarmi quello che tu stesso sai. Seduto qui come sei, sul ciglio del fiume sotto l’ombra della morte…” A quelle parole trasalii e dissi: “Ti ringrazio per l’aiuto che sento vuoi darmi, ma dimmi come ti chiami e chi sei veramente?”. “Non ti sto dando un aiuto, ma mi stupisce la forza attrattiva di quelle acque che sembrano disporre gli eventi secondo la casualità dei propri flussi e riflussi. Quanto al mio nome. Un tempo avevo un nome, ma ora sono soltanto uomo. Chi sono veramente? Sono un individuo gettato nel mondo. Un mondo che mi ha trascinato in un ritmo frammentato e irredento e da cui mi sto liberando. Sono come le rondini che tornano ai propri tetti, anche se abbandonati da tempo, ma non ho più un tetto…Sono memoria che contiene il passato…tutto il passato, lo conserva, lo costituisce come presente e lo rende quindi senza epoca…È bastato un soffio di vento, come per foglie d’autunno, a mutare le condizioni. Quel soffio, visto con occhi diversi, può divenire la forza che gonfia le vele del nostro vascello, della nostra esistenza, ma tempesta e rovina si è fatto per me…” . Ascoltando quel dovizioso monologo, sentivo accrescere i miei dubbi. Di che tempesta e a quale rovina alludeva il barbone ? pensai Ma a questo punto ritenni di non approfondire i tormenti e le elucubrazioni del barbone e decisi di fare il punto sulla situazione in cui mi ero messo e dissi:
“Su, alzati. Vieni con me”. Mi attendevo una reazione convulsa , ma accolse subito il mio invito. Raggiunsi la macchina. Feci salire il barbone accanto a me e mi avviai verso casa. Durante il breve viaggio, dal greto del fiume al mio appartamento, situato in una villa alle porte di Forte dei Marmi, mentre guidavo , riflettendo sula stranezza della mia crisi e trovata rinnovata sicurezza, il barbone appariva quieto e si guardava intorno.


3

Chiarità e ombre oscure…
Un tempo, quella stessa strada che costeggia il fiume e poi scende al mare, lui, il barbone, la faceva in moto. Era felice nel correre così, lasciandosi alle spalle case, prati, gente, mentre il vento dilatava i pori, scompigliava i capelli, in una corsa simile al tempo che si lascia alle spalle ogni cosa, anche se con la moto indietro si torna, con il tempo non si torna mai. Era una MV 125, correva come un fulmine per strade, allora assai scarse di traffico, e in un baleno gli permetteva di superare l’entroterra e di raggiungere il mare, ove lo attendeva la ragazza di turno. Fra le tante ragazze che allietavano la sua adolescenza, c’era Luisa, con la quale si trovava sempre a suo agio. Allora non seguiva la moda, pur consueta, dei capelli lunghi e della barba incolta, ma era un piacevole ragazzo, alto e bello, sempre serio e, talvolta, un po’ malinconico. Quando s’incontravano, nel tardo pomeriggio, dopo i doveri di scuola, si mettevano seduti accanto, su una panchina del loro viale alberato e ombroso. Lo percorrevano al mattino andando alla stessa scuola, il Ginnasio-Liceo, e a lungo parlavano, discutevano, scambiandosi espressioni e pareri su tutto, insieme a dolci sguardi. Lei gli diceva che erano ottimi amici. Lui le faceva la corte e sentiva di innamorarsi. “Silvì – così vezzosamente lei lo chiamava- perché sprofondi i tuoi occhi su me? Vorrei accogliere quel calore e ridartelo, ma non posso…non posso innamorarmi di te…amo un altro ragazzo.!” Quante accorate domande allora le fece! Non credeva vero che amasse un altro. Stavano così bene insieme e le carezze, gli sguardi non lasciavano intravedere altri a goderne. Comunque se ne fece una ragione e, orgogliosamente, da quel giorno evitò di incontrarla. Nelle ore libere dallo studio cominciò a scrivere, riempiendo di nuove parole pagine vuote, pensando che gli uomini tanto più scrivono tanto più soffrono. Il dolore canta, gorgoglia, esce a fiumi dalla docile penna e in una selva di segni neri si riscopre a fatica la vita. Il dolore aveva cominciato a essergli compagno da quando conobbe la sorte del proprio padre, per bocca di sua madre che, tra un singhiozzo e l’altro gli narrò delle torture subite dal marito a causa dei nazifascisti. “Lo odiavano perché era stato partigiano, aveva a lungo lottato contro i tedeschi e i fascisti…ha difeso tutti dalle barbarie della guerra…ha aiutato tanti ebrei a sfuggire la cattura e la prigionia. Nei giorni successivi alla resa delle forze tedesche in Italia e fasciste repubblichine, lo hanno preso, torturato e me l’hanno restituito moribondo…”. Aveva appena nove anni e, pur non comprendendo del tutto le parole della madre, da allora si promise di ricercare per tutta la vita, gli assassini di suo padre. Visse con l’assillo di quella promessa, e serrate le mascelle, cupo nel volto, non c’era uomo in cui s’imbattesse, che non destasse il suo angoscioso sospetto. Un giorno, appena compiuto sedici anni, fu attirato nella cellula del partito comunista. Una stanza a piano terra di un antico palazzo di Sarzana, con arredo spartano: un semplice tavolino, una macchina per scrivere, una decina di sedie, ma con un soffitto a crociera e affreschi floreali alle pareti. Si scoprì accolto con calore da tutti i presenti. “Siediti qui, vicino a me- gli disse un vecchio comunista- io ero amico di tuo padre…un grande uomo… coraggioso e fra i più sinceri patrioti.”. E un altro: “Sì. Proprio così…tuo padre ci ha insegnato a difendere sempre la libertà e la dignità umana”. “Non solo la libertà ma anche molti di noi ha difeso… -pronunciò con foga un altro compagno-io stesso ero caduto in un’imboscata di tedeschi e lui, Atos, così lo chiamavamo, guidando i suoi uomini, mi venne in aiuto e mi liberò…Era notte. Non li videro arrivare e il manipolo dei tedeschi fu decimato!”. Si commosse nel sentire quei ricordi e soprattutto nell’immaginare il padre nella foga della battaglia e chiese: “Ma com’era mio padre…e chi l’ha ucciso…Voi lo sapete?”. Gli rispose con voce tremula il vecchio comunista: “Tuo padre era un uomo forte, salda la sua voce e belli erano i suoi occhi che ti fissavano e ti leggevano dentro…Tu gli somigli tanto…hai gli stessi occhi…Chi l’ha ucciso? Lo sanno tutti e non lo sa nessuno…ma devi stare attento …è gente pericolosa ancora oggi…se vuoi cercare chi lo ha torturato fino a farlo morire… fallo in silenzio…ascolta le voci dei nostri nemici…”. Dopo tanto tempo di buio e di sottile tormento, gli pareva ora di scorgere spiragli di luce. Il corso del suo sentimento s’imbatteva in una certezza che ne arrestava la foga, indicando l’epicentro della sua ricerca che intuiva indirizzarsi verso la parte avversa al comunismo…Da allora, svolto i compiti del giorno, all’imbrunire bazzicava intorno alla sede dei nemici del comunismo, la destra erede dei nazifascisti. Voleva conoscere volti, sentire parole, vedere gesti che potessero orientarlo a individuare i responsabili della morte del padre. Scartò i giovani e puntò l’interesse sugli ultrasessantenni. A poco a poco, imparò le loro abitudini. Si ritrovavano spesso nello stesso bar ove passavano parte del pomeriggio, giocando a carte. Non si accontentò di osservarli. Con l’aiuto di un gruppo di amici, compagni di scuola, che condividevano le sue idee e, la sua passione, ne conobbe anche i nomi, le condizioni, l’indirizzo di casa. C’era il proprietario dell’hotel Aurora, un ex funzionario di banca, un ex dirigente del Comune, un ricco agricoltore, un ex funzionario della prefettura, un avvocato, un ex dirigente dell’E.C.…Si scambiarono i ruoli. A giorni alterni, Silvì e un paio di amici entravano nello stesso bar, con l’intento di osservare da vicino a quel gruppo di uomini e di ascoltarne le voci. Apparentemente non emergeva nulla di particolare. Si scambiavano pareri sul gioco, scadevano in battute tra il goliardico e il triviale e poi, giorno dopo giorno, apparve chiaro che alcuni di loro, l’agricoltore, il funzionario di banca, l’avvocato, erano particolarmente arroganti e quasi feroci, nello scambiarsi epiteti e sbottando in frasi come “Ti faccio quello che sai …ti ricordi com’ero bravo a seviziare…”. Decisero di approfondire la storia di ciascuno di loro. Lo sconforto lo prese quando, seguendo il primo indiziato, l’ex funzionario di banca, fino casa, una palazzina alle porte della città, scoprì che lì abitava Luisa, la ragazza che gli aveva detto di non amarlo più …Forse la verità era un’altra. Forse Luisa sapeva. Quell’uomo era suo nonno, e forse per questo si era inventata quella bugia…L’occasione per rivederla gli fu offerta da una festa di compleanno. Il festeggiato era Luca e aveva invitato nella sua casa gli amici della sua classe e di quella di Luisa. La Festa si teneva in giardino e i giovani erano tutti sparpagliati qua e là. S’incontrarono, senza volerlo, dietro un cespuglio di rose. Lei sgranò gli occhi, sorrise dolcemente e gli gettò le braccia al collo: “Quanto ti ho pensato…Non è vero che non ti amo…non ho un altro ragazzo” gli disse e lo baciò. Lui non rispose al bacio… rimase inerte e freddo. Luisa si staccò e lo guardò triste: “Perché fai così…vuoi punirmi…Ti chiedo perdono…Avevo paura di legarmi troppo a te…, ma ora non più”. “Non sei tu che devi chiedere perdono- lui, esclamò- ma quelli che hanno mandato a morte mio padre…e tu certo sai qualcosa.”. “Che cosa dici…io non so niente…non sapevo di tuo padre! E poi perché mi parli così ?”. E fece per scappare via…La trattenne, la abbracciò e le disse “Lascia stare…te lo dirò un’altra volta…ci sono cose più grandi di noi…ora divertiamoci”. Si presero per mano e si mescolarono agli altri.



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